L'APPUNTAMENTO
di FERDINANDO LORENZI

da "Ti Racconto..."

La corriera partì alle 12.30 precise. Sedici passeggeri, più il bigliettaio e l'autista.
Il primo caldo di metà maggio era davvero piacevole e i vecchi sedili di finta pelle emanavano il tipico odore dello sky esposto ai raggi del sole. Era un po' di tempo che non salivo sulla corriera e mi piaceva l'idea di questo breve viaggio, che peraltro in passato avevo fatto molte volte. Dopo la prima fermata alle "Due Colonne" dove salirono 6 persone, il bigliettaio, il "Gusto", compì il suo dovere scandendo ad alta voce la frase che ripeteva da anni, sempre con la stessa, immutata cantilena: "A chi è che manca 'l biglietto, par cortesia...?!?" ; dopo di che, lanciando uno sguardo indagatore su tutti i passeggeri, si accomodò sul sedile dietro l'autista.
L'autista, "l'Alfredo", era la storia vivente del tratto Rovereto-Schio e viceversa. Credo che conoscesse a memoria ogni curva di quella incredibile strada e sapesse tutte le insidie, i pericoli e i tranelli che ogni controcurva nascondeva. Era "padrone" della corriera in ogni situazione; in ogni stagione dell'anno e con ogni tempo, in qualsiasi ora del giorno o della notte. Per me non era immaginabile concepire l'Alfredo senza la corriera, ne la corriera senza l'Alfredo. Era bravissimo, e in più era costantemente sorridente ed allegro. Lo avevo sempre ammirato, anche perchè lui aveva una particolare simpatia per me. Per un attimo pensai quanto doveva essere dura e difficile la sua vita. Ma evidentemente era soddisfatto e felice: con quel viso gioioso e simpatico non poteva essere altrimenti.
Quando la corriera ripartì appoggiai il capo al finestrino e cominciai a pensare a lei.
L'avevo conosciuta alla festa della notte di San Silvestro che qualcuno aveva organizzato in fretta e furia nella sala della Lanterna di Foxi. Cinzia era una delle poche ragazze che si fecero vedere quella sera, forse perchè nevicava e faceva molto freddo, forse perchè il luogo scelto non attirava molto: una sala che, pensandoci ora, mi ritornava alla mente squallida e fredda, anche se c'era stato un tentativo di addobbo con festoni multicolori ed era stata riscaldata in qualche modo. Ma l'importante, in queste feste, era che ci fossero le luci soffuse (o meglio ancora che non ce ne fossero per niente) e qualche "volontario" che mettesse su dischi in continuazione e fosse disposto a starsene lì a guardare, mentre le coppiette "ballavano" i lenti trascinando appena i piedi su una piastrella, appiccicate come sanguisughe.
La festa, in fondo, era tutta lì; ogni altra cosa era in più.
Avevo ballato con lei fin dal primo disco, "In Shallah" di Adamo: 4 minuti e 20 secondi di lento. Una vera ghiottoneria, per chi voleva darsi da fare! Non l'avevo più lasciata a nessun altro. Mi piaceva molto ed io piacevo a lei. Poco dopo mezzanotte eravamo già fuori, sotto un nevischio fitto e fastidioso, appoggiati alla balaustra della terrazzina, che non finivamo più di baciarci. Poi ballammo ancora, tutta la notte, dimenticandoci degli altri e del mondo intero. La luce giallognola dell'alba del nuovo anno ci trovò mezzo addormentati, seduti l'uno vicino all'altro su una vecchia poltrona accanto al giradischi ormai muto. Solo allora lei mi disse come si chiamava. Cinzia.
Da quella notte non ci eravamo più rivisti. In quegli anni non esistevano i telefonini. Niente chiamate dirette, niente sms. Lei mi aveva dato il numero del centralino del suo paese, io le avevo dato il numero del posto telefonico pubblico del mio paese. Una volta si faceva così. Se erano gentili e se avevano voglia, venivano a chiamarti.
