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Veneto

Le tradizioni della gastronomia Veneta.

Cucina Bellunese

Cucina Padovana

Cucina Rovigota

Cucina Trevisana

Cucina Veneziana

Cucina Veronese

Cucina Vicentina

Cucina Tipica

Cibi rituali,tradizionali e stagionali della cultura contadina e popolare Veneta
 

Cucina Curativa

Il pane

La storia della polenta

La conservazione dei cibi

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CUCINA BELLUNESE
La cucina bellunese offre un mangiare alpino, robusto e piccante, senza perdere niente di quanto di aristocratico esiste in molti piatti, offerti dalla cucina veneziana. Ha un suo sapore inconfondibile che deriva dal sapiente miscuglio di prodotti e aromi "poveri",
Nei vari tipi di minestroni, il fagiolo rosso di Lamon, con l'orzo, il latte o il riso offrono subito un biglietto da visita scritto con i caratteri della tradizione e della creatività. La caccia dà ancora la possibilità di esaltare allo spiedo, nei bronzini, nelle larghe graticole, nelle padelle di terracotta le carni ancora selvadeghe, selvatiche, dei fagiani, dei galli cedroni, delle lepri dei camosci e dei caprioli, accompagnate da capretto allo spiedo, da braciole alla griglia.
"La trota salmonata di Misurina regge lo scettro fra i piatti di pesce, e i marsoni del Piave fritti con polenta rappresentano un cibo semplice e popolare, delle borgate che si affacciano sul corso del fiume. Latte, burro, ricotta sono il complemento semplice e sano insieme con quei dolci, come la torta di mandorle, i consègi, i biscotti da zuppa, che chiudono la serie delle portate"
Famosa la grappa di vinaccia, di prugna, di ginepro; i distillati di camomilla, di passiflora, di genziana. Sono i liquori che sostengono i filò attorno alle camaze dopo cena, quando la parola tra amici ha il sapore del ricordo e della poesia.

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CUCINA PADOVANA
I colli Euganei, e la pianura che corre verso il mare, senza raggiungerlo, caratterizzano un paesaggio "contadino" che entra nelle città e nei paesi e crea angoli pittoreschi di pergolati dove, spesso, si riconoscono le vestigia di antiche osterie, e dove, probabilmente, è nata la consuetudine dei pollastri ai ferri, delle lasagne, delle faraone rosolate, dei prelibati toresani (i toresani vicentini di Breganze).
In questa "sinfonia gastronomica" le minestre di riso della cucina padovana fanno concorrenza a quella veneziana. Vi troviamo il risoto coi rovinazzi, con la luganega, con i bisi. Celebre il detto ghe n'è par sete padovani, per indicare una tavola imbandita con abbondanza. Se si pensa alla pettoruta gallina padovana che "fa da centro ai secondi", ai capponi, eccezionali per dimensioni e qualità delle carni, alle oche grasse e gonfie, ci si rende conto che l'espressione non è esagerata.
La polenta di Cittadella è un dolce famoso e squisito, ma della polenta ha solo il nome. Invece, la smegiazza, gli antichi zaleti conservano vecchie ricette a base di farina gialla.

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CUCINA ROVIGOTA
Quella del Polesine è una cucina naturale e semplice, coerente con il carattere degli abitanti. La caccia e la pesca offrono alla cucina polesana sapori altrove introvabili. Nelle trattorie, lungo gli argini dei fiumi e dei canali, fuma sui larghi focolari la graticola di grosse e tenere anguille, e la polenta troneggia nel suo colore dorato sulle tavole imbandite. La caccia arrosto o allo spiedo sostituisce spesso il pesce: tra gli alari girano schiodinate di mazori, ciossi, anitre selvatiche.
Anche la "campagna" non è da meno delle zone paludose. Le teglie con la scura faraona, oppure il cappone ripieno, i piccioni farciti sono il risultato di allevamenti sapienti, che non hanno del tutto dimenticato le vecchie regole contadine. Il risotto di branzino è una peculiarità tutta polesana, come la bondola dal robusto sapore.

