François Villon

a cura di Alessandro Natucci

 

Durante la Guerra dei Cent’Anni, nell’anno 1431, nasceva a Parigi da una donna di umili origini e da François de Montcorbiere (o des Loges)[1], che sarebbe morto di lì a poco, François Villon.

 Il giovane Francesco fu affidato alle cure di M.e Guillaume de Villon, ricco e dotto decretalista, canonico della chiesa di Saint-Benoît-le Bétourné, nel cuore di Parigi.

Si fece infatti chiamare Villon, forse per riconoscenza[2] verso il tutore; ma i documenti ufficiali (l’iscrizione all’Università, le lettere di cancelleria, gli atti giudiziari) conservano il cognome del padre.

Iscrittosi alla Facoltà di Lettere  (ès Arts) della Sorbona, che si trovava nel “vico delli strami”[3], di dantesca memoria, ottenne nel 1449 il titolo di baccelliere (la laurea) e nel 1452 quello di dottore (maitre ès Arts).

I titoli accademici non valsero, però, ad avviarlo verso un ben remunerato impiego ecclesiastico, (com’era, probabilmente, nelle intenzioni del tutore),  ma lo lasciarono in una condizione di incertezza e di relativa povertà, che favorirono un suo sostanziale “rifiuto” di una vita  tranquilla e ordinata.

Tre anni dopo il dottorato (due dopo la presa di Bordeaux con la conseguente fine della sanguinosa guerra[4] tra Francia e Inghilterra), il 5 giugno del 1455 (festa del Corpus Domini), Villon, (il quale abitava allora nel chiostro della chiesa di Saint-Benoît), mentre, verso sera, conversava con un sacerdote di nome Gilles e con una donna, certa Isabelle, veniva assalito, senza motivo[5], da un prete, Philippe  Chermoye, ivi sopraggiunto assieme ad un amico, e percosso a sangue nel viso con una daga[6] che il prete portava sotto la veste. Al che Villon reagì con prontezza estraendo anch’egli, dalla cintura, una daga nascosta nel mantello; non sapendo se il colpo inferto avesse spento i furori dell’assalitore, pensò bene, per maggior sicurezza, di scagliare sul suo viso una pietra. Lasciato il prete ferito, si fece medicare da un barbiere che aveva bottega nei pressi, mentre lo Chermoye, aiutato da alcuni passanti e trasportato all’Ospedale, moriva in capo a una settimana.

Dopo tali fatti Villon si allontanò da Parigi, rifugiandosi nella terra di origine della famiglia, in attesa di giorni migliori. E qualche mese dopo, nel gennaio del 1456, lo stesso re Carlo VII, di passaggio con la sua Corte nel Borbonese, dove si trattenne durante l’inverno, riconoscendo le ragioni di Villon, esposte in una supplica, gli concesse una lettera di remissione, grazie alla quale poté far ritorno a Parigi.

Non molto tempo dopo, senza che l’ esperienza recente gli fosse stata di alcun monito, nei giorni di Natale[7] dello stesso anno 1456, forse spinto dal desiderio di mitigare la condizione di povertà e di desolazione per se stesso e soprattutto per la sua innamorata,  i cui dolci sguardi gli penetravano “fino ai fianchi”, se si deve dar credito ai versi del “Lascito” (26-30)[8], partecipò ad un furto di 500 scudi d’oro, ai danni del Collegio di Navarra[9], insieme ad altri compari e a due religiosi, un monaco e un chierico, Guy Tabarie, che, arrestato e torturato, fu causa, con la sua denuncia, della detenzione di Villon, all’inizio di novembre del 1462, nel carcere parigino dello Châtelet.  Respinto, forse, dalla sua bella[10] e certamente temendo le conseguenze della sua impresa, non vide altro rimedio che la fuga. Abbandonò infatti, una seconda volta, Parigi, per rifugiarsi, come sembra, ad Angers[11]. Si unì anche ad una compagnia, o banda, di “coquillards”, mezzo libertini, mezzo imbroglioni[12] e nell’estate del 1461 fu imprigionato, illegittimamemente, a quanto sembra[13], dal Vescovo di Orléans[14], Thibauld d’Aussigny, per fatti che non si conoscono precisamente; nel carcere di Meung-sur- Loire trascorse giorni terribili, a pane e acqua e sottoposto a tortura[15]. Ma una buona stella (e forse l’intervento del tutore[16] o di più potenti protettori) lo salvò ancora: il 2 ottobre del 1461 Luigi XI,  “le bon roy”[17],  da poco succeduto a Carlo VII, nel recarsi da Parigi a Tours[18], passò da Meung nel ducato di Orléans e in tale circostanza concesse un’amnistia ai prigionieri: Villon poté così riacquistare  la libertà.