Così lei sì era fatta viva una sera di aprile e aveva detto che sarebbe stato bello vedersi.
Ci accordammo di incontrarci a Raossi, il secondo giovedì di maggio: appuntamento nel primo pomeriggio dalle 14.00 alle 15.00. Il primo che arrivava, aspettava.
Mentre la mia testa viaggiava nei ricordi, fui distratto da qualcosa. La signora del sedile della fila accanto stava parlando con me e non me ne ero accorto.
"Scusi- dissi - stavo pensando ad altro, mi aveva chiesto qualcosa...?"
"Ma ti... te sì el fiòlo del Gioani?" chiese allungando il collo verso di me e sbarrando gli occhi come se avesse appena visto l'Arcangelo Gabriele.
"Così sembra" risposi io senza troppo entusiasmo, cercando di porre subito fine alla conversazione. Non avevo nessuna voglia di avviare discorsi impegnati e tanto meno di intrecciare dialoghi con persone che non ricordavo di conoscere.
"Giòsumaria!! Te sì uguale de to papà, identico! Ma ... come mai da 'ste parti? E to papà come stalo? L'è `n pèzo che noi vedo...!! Pensa che 'stiani...". Oh no!! non sopportavo quelli che esordivano con la frase "pensa che 'sti ani". In genere questo modo dire, (tranne qualche volta in cui restava sospeso nell'aria seguito da puntini, puntini, e da qualche sospiro ), implicava l'elencazione quasi compiaciuta e trionfalistica di una serie di tribolazioni, di sacrifici, di privazioni e di mali comuni che, a quanto sembra, avrebbero poi reso immensamente gratificanti e meravigliose anche le minime "soddisfazioni" e le piccole, rare cose piacevoli che la vita di allora poteva riservare. Magari era davvero così. Ma perchè continuare a raccontarlo a noi giovani? Forse per farci capire che noi avevamo anche troppo e non riuscivamo comuque ad essere mai contenti? Probabile, ma ero stanco di sentirlo. Abbozzai un mezzo sorriso di circostanza, le assicurai che il papà stava benone, e la lasciai parlare.
Mi riappoggiai al finestrino proprio mentre il Gusto, alzandosi in piedi, declamava ad alta voce: "Valmorbiaaa!"
Erano le 13.10. L'Alfredo, dal suo sedile di guida, salutò simpaticamente due uomini che scendevano e fece ripartire la corriera. Mi resi conto che sarei arrivato in anticipo, ma andava bene così.
Avevamo deciso di incontrarci al "Cocher", un luogo che conoscevamo tutti e due, fuori dal paese.
Il "Cocher" (che avevo sempre sentito chiamare così fin da bambino) era un grosso macigno rotolato chissà quando a fondovalle e fermatosi proprio a fianco del greto del Rio Piazza, poco sotto le ultime case del paese. Ci ero andato molte volte, anche da ragazzo: era un posto affascinante, particolare, selvaggio, un tempo teatro di giochi e di avventure, ora ideale anche per un appuntamento ... !
Ecco le ultime curve prima di Anghebeni. Mi gustavo sempre con piacere questo pezzo di strada, che nella mia mente vedevo come una porta che segnava il passaggio dall'ombra alla luce. La valle, tutto d'un tratto, si apriva, e cambiava completamente aspetto. D'improvviso tutto si addolciva: le rocce incombenti che fino a Valmorbia ti attanagliavano da ogni parte, si allontanavano gradualmente lasciando il posto a verdi pendii, ai piccoli campi coltivati, ai prati, agli orti, a macchie di acacie e faggeti. I colori si stemperavano in tinte tenui e luminose, e le gole severe ed oscure lasciavano spazio a vallette aperte e facili declivi.
Apparve finalmente Anghèbeni, con la sua piccola chiesa e la comoda strada che scendeva a S.Anna; più avanti si intravvedevano le case di Foxi; un po' sopra, la Costa e su, in alto, il campanile di Parrocchia che dominava tutta la valle. Sullo sfondo, illuminate da un magico sole di tarda primavera, le Piccole Dolomiti scioglievano il loro profilo nell'azzurrino leggero di un cielo eccezionalmente chiaro. Sarebbe rimasto bel tempo? Era fondamentale, per me!