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CUCINA TREVISANA
"Lieta e tranquilla la Marca è una creatrice di delizie gastronomiche tutte basate su piatti ricchi, ricercati e molto accurati nella preparazione, risultato evidente di una disposizione particolare dei trevigiani per i fornelli. Fra i risotti capeggiano quelli con la luganega, coi funghi del Montello, porcini o chiodini, con le quaglie grassottelle di alcuni indovinati allevamenti locali, e con l'anguilla del Sile"

Le pappardelle, impastate senza uova secondo la tradizione "povera", formano con i fagioli una saporita pasta e fasoi da far concorrenza alla zuppa di trippe. Non certo alla zuppa coada (covata), insuperabile per la preparazione attenta e il gioco dei gusti: trippe, piccioni, pollastrelli. Il baccalà alla trevigiana insidia il primato al più noto baccalà alla vicentina; i gamberi di S. Polo di Piave, il radicchio di Treviso e Castelfranco, completano una cucina di gusti elementari e di qualità.

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CUCINA VENEZIANA
Il sapore e il gusto della cucina veneziana nascono nelle isole, in tempo remoto; si sposano e confondono, più tardi, con gli ingredienti e gli aromi dei prodotti della terraferma, con una immaginazione culinaria sostenuta da esperienze alimentari colte nei viaggi mercantili nel vicino oriente. Ma la caratteristica originale resta fedele alla lontana origine, quando pesca, caccia e orticoltura offrivano prodotti e ingredienti alla cucina veneziana. Il broeto antico e le zuppe di molluschi ne sono una testimonianza, come la ricchezza e la varietà dei piatti di pesce, all'arrosto, sulla graticola, in fritti saporosi, in umido (umido di seppie) fino all'esaltante saòr. E non si può dimenticare la capacità "di esaltare il gusto del manzo, dei carnami, del fegato, con misurati e temperati accostamenti degni in qualche caso della più ricercata cucina internazionale" (R. da Mosto, Il Veneto in cucina, A. Martello - Giunti Editore, Firenze, 1974, p. 15).
Un'eredità dello spirito mercantile veneziano, una vocazione all'ospitalità della città stessa. I prodotti della terraferma entrano nella cucina veneziana attraverso un sapiente equilibrio di gusti, ingredienti e aromi. I risultati migliori sono certo i risotti, morbidi, delicati, dal sapore inconfondibile.

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CUCINA VERONESE
La leggenda sull'origine della pastissada de caval, nasconde, con ogni probabilità, l'origine longobarda del piatto, riconosciuta come "veronese". Ma la tradizione scaligera, assume ad autentico emblema della sua cucina, lo gnoco. Non per niente il signore del Bacanàl, il carnevale veronese, è il Papà del gnoco che inalbera sul suo forchettone-scettro, il gustoso e tenero gnocco, creato dalla fame, dalle carestie dei secoli trascorsi, ma anche dalla matità, la fantasia burlona e poetica dei veronesi. "Le minestre sono un punto di forza della cucina veronese con una notevole varietà di risotti all'isolana, col tastasàl, co le ciche e con una non minore teoria di paparele coi figadini, coi bisi, con lo spezzatino di manzo e di bigoli con la sardela. Lo spiccato sapore laurea a piatto di rilievo nella sua semplicità anche il manzo co la pearà, mentre primeggiano per delicatezza e sapore i grandi pesci del Garda, dal carpione alla trota, dalla tinca al pesce persico, con l'accompagnamento di quel vino Lugana che, con i più celebri Bardolino, Valpolicella, Soave e Recioto, restituisce in profumata essenza quel sole caldo che indugia sulle pendici prealpine fiancheggianti le valli dell'Adige, dell'Alpone e degli altri fiumi provenienti dal nord." (R. da Mosto, op. cit. pp. 16-17).
I dolci veronesi, delicati e saporosi, hanno inizio nella ritualità domestica contadina con il nadalìn, la brassadela; si sviluppano nell'artigianato delle spezierie, con i mandorlati (Cologna Veneta), le sfoiadine (Villafranca), le broade fino ad arrivare al pandoro.

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CUCINA VICENTINA
La cucina vicentina è una cucina dal sapore forte e corposo: il baccalà alla vicentina, la paeta con la melagrana, il capòn a la canevèra, i toresani di Breganze, i bìgoli con l'anara, che seguono le scadenze calendariali delle feste e l'evolversi delle stagioni.

