L'impronta
Un racconto di Giorgio Broz


La salita lungo la strada degli Eroi è una classica passeggiata senza alcuna difficoltà per l’escursionista medio. Il tragitto dal Pian delle Fugazze e fino alla galleria d’Havet, può essere percorso in un paio d’ore di camminata tranquilla.
La nevicata di qualche giorno prima, però, era stata abbondante ed ora la semplice passeggiata si trasformava in una salita degna di essere presa in considerazione. Sci, pelli di foca ed attrezzatura già ampiamente collaudata per questo tipo di escursioni erano pronte ed ora, mentre uscivo di casa, il fascino della salita in quelle condizioni, mi attraeva in maniera particolare.
Arrivato al Passo Pian delle Fugazze, all’inizio della strada degli Eroi, il freddo della mattina, al momento della levata del sole, era accompagnato da un vento gelido che entrava anche dentro gli scafi di plastica degli scarponi mentre mi stavo preparando.
- Si tratta solo di un po’ di disagio momentaneo - mi dicevo, perché la giornata, mi pareva promettesse benissimo: una fredda e limpida giornata d’inverno. La neve molto alta, spinta all’imbocco della strada dai mezzi spartineve, mi dava il benvenuto. Scavalcato l’ostacolo, il mio passo un po’ irreale che trascinava alternativamente lo sci trovava una neve sporca, sbattuta fin lassù dalle macchine impegnate nella pulizia della strada sottostante. Poco dopo però, si trasformava in una distesa candida, che sentivo tutta per me. Appoggiando lo sci nello strato soffice, quasi mi dispiaceva lasciare una traccia e mi sembrava di rovinare qualche cosa di intatto, di puro. Mentre pensavo a queste cose, i primi raggi di sole mi colpirono alle spalle come per darmi forza e la mia ombra, lunghissima e sgraziata, mi camminava davanti.
Al primo tornante, in corrispondenza del sentiero che sale di fronte all’albergo, vidi la traccia di una racchetta da neve: una sorpresa in questo bianco mare di neve. Le impronte, abbastanza vicine tra loro, indicavano la strada e aiutavano a sprofondare meno, e quindi a fare minor fatica. Seguendo la traccia, al secondo tornante mi accolse il grandioso panorama verso Est.
Un’immagine antica, lo spettacolo dell’alba, ma sempre nuova.
Quel mattino c’era una luce forte, potente, e le nubi si presentavano rosse, quasi da tramonto. Fermata d’obbligo dunque, per provare ad immagazzinare questo momento speciale oltre che nella mente, anche nella memoria della mia fotocamera. Inquadrai quindi quel paesaggio maestoso e scattai alcune foto, ben sapendo, comunque, che nessuna immagine a posteriori potrà mai eguagliare la bellezza dell’esperienza che si vive al momento.
Ogni tratto di salita offriva scorci magici con la luce radente del mattino che s’infilava attraverso le piante ancora cariche di neve. E le piante si abbracciavano sopra la strada, dando l’effetto di attraversare tratti di una galleria irreale.
Ma ecco un po’ avanti, nuovamente l’orma della racchetta da neve che ancora mi precedeva. Notai che si trattava di un passo corto che immaginavo di una persona pesante e mi preparava la neve già un po’ battuta. Da solo è sempre un po’ difficile tenere il passo con un ritmo regolare perché non ci sono riferimenti. L’unico rumore che si sentiva era il trascinare dello sci sulla neve ed il “tac” metallico degli attacchi che toccano lo sci ad ogni passo.
Ssst, tac, ssst tac…
Durante qualche attimo di pausa per guardarmi attorno e godere del panorama, sentivo nel petto e quasi nelle orecchie un rimbombo fondo, ritmico: è il cuore che trasmette un altro rumore.
- Chissà se sarà d’accordo a pompare un po’ più forte del solito - mi domandavo, e non so se per la fatica o per l’emozione, ma lo sentivo forte e mi faceva compagnia. Mi chiedevo anche a chi mai appartenessero le misteriose impronte che mi trovavo davanti. E ancora mi domandavo:
- Ma quanto sarà avanti? Chi mai sarà? E a che ora sarà partito? -
Pensavo che potesse essere Adriano, o forse no, qualcun altro, ma chi?
