09/01/2009 - Articolo da www.ladige.it
Di moleskine ne ha già riempiti tanti, e non solo quello che Mauro Corona gli ha ficcato in tasca, un giorno del 2004, ordinandogli di tramutarlo in un libro. Il signor Broz e gli altri (Alfio Skorzan, Arboris e Serafin, Livio e Fortunato...) animano da qualche anno l'intimità dei paesaggi interiori del jobrero , ma anche noi lettori possiamo dire di conoscerli un po', grazie alla decina di titoli che raccontano lo scorrere lento e lieve della vita nella piccola-grande Vallarsa. Il volto di Mario Martinelli , il figlio della beat generation che al bivio fra la vita e la morte ha scelto la sua montagna - curandosi e guarendo con la natura e i suoi silenzi - è tornato sugli scaffali delle librerie da qualche mese. Ma ad impugnare la penna questa volta è Fiorenza Aste , insegnante e autrice di racconti, che con «Il montanaro» (editrice La Grafica, 15 euro) esplora il vissuto, le scelte e la filosofia di vita dell'«alpinista delle capre». Lo fa attraverso le conversazioni con il solitario scrittore, raccolte in queste 170 pagine inframmezzate da varie istantanee. E il jobrero , con le sue risposte a tanti perché, si racconta volentieri, passo dopo passo, nei luoghi topici della sua «solitudine aperta»: ad uno dei tanti spalti affacciati sul Leno, o sotto l'ombrello autunnale di una faggeta, quando l'aria del pomeriggio è ancora tiepida ma sa già di brina e di terra dura. È il suo dialogo di tutti i giorni con il Corno, il Kerle e gli altri fratelli selvatici della Vallarsa che rinserrano in un abbraccio i tesori della natura guaritrice. C'è posto anche per le riflessioni «montanine», nel lessico di Mario, sotto i campaniletti delle Piccole Dolomiti: «L'uomo ha così tanta paura di morire che deve lasciar tracce dappertutto, dovunque passa», dice di fronte ad una targa ricordo del Cai. «E fa di tutto per renderle indelebili, le sue reliquie. Farebbe tenerezza, se non fosse che in questo modo sfregia ogni luogo che attraversa. Guarda qui. Ogni cosa intorno a noi è com'è da milioni di anni. E di fronte alla tremenda bellezza di questa roccia vergine, l'unica cosa che viene in mente all'essere umano è prendere un trapano e imbullonare una targa di oro fasullo...». Restano lontane, quasi la cintura di monti le respingesse, le inquietudini dell'alpinismo da primato o i traguardi autoimposti di chi sale (o corre) orologio alla mano: «Spesso chi va in montagna, oggi, ci va come si usa adesso affrontare i viaggi: tutti protesi verso la meta, pensando che il cammino in quanto tale non abbia nessuna importanza. E così vedi gente che corre su fino alla punta, e poi si gira e ricomincia a correre giù, finché non è arrivata alla base... È che la gente è sempre più stimolata dalla droga televisiva, fatta di corsa, di competizione, di record, di spettacolarismo; se non vai a fare la scalata più rischiosa, o la salita più ripida, non ti senti considerato, ti sembra di essere un signor nessuno. E in questo modo inneschi un meccanismo senza fine: avrai sempre bisogno di battere il tuo record personale, di dimostrare di essere all'altezza dei modelli che questa società insensata ti propone». Le conversazioni con «il montanaro» non sono pagine di denuncia ma contengono più di una denuncia, spesso implicita o sottesa, di un modello sociale che altera il senso stesso di natura o di montagna. Non sono racconti, ma narrano un viaggio verso la consapevolezza di sè che vede il jobrero in cammino, talvolta anche solo sui sentieri della mente. E non sono una biografia del «montanaro» che non conosce consuetudine se non l'attesa dell'imprevisto, ma ne delineano con sicurezza la figura: «Lascio che la vita venga come vuole», confessa lui. E se avesse ragione? F. T.
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