"Una ricerca precisa dei valori quella che scopre i più buoni asparagi a Bassano del Grappa, dolcissimi piselli a Lumignano, odorosi tartufi a Nanto, compatti e saporiti formaggi ad Asiago e via via fino a tutta quella serie di ottimi cibi che la cucina di Vicenza esige per la sua ottima scuola. Su esaltazione poi di quella notevole varietà di vini che Gambellara, Montebello, Breganze, Montegalda, Barbarano, hanno elevato a vette quasi religiose, e delle famose grappe di Bassano"

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CUCINA TIPICA


La cucina principale di una villa
(xilografia da B. Scappi, 1571)

Il sapore e il gusto della cucina veneziana nascono nelle isole, in tempo remoto; si sposano e confondono, più tardi, con gli ingredienti e gli aromi dei prodotti della terraferma, con una immaginazione culinaria sostenuta da esperienze alimentari colte nei viaggi mercantili nel vicino oriente. Ma la caratteristica originale resta fedele alla lontana origine, quando pesca, caccia e orticoltura offrivano prodotti e ingredienti alla cucina veneziana. Il broeto antico e le zuppe di molluschi ne sono una testimonianza, come la ricchezza e la varietà dei piatti di pesce, all'arrosto, sulla graticola, in fritti saporosi, in umido (umido di seppie) fino all'esaltante saòr. E non si può dimenticare la capacità "di esaltare il gusto del manzo, dei carnami, del fegato, con misurati e temperati accostamenti degni in qualche caso della più ricercata cucina internazionale" (R. da Mosto, Il Veneto in cucina, A. Martello - Giunti Editore, Firenze, 1974, p. 15). Un'eredità dello spirito mercantile veneziano, una vocazione all'ospitalità della città stessa. I prodotti della terraferma entrano nella cucina veneziana attraverso un sapiente equilibrio di gusti, ingredienti e aromi. I risultati migliori sono certo i risotti, morbidi, delicati, dal sapore inconfondibile.

Quella del Polesine è una cucina naturale e semplice, coerente con il carattere degli abitanti. La caccia e la pesca offrono alla cucina polesana sapori altrove introvabili. Nelle trattorie, lungo gli argini dei fiumi e dei canali, fuma sui larghi focolari la graticola di grosse e tenere anguille, e la polenta troneggia nel suo colore dorato sulle tavole imbandite. La caccia arrosto o allo spiedo sostituisce spesso il pesce: tra gli alari girano schiodinate di mazori, ciossi, anitre selvatiche.
Anche la "campagna" non è da meno delle zone paludose. Le teglie con la scura faraona, oppure il cappone ripieno, i piccioni farciti sono il risultato di allevamenti sapienti, che non hanno del tutto dimenticato le vecchie regole contadine. Il risotto di branzino è una peculiarità tutta polesana, come la bondola dal robusto sapore.

Testo tratto da "La cucina tradizionale veneta" di Dino Coltro Ed. Newton Compton

 


Interno di cucina
(xilografia tratta dall'edizione veneziana del 1571
di B. Scappi, L'arte del cusinare)


"Strumenti" vari di cucina:
da una molletta per pasta a una
cassetta per conservare le spezie
(rame da B. Scappi, Opera)

I colli Euganei, e la pianura che corre verso il mare, senza raggiungerlo, caratterizzano un paesaggio "contadino" che entra nelle città e nei paesi e crea angoli pittoreschi di pergolati dove, spesso, si riconoscono le vestigia di antiche osterie, e dove, probabilmente, è nata la consuetudine dei pollastri ai ferri, delle lasagne, delle faraone rosolate, dei prelibati toresani (i toresani vicentini di Breganze).
In questa "sinfonia gastronomica" le minestre di riso della cucina padovana fanno concorrenza a quella veneziana. Vi troviamo il risoto coi rovinazzi, con la luganega, con i bisi. Celebre il detto ghe n'è par sete padovani, per indicare una tavola imbandita con abbondanza. Se si pensa alla pettoruta gallina padovana che "fa da centro ai secondi", ai capponi, eccezionali per dimensioni e qualità delle carni, alle oche grasse e gonfie, ci si rende conto che l'espressione non è esagerata.
La polenta di Cittadella è un dolce famoso e squisito, ma della polenta ha solo il nome. Invece, la smegiazza, gli antichi zaleti conservano vecchie ricette a base di farina gialla.