Verso la fine di novembre dell’anno seguente (dopo aver trascorso i primi giorni dello stesso mese nel carcere parigino dello Châtelet, per il furto commesso sei anni prima al Collegio di Navarra), Villon fu di nuovo arrestato e rinchiuso nello stesso carcere. In questo caso la responsabilità del poeta sembra davvero marginale: dopo aver cenato, assieme a due amici, presso certo Robin Dogis, tutt’ insieme si recarono verso la casa di Villon; e, durante il percorso, uno della combriccola, Rogier Pichart, non perse l’occasione di far scoppiare una rissa, in cui venne coinvolto il notaio pontificio M.e François Ferrebouc, che riportò peraltro solo lievi ferite. Il responsabile principale del malfatto, Rogier Pichiart, riuscì a rifugiarsi presso un convento di francescani. Gli altri tre vennero arrestati e il processo si concluse con la condanna per impiccagione del solo Villon, probabilmente a causa della sua condotta precedente[19]. Ma l’impiccagione non ebbe mai luogo e rimarrà  soltanto il triste e rassegnato contenuto della più famosa poesia di Villon, la “Ballade des pendus”. L’appello[20] di Villon contro la sentenza di condanna fu, infatti, accolto dalla Corte di Parigi, che però, in considerazione della cattiva condotta, lo bandì per dieci anni dalla città. Il poeta lasciò dunque il carcere e lasciò anche Parigi e delle vicende ulteriori della sua vita non si avrà più alcuna notizia.

***

Alcuni hanno visto in Villon un ribelle alle ingiustizie del suo tempo, incapace tuttavia di realizzarsi e non in grado di rifiutare i valori della società in cui viveva, rimasto pertanto prono e ossequiente, nelle sue più profonde convinzioni, se non nel comportamento, alle regole sociali allora dominanti.

Per quanto queste considerazioni siano probabilmente fondate, non riguardano però il poeta, ma l’uomo e la sua “virtù”, giudicata secondo un metro estraneo alla sua opera poetica.

Certo, se si pensa che la maggior parte dei crimini commessi da Villon, o ai quali partecipò, furono rivolti contro esponenti della Chiesa, e taluni di essi compiuti nella ricorrenza di feste religiose (e addirittura vicino a Natale), vien fatto di pensare che vi fosse in Villon uno spirito di contestazione del potere ecclesiastico, se non della Chiesa. Ci sembra però che tali azioni scaturiscano piuttosto da un fondo di risentimento personale nei confronti del suo tutore, Guillaume de Villon,  ricco certamente di dottrina e di sapere, ma poco attento, forse, alla sensibilità e al carattere del pupillo e  alle sue profonde aspirazioni poetiche. Non si trova, in realtà, nelle sue poesie, alcun accenno di ribellione nei confronti della Chiesa in quanto tale, né, tanto meno, nei riguardi della Monarchia (ché, anzi, i due sovrani durante il cui regno egli visse, non solo si dimostrarono larghi di protezione nei suoi confronti, ma ebbero in cambio dal poeta vive attestazioni di riconoscenza e quasi di affetto).

Due sono, a nostro avviso, gli aspetti che caratterizzano la poesia di Villon: l’invincibile amore della libertà e dell’avventura, la passione per l’amore e per le belle donne, la gioia degli amici festanti attorno alla tavolata di una taverna, tra grasse risa e sguardi compiacenti; il desiderio ribaldo di arricchire con ogni mezzo e di tutelare il suo “onore” contro chiunque, anche a costo della vita altrui; ma, insieme, un sentimento di virile rimpianto, di rassegnata pietà di se stesso, dei compagni che condividevano la sua sorte sciagurata, dell’uomo in generale, costretto dalla sfortuna e dal caso ad una vita pericolosa e violenta, ma povera e desolata; il senso accorato della caducità delle cose e di un’indefinita purezza perduta (“mais ou sont les neiges d’antan?”); e tutto ciò, nonostante il gusto dello sberleffo e  un certo cinismo, che, anche nei momenti più commossi della sua lirica, sembra far capolino dai suoi versi, sembrando contraddire e negare, forse per pudore, il sentimento incontestabile della sua pietas.

I due aspetti, che abbiamo richiamato, s’intrecciano costantemente nella poesia di Villon e danno alle sue composizioni migliori una nota di profonda malinconia, il rimpianto del tempo che passa, la coscienza della precarietà della vita, che tutti possiamo perdere per un gesto avventato, per la mancanza di sagacia e di buon senso che, dice amaramente Villon, non è patrimonio di tutti.

L’aspirazione alla gioia e alla felicità si mescola alla coscienza della propria desolata condizione, e da tale fusione nasce quell’accento doloroso e nostalgico, che costituisce il sigillo della sua anima di poeta.