'Ben, mi son 'rivada "- disse la signora di prima alzandosi dal suo posto. Poi, prima di imboccare il corridoio che portava all'uscita, si piegò ancora verso di me e con fare confidenziale ma ossequioso, dandomi improvvisamente del "lei ", "Allora - sussurrò - el ghe porta i saluti a so papà...! El ghe diga tanti saluti dala Ernesta dei Fochesi... me racomando! ! ! ".
Le promisi che l'avrei fatto e la seguii con lo sguardo mentre scendeva a fatica i tre gradini della corriera.
Quando ripartimmo, era già entrata in un vecchio portone.
Strombazzando allegramente sulla micidiale curva della "Cooperativa" la vecchia corriera entrò a Raossi in perfetto orario e si fermò come sempre davanti al distributore del "Richeto". Erano le 13.34.
Sopra il campanile di Parrocchia era appena apparsa una lieve strisciolina bianca: una nuvoletta innocua, piccola e sottile. Non mi impensieriva più di tanto, ma mi diede un po' di fastidio. L'Alfredo gridò il suo saluto accompagnandolo con un sorriso inimitabile e in un attimo era già lontano con la "sua" corriera.
In strada non c'era nessuno. Avevo un po' di tempo e così andai sotto la mia vecchia casa per darle un'occhiata.
Non avevo con me le chiavi, e stetti qualche attimo a guardarla da fuori. Pensando che un tempo ci abitavo con tutta la mia famiglia mi parve improvvisamente piccola e inadatta. Constatai anche che avrebbe avuto bisogno di qualche bell'intervento. ...ma per il momento non se ne parlava nemmeno!
Con questi pensieri decisi di incamminarmi verso il luogo dell'appuntamento. Alzai gli occhi al cielo e notai con disappunto che la "innocua" strisciolina bianca si era trasformata in un corposo cumulo color argento che si stava sfaldando, ai lati, in tante piccole, stupide nuvolette. Sapevo che nei pomeriggi, specie in quelli caldi di primavera e d'estate, su, a ridosso dei rilievi, si formavano spesso dei corpi nuvolosi. Sperai con tutto il cuore che la cosa si fermasse li!
Attraversai il paese, la Piazza, superai le ultime case, passai davanti alla chiesetta di San Rocco e, come mi piaceva fare una volta, mi "attaccai" letteralmente alla vecchia fontana e bevvi a grandi sorsate l'acqua fresca e limpida che ne sgorgava. Aahhh!! Cosa c'era di più appagante?
Ripresi il cammino e, pochi metri più in là, imboccai il sentiero che partendo dallo stradone scendeva verso la valle e conduceva al "cocher". Lo conoscevo molto bene: ci si arrivava in due minuti.
Naturalmente quando vi giunsi, non c'era anima viva.
L'enorme masso chiamato "cocher" ( con la "o" stretta e non con la "o" aperta come la famosa razza di cani) era lì al suo posto, sempre uguale, severo, misterioso, attorniato da arbusti ed erbe di ogni genere. Più sotto percepivo, leggero e frusciante, il gorgoglio del rio Piazza, che scorreva tra bianchi sassi levigati e familiari piante dalle grandi foglie vellutate. Era l'unico rumore.
Trovai subito facilmente l'accesso più comodo che portava sulla sommità del macigno e vi salii. Mi sedetti sulla pietra dura e fredda e mi preparai ad aspettare. Chissà quando sarebbe arrivata... ! ! !
Intanto su, verso Parrocchia, le nuvole, che avevano assunto il colore grigio di quando sono cariche di pioggia, rubavano sempre più spazio all'azzurro del cielo. Imprecai a voce alta... ma ornai eravamo in ballo!
