Sto sfogliando un libro ormai introvabile. E' "La prova del fuoco", di Carlo Pastorino, ed. Bastogi, 1982.
Le pagine che hanno assunto quell'inconfondibile gradazione giallo avorio che viene dal contatto con molte mani ripetuto nel corso del tempo.
Non più odoroso di stampa, ma di scaffale. Un libro dimenticato.
Perché sono andata a scovare proprio questo, fra i molti volumi che coprono i muri di questa stanza?
Il fatto è che qui in Vallarsa ho spesso la sensazione di camminare in mezzo a una folla silenziosa, anche quando sono del tutto sola.
Calco i piedi su questa terra e sento con forza la presenza di chi qui ha passato i suoi giorni prima di me.
Guardo il colle del Parmesan, laggiù, a poche centinaia di metri da me, e ricordo con stupore che lì, fra 1'8 e il 12 giugno del 1916, sono morti duemila soldati.
Duemila uomini, in soli quattro giorni.
Invano, perché l'assalto italiano non mosse le posizioni nemiche che di pochi futili metri.
E così potrei proseguire all'infinito.
Perché qui in Vallarsa ogni anfratto, ogni rotondità, ogni cresta, ogni vallone raduna muto i suoi morti.
Decine di migliaia. C'è chi dice centomila. Tutti racchiusi in questo piccolo catino verde.
Ecco perché ho fra le mani il libro di Pastorino.
Lui c'era, qui, allora. Ha visto. Ha vissuto. E' rimasto per mesi tenacemente aggrappato a queste rocce "come le rondini ai cornicioni di una casa", per usare parole sue.
E nonostante quello che ha attraversato sia esperienza da togliere il sonno e la ragione, riesce a restituircene un racconto limpido e asciutto.
Commosso, spesso.
Ma anche estremamente lucido, e capace, nel resoconto nudo dei fatti di guerra, di raggiungere una cruda e essenziale concretezza che ci mette l'orrore ben chiaro davanti agli occhi.
"Scagnettiportò una gravina. Presi io la gravina e scavai nello spiazzo sul quale era la tenda.
La punta acuminata penetrò in qualche cosa di molle, e un non so che di liquido schizzò su.
E col liquido ci investì un orribile fetore.
Scagnetti si allontanò, inorridito. - E' un morto! - gridò, poi, a distanza.
Era un nemico. Povero nemico!
E io avevo dormito, la notte, sopra di lui.
Ora lo ricoprimmo ben bene, con molta terra, e la tenda fu trasportata più in là."
Così è Pastorino. Senza veli. Senza artifici retorici.
Rivelatore, in questo, della sua matrice contadina, non guastata nella sua concretezza dagli studi letterari terminati poco prima che la storia lo precipitasse qui, sugli orli scoscesi di queste rocce.
Verso la retorica continuerà a nutrire, del resto, una desolata avversione.
Troppo atroce l'evidenza di quel che gli sta sotto gli occhi, per poter sopportare le parole di chi la vela e la imbelletta.
"Vieni, leggi qui - mi disse un altro mattino Donzelli.
Era una rivista con poesie di guerra: e portavano una firma famosa.
Io lessi; egli mi ascoltava tacendo. Tutt'a un tratto scattai e buttai via la rivista.
C'era tanta vuotezza in quelle poesie, che noi ci sentimmo colpiti come da un'offesa fatta a noi stessi.
(...) C'era in noi l'impressione che il poeta non capisse nulla della guerra, che nulla sentisse;
che per lui la guerra altro non fosse che un campo d'immagini nuove, di coreografie impensate, di spettacoli grandiosi:
questo, e nulla più.
E, chissà mai perché, si correva col pensiero a Nerone e all'incendio di Roma."
Figlio di contadini, nato a Masone, in Liguria, nel 1887, riesce, nonostante le condizioni umili della famiglia, a compiere con merito gli studi letterari.
Porta, nella durissima esperienza degli anni di guerra, questo bagaglio di sensibilità e cultura, che gli darà occhi acuti e commossi nel vedere la miseria della condizione che condivide con i suoi uomini, e con quegli uomini, pochi metri più in là, a cui vien dato il nome di nemici.
"Dalle vette più alte e dalle feritoie delle gallerie vedo anche alcuni versanti dei monti tenuti dal nemico.
Osservo i sentieri aperti fra la neve, dove lunghe teorie di puntini neri si muovono.
Sono uomini: i nemici. Rimango lì a lungo col binocolo agli occhi; e penso: poveri nemici:
essi, là, soffrono come noi, qui.
Anch'essi camminano nella neve e anch'essi versano lacrime furtive:
e le lacrime si raggelano all'orlo degli occhi.
Salgono, lentamente, affaticati: portano pesi sulle spalle: munizioni e viveri.
Salgono alla loro linea la quale, a guardare di qui, è visibilissima:
è anch'essa simile a una serpeggiante viottola di talpa, a pochi metri dall'altra, la nemica, che è la nostra.
Perché noi, per essi, siamo i nemici."
Eppure, nonostante l'acuta consapevolezza della morte e della distruzione che lo circondano, Pastorino riesce ad attraversare questa disarticolante esperienza senza mai perdere la propria dignità umana.
Capace persino, in mezzo a una realtà in cui "tutto mi appare informe, caotico, senza alcuna stabilità", di vedere la bellezza del mondo che lo circonda, giungendo ad amare profondamente i posti impervi in cui la sorte lo ha costretto a vivere.
Così, ad esempio, di ritorno da una licenza a casa: 'Al passo delle Dolomiti la neve era altissima.
Il camion entrò in una magnifica galleria, aperta in essa; e quando ne uscì, s'era nella Vallarsa.
Io la salutai con gioia, la Vallarsa, e mi pareva d'esser tornato a casa mia.
Rivedevo tutti i miei monti: erano candidi, e brillavano al sole.
Non mi erano mai apparsi così belli.'
E così, mentre con gli occhi seguo gli spostamenti di Pastorino lungo i fianchi della montagna (ecco lì il Trappola, la sua prima tappa all'arrivo; e là sopra il Corno Battisti, dove ha passato mesi arroccato coi suoi uomini, mesi interminabili di durissima prima linea.
E là sotto il cimitero militare di Anghebeni, che ha dato origine a pagine intensissime sulla sorte dei poveri, destinati a esser carne da cannone, mentre chi può vive, bene, imboscato nelle retrovie), mi domando perché questo libro sia stato dimenticato.
Il suo posto buono è nelle scuole, e fra le mani dei lettori.
A ricordare, assieme alle opere di Remarque, di Junger, di Lussu, che cosa sia stata veramente la Grande Guerra.
Fiorenza Aste
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