Di solito è sempre Adriano che incontro d’inverno sul mare di neve delle malghe a Campogrosso. Più volte le nostre escursioni solitarie si sono ricongiunte sulla strada del ritorno. Altre volte, in massima libertà, ognuno ha concluso il suo giro per la propria strada. Domande, ipotesi, pensieri, considerazioni, risposte, tutto da solo lungo i tornanti, sempre più su ed oramai già al ponte di Val di Fieno. Il posto era riconoscibile, anche se del ponte non c’era traccia: la neve aveva coperto e livellato tutto. Qualche tornante più avanti, apparve la casina dell’ex malga, anch’essa quasi sommersa dalla neve. La scorsi prima dal basso e poi la osservai dall’alto: sembrava riposare ricoperta dal bianco manto.
- Al ritorno passerò a dare un’occhiata - mi dissi - ma adesso continuo la salita.
Tutto sembrava riposare nella calma invernale, tutto sembrava rallentato dal freddo. L’inverno concede un periodo di tregua e sospende la confusione provocata dalla marea di gente che frequenta questi posti. La neve attutisce i rumori ed al tornante di Punta Favella già da tempo erano spariti. Silenziosa e sempre presente l’impronta misteriosa mi precedeva; la mia curiosità andava aumentando e fra i vari pensieri s’insinuava anche una certa impazienza, ed il desiderio di incontrare la persona che camminava davanti a me. Da questi pensieri mi distraeva la bellezza del paesaggio: lo spettacolo grandioso della valle innevata, dei boschi imbiancati e della montagna di neve, enorme e schiacciata dal vento, che rendeva irriconoscibili luoghi noti.
Il Cornetto con il suo profilo inconfondibile mi stava di fronte e sotto vedevo la pianura veneta innevata. La strada, oramai ridotta ad uno scivolo di neve molto pendente, mi obbligava a procedere cautamente. Lo sci appoggiava per un solo centimetro per tutta la sua lunghezza e la neve era indurita dal freddo e dal vento. I passi, rallentati dalla tensione, erano sempre più prudenti poiché era necessario prestare la massima attenzione. La fatica e la concentrazione non mi fecero distrarre da un fatto strano: mi accorsi improvvisamente che le impronte che precedevano il mio passo erano sparite!
- Ma come è possibile? - mi chiesi e guardai in basso tra le rare piante pensando ad un incidente e nello stesso tempo sperando di non vedere niente.
Più avanti, in un punto meno pericoloso, sganciai gli sci e ritornai indietro aiutandomi con la piccozza. Dopo un po’ mi accorsi che altre impronte avevano sostituito le precedenti. Ad ogni passo, ora c’erano dodici fori nella neve.
- Chi mi precede ha indossato i ramponi… Saggia decisione! - mi dissi, e anch’io continuai perché non vedevo l’ora di uscire dall’enorme scivolo che si mostrava sempre pericoloso. Poco dopo, la pendenza laterale tornò accettabile e subito apparve nuovamente la “vecchia” impronta.
- Oramai sono affezionato - pensai e quasi rinfrancato mi fermai a riguardare il panorama attorno con il cielo che regalava un blu intenso e pulito che solo quassù si può gustare. Osservai più in basso la sponda sinistra della Valle inondata dalla luce del mattino e in lontananza potei ammirare molte cime, profili di montagne, di cui mentalmente ripassavo il nome.
Mano a mano che procedevo, un sole quasi freddo e bellissimo sfiorava il profilo dell’Emele e giocava con i rari rami dei mughi che emergevano dalla neve.
Decisi che queste belle immagini dovevano essere conservate e così mi concessi ancora un po’ di tempo per fissare questi istanti nella mia fotocamera.
Dopo la pausa il percorso si fece più facile ed anche il mio passo divenne più sciolto, la tensione era sparita, pareva fosse uscita dai muscoli lasciando il suo posto a nuove energie.
- Fra dieci minuti sarò alla galleria - pensai e procedetti spedito.
E mentre avanzavo, improvvisamente, le tracce della racchetta da neve…divennero due...