Provai ad immaginare come sarebbe stato il nostro incontro, dopo più di quattro mesi che non ci vedevamo. E ci eravamo visti una sola volta! A dire il vero faticavo anche a ricordarmi bene le fattezze del suo viso: avevo in mente i lunghi capelli neri, lo sguardo intenso e dolce di due grandi occhi marrone, e poi quello strano profumo lievemente esagerato che emanava la sua pelle. Un un piccolo neo sotto il mento, le dita delle mani lunghe e sottili. Il resto era molto confuso; ero davvero curioso di rivederla.
Il tempo trascorreva in fretta, tuttavia sembrava non passare mai. Pensai che nel giro di due ore dovevo riprendere la corriera per Rovereto. Mi sdraiai con le mani dietro la nuca e gli occhi al cielo, che adesso era quasi completamente grigio. Il caldo sole di maggio era sparito dietro l'ultimo lembo di nuvole lasciando il posto ad una triste luce piatta, che sbiadiva i colori e rendeva tutto privo di ombre e di contrasti.
Erano passati dieci minuti dopo le tre quando sentii gridare il mio nome. Era la sua voce. Balzai in piedi e guardai verso il sentiero. Attraverso le foglie e gli arbusti catturai a tratti guizzi di macchie colorate in movimento, poi spuntarono la scarpe da tennis bianche, infine apparve lei, jeans azzurri e maglietta gialla, con le mani che si agitavano nell'aria per farmi segno che mi aveva visto.
"Ciao - le gridai - vengo a prenderti!"
"No, no, ce la faccio da sola" rispose correndo.
Era arrivata sotto il macigno e guardava su verso di me con quel sorriso che ora, all'improvviso, mi tornava alla mente.
Ma c'era qualcosa in lei che non ritrovavo, qualcosa di diverso che la faceva sembrare più bambina. I capelli!!! Aveva i capelli corti! Neri, nerissimi, ma corti. La seguii mentre si arrampicava continuando a ripetere "scusa il ritardo" e finalmente, quando giunse in cima, la abbracciai. Avvertii immediatamente quel profumo particolarmente intenso e quasi fastidioso che mi era rimasto impresso, e per un attimo mi bloccai. Mi accorsi con un certo stupore che la cosa mi frenava, ma mi imposi di non farci caso. Poi mi sembrò di colpo che gli ultimi quattro mesi fossero trascorsi in un attimo ed ebbi la netta sensazione di essere ancora lì, al freddo, sotto il nevischio della notte di San Silvestro.
E fu esattamente nel momento in cui il nostro abbraccio si trasformò in bacio, che cominciarono le prime gocce.
Dapprima furono gocce rade, leggere, sottili, poi accompagnata da un velocissimo fulmine e da un lontano brontolio, la pioggia iniziò a cadere copiosa. Continuammo a baciarci ma sentivo che qualcosa non andava. Mi resi subito conto che l'aspettativa creata dall'attesa stata sproporzionata rispetto alla realtà. Avvertii che la stringevo con un certo distacco, con poca convinzione, quasi come fosse già una consumata abitudine, senza quel trasporto e quella passione travolgente che ci aveva coinvolti nel nostro primo incontro. Il tempo aveva fatto il suo lavoro. Il desiderio, o forse più la curiosità di rivederla erano stati forti, ma ora tutto si stava stemperando in una visione meno idilliaca, più reale, stranamente piatta, come fosse scattato qualcosa capace di rompere un magico giocattolo.
Intanto i brontolii lontani erano diventati tuoni violenti, e l'acqua continuava a cadere sempre più fitta.
Non si poteva rimanere: dopo dieci minuti eravamo fritti e due fradici. Lei sorrideva con i suoi capelli neri lucidi di pioggia appiccicati alla fronte, e sembrava divertita. Ma bisognava correre al riparo.
"Torniamo - dissi - andiamo su in paese, non è opportuno restare qui ... !"
Lei mi fissò, e reclinando il capo da un lato come rassegnandosi ad un destino crudele: "Beh - disse - siamo stati sotto la neve, possiamo anche prendere un po', di pioggia... Però, se vuoi... andiamo". Poi prendendomi per mano: "Su, dai, andiamo!" Lo disse con rassegnazione e delusione insieme.