Bibliografia

 

L' epitaffio di Villon

 



 


[1] La cui famiglia era originaria del Borbonese, che al giorno d’oggi corrisponde approssimativamente  al dipartimento di Allier, nella Francia centrale..

[2] Nel “Lascito” (vv. 65-72) nomina per primo, tra i beneficiari, “maistre Guillaume Villon”, lasciandogli la sua fama (bruit), le sue tende e il suo padiglione (“tentes” e “pavillon”). Si deve notare che “bruit” potrebbe significare anche nomea, cattiva fama; l’espressione acquisterebbe così un tono burlesco o satirico, confermato del resto dai lasciti ulteriori, le tende e il padiglione, oggetti  propri di un cavaliere, quale certamente Villon non fu mai (almeno nella realtà).

[3] Rue de Fouarre, che si conserva, almeno in parte, anche oggi e prende il nome dalla paglia (feurre o fouarre), sulla quale sedevano, un po’ spartanamente, gli studenti della Sorbona.   

[4] Poco tempo dopo la nascita di Villon, il 30 maggio del 1431, sarebbe stata bruciata sul rogo Giovanna d’Arco, la “bonne Lorraine/ Qu’Englois brulerent a Rouan.”, come ricorda Villon nella “Ballata delle dame del tempo che fu”: i tempi, certo, non erano tali da favorire un clima di vita sereno e “normale”.

[5] O almeno senza un motivo apparente, se diamo fede alla lettera del re Carlo VII, che concede la grazia a Villon.

[6] Daga, latinamente “spada dei Daci”, era una spada corta con lama piatta, simile ad un pugnale, particolarmente utile nell’uso “civile”, e spesso proibita dagli Statuti comunali.

[7] “Sur le Noel”, come dirà egli stesso nel “Lascito” (v. 10).

[8] “Et se j’ay prins en ma faveur/Ces doulx regars et beaux  semblans/De tre decevante saveur/Me tresperans jusque aux flans:” (E se troppo credito detti/Al suo bel viso e ai dolci sguardi/Che troppo sapevano d’imbroglio/E che mi trapassavano fin dentro i fianchi)

[9] Fondato nel 1307 per raccogliere, come usava nel Medioevo, gli studenti e i maestri di origine  spagnola.

[10] Che gli rifiuta ogni grazia (“Puis qu’el ne me veult impartir/Sa grace, il me convient partir.” : vv. 44-45 del “Lascito”.

[11] “Adieu! Je m’en vois a Angiers”: v. 43 del “Lascito”.

[12] Cfr. le “Ballate in argotico”.

[13] “Mon seigneur n’est ne mon evesque,/Soubz luy ne tiens, s’il n’est en friche;/Foy ne luy doy n’hommage avecque,/Je ne suis son serf ne sa biche. ” “Non è il mio signore né il mio vescovo/Da lui non ebbi se non nuda terra;/Nè fede io gli devo né rispetto/ Ché  servo suo non sono né donzello.”): così Villon nei vv. 9-12 del “Testamento

[14] Per antica tradizione, studenti e maestri  della Sorbona avevano il privilegio (se così si può dire per quanto riguarda la detenzione a Meung sur Loire)  del foro ecclesiastico; ma competente per territorio era, verosimilmente, il Vescovo di Parigi e non certo di Orléans.

Proprio negli anni, ai quali ci riferiamo, il potere reale aveva contestato tale privilegio e l’ultimo processo a carico di Villon verrà deciso da una Corte laica.

[15] Precisamente alla famigerata question de l’eau, che consisteva nel far ingurgitare al detenuto grandi quantità d’acqua fredda: vv . i  vv. 737- 738 del “Testamento”:  “Dieu mercy et Tacque Thibaul,/Qui tant d’eau froide m’a fait boire”

[16] Che  nei versi 849-853 del “Testamento” Villon chiamerà “plus que pere”/.Qui/…Degeté m’a de maint bouillon”, (più che padre….Che/…. m’ha tratto fuori da tanti impicci”), ma al quale non risparmierà accenti burleschi;  accostandolo tuttavia alla madre : “ma mere, la povre femme” (v. 872), che aveva dovuto patire per lui dolori e tristezza, e alla quale riserva accenti di profonda compassione.

[17] Vedi i versi 82-83 del  “Testamento”, dove viene appunto ricordato il buon re che lo ha liberato “de la dure prison de Mehun”.

[18] Città a lui fedele, dove stabilirà per lungo tempo la sua Corte.

[19] E’ del tutto verosimile che l’“Epitaphe Villon” sia stato scritto durante il tempo della prigionia: infatti, il tono della Ballata  si accorda perfettamente alla situazione vissuta da Villon nel carcere dello Châtelet.

[20] Vedi la “Ballata dell’appello”, rivolta, con toni di scherno, al carceriere Garnier.