 

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CIBI RITUALI, TRADIZIONALI E STAGIONALI DELLA
CULTURA CONTADINA E POPOLARE VENETA

I cibi rituali sono legati alla celebrazione delle feste liturgiche e a quanto resta ancora dei riti agrari del lunario contadino, che ha scadenze e ritmi talvolta diversi dal calendario. L'anno contadino, infatti, non inizia il primo gennaio, ma con la celebrazione dei Morti che offre ancora una ritualità di sapore naturale e vetero cristiano. San martino, pochi giorni dopo, sanziona il corso giuridico dell'anno agrario con la stipula dei patti annuali di mezzadria, colonia e con i contratti salariali.


La pigiatura dell'uva in una xilografia del
XV secolo
 


Oggetti disparati, dalla cassetta contenente pentolame e posate alla graticola
(rame tratto da B. Scappi
, Opera)

1-2 novembre, Ognissanti e i Morti: patate mericane (patate dolci), i trandoti o pan dei morti, brazadelon (focaccia), faoline (fave), miole de zuca (semi di zucca), i maroni (castagne e marroni), papazin o bole (polentina di castagne)
11 novembre, San Martino: galeto (galletto), carne a poceto e carne in salata, i Sanmartin di pastafrola (San Martini di pastafrolla)
25 novembre, Santa Caterina: oca
Da Santa Lucia (13 dicembre) a Natale: mas-cio (maiale), saladi (salami), fegato con sangue cotto, rognoni in graticola, galzega del porco (risotto con il tastasale)
24 dicembre: la Vigilia: bigoli co la sardela, mandorlato e vin bon
25 dicembre: osso magon (ossocollo), bigoloto de Nadal o nadalin (dolce), risoto con el tastasale
1 gennaio, Capodanno e 6 gennaio, Epifania: carne di pollo, carne di maiale
Il Carnevale: maiale, vin bon e fritole (frittelle), brazelo (ciambella), bigoloto (focaccia), grustoli o sfoiade (dolci)
La Settimana Grassa: bigolada (gnocchi e frittelle)
Le Ceneri e la Quaresima: renga e salata (aringa e insalata), rane, baccalà, frittata con i gamberi
La Mezzaquaresima: bigoli, paparoti, taiadele, maltaià, lasagne (tipi di pasta), riso e bruscanzoli (bruscandoli), riso a la scapadora (fatto in fretta)
Pasqua: taiadele (o paparele) bo e vin tondo (tagliatelle in brodo di carne e vino forte), brazadela o fugassa (ciambella)
Lunedì dell'Angelo: uova con sale e pepe
Ascensione:
codeghina (cotechino)
Estate: panzeta imanegà (arrotolata con chiodi di garofani e legata a salame), panzeta soto onto (conservata nell'unto di maiale), sardele, polenta e zeola freda, ochete (oca sotto unto), fritaia coi pomodori, ovi in pocio, fighi in pocio, pan e anguria, melanzana in padelin, melanzane al fogheto, peperonata, zeole ciodote (cipolle chioggiotte), anitra ripiena
La Mezzastagione autunnale: fagioli, zucche, frutta autunnale, patate rosto (trifolate), zuca soto la zendare (zucca arrostita sotto la cenere), zuca cota (lessata), fasoi in asedo (fagioli in insalata), fasoi in teia (teglia), riso e fasoi (riso e fagioli), riso e zuca (riso e zucca), polenta infasolà  (polenta con i fagioli), panocia brustolà (pannocchia abbrustolita), fantoline (pop corn rustici)

 

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CUCINA CURATIVA

Cibi, erbe e frutta entravano nella cucina povera, come in quella ricca, con una doppia proprietà, alimentare e curativa. La spiegazione del come si giunse alla cernita dei vegetali utili alla alimentazione e degli altri necessari alla salute si spiega con la "magia simpatica", per cui il "simile chiama il simile". Basando la propria scelta tra la somiglianza di alcuni vegetali con certe parti anatomiche, gli antichi iniziarono delle terapie non ancora del tutto scomparse tra la gente. Secondo i canoni della "magia simpatica", il guscio e il gheriglio della noce, corrispondono alla calotta cranica e al cervello umano, per cui la parte commestibile fu adottata per trattare le malattie mentali.
 