Scendemmo lentamente dal "Cocher", stando attenti a non scivolare, mentre la pioggia non accennava a diminuire.
Arrivati sul sentiero, sempre tenendoci per mano, lo salimmo di corsa e in un attimo arrivammo sullo stradone. Pochi metri più in là, subito dopo la chiesetta di San Rocco, c'era un portico. Ci rifugiammo lì e decidemmo di starci almeno fino a che la pioggia non fosse diventata più leggera.
Mentre lei cercava di stringersi a me, anche perchè cominciava ad avere freddo, mi sorpresi a chiedermi quando, come, e soprattutto "se" l'avrei rivista. E poi perchè avrei dovuto rivederla? Strane sensazioni. In qualche modo mi accorsi anche di desiderare che la giornata finisse in fretta. Forse perchè era stato un incontro sfortunato?!?
Lei non parlava più. Io nemmeno. Pioveva forte e il rumore dell'acqua sull'asfalto accompagnava il nostro silenzio e i miei pensieri. Alla finestra della casa di fronte una donna dai capelli grigio-azzurri aveva scostato una tendina e guardava curiosa e seria le nostre due figure strette sotto il portico scuro.
Stemmo così, credo, per più di mezz'ora, scambiandoci ogni tanto qualche frase senza senso e qualche timido bacio.
Quando le dissi che era ora di andare, mi prese tutte e due le mani fissandomi con i suoi occhi marrone pieni di pioggia e forse di qualche lacrima "... È stato bello lo stesso... - mi sussurrò - ci rivedremo ancora...?"
Non so cosa c'era nel mio sguardo quando le risposi "Spero di sì" mma credo che capì.
Le sfiorai appena le labbra e corsi via.
La corriera arrivò con cinque minuti di ritardo ed era quasi vuota. Presi posto negli ultimi sedili e guardai su, verso Parrocchia. Piovviginava ancora e il cielo era plumbeo. Ero tutto bagnato e avevo fame. Cinzia e il suo strano profumo sarebbero rimasti solo un ricordo? Rividi per un attimo il suo viso dolce e leggermente contraffatto dal freddo, i corti capelli neri intrisi di pioggia e provai un leggero senso di colpa, poi mi addormentai.
Mi risvegliai a Spino. Il cielo verso Rovereto regalava qua e là timidi squarci di azzurro e non pioveva più.
Nei mesi successivi lei mi cercò un paio di volte, poi ci perdemmo per sempre.
L'avrei incontrata vent'anni più tardi, notevolmente invecchiata passeggiava nel centro di Rovereto, seguita dai figli (tre marmocchi maleducati e scontrosi), e da un marito assolutamente scialbo ed insignificante che si trascinava dietro, al guinzaglio, un vecchio "coker" obeso e scapigliato. Ci salutammo un po' timidamente, ma come vecchi amici e lei mi presentò sua famiglia, compreso il cane, dicendomi che era una donna contenta e realizzata. Ne fui sinceramente felice.

***

Oggi, mentre scrivo, l'Alfredo (l'autista) e il Gusto (il bigliettaio) si stanno godendo la meritata pensione. Li vedo, ogni tanto, quando torno in Vallarsa e la loro simpatia è rimasta immutata. La corriera fa ancora il suo servizio , con altri bravi autisti, ma senza più il bigliettaio. Sulla corriera viaggiano ancora giovani sognatori che coltivano fugaci storie d'amore. Il "cocher" è ancora là, e penso che non lo muoverà nessuno, ma raggiungerlo è diventata una vera impresa: del sentiero rimane solo un segno appena accennato, decifrabile solo da chi lo ha conosciuto nei tempi migliori. Nel rio Piazza scorre poca acqua ed è difficile sentirlo gorgogliare fra i sassi. Ma per gli appuntamenti, oggi, non sono più necessari questi posti magici o forse, non ci sono più nemmeno gli appuntamenti...!!! -11'-




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