Come mai? Non capivo. Sull’ultimo sottile strato di neve portata dal vento c’erano due tracce. Rimasi bloccato, perplesso e tornai a guardare nuovamente l’impronta, anzi le impronte: una traccia era rivolta a valle e scendeva girando dove c’è il ripido sentiero che porta verso Val di Fieno. Allora capii: chi mi aveva preceduto era già tornato indietro, ma passando da questa scorciatoia, non c’eravamo incontrati. Era questa l’unica spiegazione logica possibile. Accanto al piacere di avere svelato il mistero, sentii dentro di me anche una grande delusione perché mi fu chiaro che non avrei incontrato la misteriosa persona e provai insieme una forte sensazione di solitudine. Il silenzio che mi avvolgeva in quel mare di neve divenne all’improvviso pesante, e sentii una sorta di disagio, forse di timore.
- Non c’è nessuno - mi dissi guardando e riguardando l’impronta girata a valle.
Da tantissimo tempo non provavo paura nelle mie escursioni, ma ora quasi sentivo riaffiorare questa antica sensazione. Mi dicevo però che non era paura, ma consapevolezza di essere lassù da solo. Mi dicevo anche che non cercavo certo compagnia in quell’uscita, ma nel contempo mi rendevo conto che all’impronta mi ero affezionato, che forse volevo pure gratificare la mia curiosità e sapere chi mi aveva preceduto quel mattino.
- Adriano, Adrianooo… - chiamai rivolto verso valle, ma con poca convinzione.
Mi rispondeva solo un profondo silenzio, lo stesso che ormai da quasi da tre ore mi teneva compagnia.
Rassegnato, ripresi il passo con calma, consapevole di poter contare solo su di me, come del resto ho sempre saputo in queste mie escursioni solitarie.
L’imbocco della galleria d’Havet quasi non si vedeva, tanta era la neve, e il grande piazzale era un enorme scivolo bianco.
Sganciati gli sci, stesi le pelli e mi avventurai all’interno del budello pieno di neve. Non è il mio ambiente, quel buio inospitale, ma andai avanti perché in fondo s’intravedeva un po’ di luce. Gattonando con la schiena che a tratti sfiorava la volta della galleria, riuscii ad arrivare dall’altra parte. Sbucai all’esterno quasi come una talpa e subito mi si riempirono gli occhi ed il cuore per la vista di un altro grande spettacolo: un tratto di Pasubio per me inedito e irriconoscibile. C’erano enormi scivoli di neve ghiacciata molto pendenti verso Val Canale ed in lontananza si vedeva il rifugio quasi sommerso. Seguendo con lo sguardo il tracciato della strada non vidi nessuna impronta, ma solo i segni delle valanghe che erano già scese. Non mi sfiorò nemmeno l’idea di proseguire: altre sarebbero state le attrezzature necessarie ed altro l’allenamento. I miei limiti li conosco bene e queste rinunce non mi pesano. Diedi un saluto a quel posto solitario ed incantato e tornai indietro già con il pensiero del ritorno a valle. Arrotolate le pelli di foca e rimesse nello zaino, presi la borraccia e mi gustai un bel sorso di caffè d’orzo con vino, ancora caldissimi. Il piacere di qualche sorso mi trattenne un po’; mi sentivo riscaldato fin dentro l’anima. Quel posto sembrava un paradiso di calma, di silenzio e di pura bellezza con la luce abbagliante e la neve candida. Si stava bene e pareva che tutte le preoccupazioni della vita si fossero dissolte, o per lo meno sospese. Non era certo bello decidere di tornarsene a valle, ma nonostante ciò sentivo di dover ripartire, poiché era ricomparsa un po’ di preoccupazione per la discesa solitaria in quel mare di neve.
Volevo però poter godere ancora della bellezza del paesaggio e così, anziché farmi travolgere dalla velocità della discesa, dopo il primo tratto un po’ tirato, mi fermai più volte ad ascoltare lo straordinario silenzio, a guardarmi intorno e a rallegrarmi della magnifica bellezza che mi circondava. Non mancai di ringraziare il grande Architetto lassù che mi permette di frequentare, vedere e apprezzare questi luoghi meravigliosi.






Racconto vincitore del concorso "Ti racconto..." ed. 2009

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