Cassette per caraffe e per olio e aceto
e altre attrezzature
(rame da B. Scappi)

La verza ritenuta ancora oggi benefica alla circolazione corporea, sembra ripeterne la struttura complessa; lo zafferano guariva dall'itterizia, perché "tipico" e assimilabile all'affezione biliare per il colore giallognolo; la fava, aiuta la fertilità della donna, perché richiama il grembo materno. I contadini fino a trent'anni fa, usavano le foglie d'edera per bendare le ferite delle mani, ma soltanto delle mani, perché ne riproducevano sommariamente la forma. La seconda strada percorsa per la scelta dei vegetali utili alla salute è l'osservazione, l'esperienza e su queste due basi si fonda la medicina contadina e popolare. Del resto, nell'esaminare le ricette di infusi e decotti, spesso ci si imbatte in notizie risalenti all'antichità e scopriamo all'origine di molte indicazioni terapeutiche filosofi e studiosi come Aristotele, Pitagora, Platone, Ippocrate, Plinio, Catone.

 
Alle conoscenze legate alla cultura occidentale, si sono aggiunte recentemente e nel corso dei secoli, nozioni derivate dalla civiltà indiana, dai medici orientali, dalla erboristeria della Cina dove, si dice, la medicina vegetale non è stata totalmente sostituita dalla moderna farmacopea.

 

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IL PANE

Nelle case bracciantili il pane era una rarità. Secondo le testimonianze orali, il pane accompagnava la carne a Natale, a Pasqua e alla Sagra. Era considerato il cibo rituale del Natale. Nelle case, attaccata ad un trave della cucina c'era la zesta del pan, la cesta del pane, perché el pan fato in casa, fatto in casa, era custodito con gelosa attenzione dalla mare, la madre governatrice. Ai bambini bastava on corno de pan; alle donne meza ciopeta; agli uomini, na ciopeta.
 


Laboratorio di fornaio, particolare
(da l'Encyclopèdie, di Diderot - D'Alembert)

Nei tempi più recenti (inizi del '900) ogni contrada aveva il forno in comune e ogni tanto, se fasea na sfornà de pan, si cuoceva una sfornata di pane. Il "tempo del pane" era rappresentato dalla medanda, il periodo della mietitura. Per chi aveva del so, terra propria, il pane era, naturalmente, "il pane quotidiano", tenendo però presente che per i coltivatori diretti, il frumento costituiva "merce di scambio" o comunque una fonte di guadagno, come la stalla. La polenta resterà anche per loro la base dell'alimentazione. Ogni zona aveva particolari "forme" di pane: la ciopa, la ciopeta, el paneto, la roseta, ecc. Il pane dei frati, quello bufeto, era confezionato in forme rigonfie, spugnose: si tratta di pagnotte da tagliare a fette. El pan scafetò è, invece, biscottato e corrisponde all'attuale pan biscoto. "Del pan biscotto le forme erano certo diverse e più piccole, a volte anche in figurazioni antropomorfe, come i bigarani a forma di biga cioè potta o organo sessuale femminile, che, di pasta magari ingentilita e addolcita e resa più nutriente per la presenza di grasso, di miele e di uova, convenientemente biscottata, venivano offerti alle donne, dopo il parto come dono. Non si trattava in fondo che di una ciambella schiacciata.

 
Si confezionavano anche altri biscotti che nella forma e nella consistenza ricordavano l'organo sessuale maschile nella sua piena efficienza, ed ecco i pandoli e i parpagnacchi trasformati, ripetendo alle due estremità la forma dei testicoli, in ossi da morto" (G. Maffioli).
Il pan scafetò è messo a confronto con nibiè e braciegi: sono focacce e buccellati, i famosi bussolai chioggiotti.
I contadini si cibavano anche di pianele, schiacciatine di farina di castagne, il castagnaccio venduto sui banchetti delle piazze fino a qualche decennio fa.

 

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LA STORIA DELLA POLENTA

La polenta è il cuore della casa veneta, il simbolo popolare della sua cucina; nel Veneto, si sono sperimentate tutte le variazioni gastronomiche possibili della polenta.
A Venezia esistevano dolci rustici, molto comuni, fatti con farina gialla prima della scoperta dell'America e a metà del XVI secolo, in Friuli, si fa la polenta con il "grano saraceno".
Queste due realtà ci inducono a pensare che il famoso mais (mahiz, lo chiama Colombo, imparando il termine degli indigeni dell'isola Hispaniola) sia arrivato nel Veneto attraverso i traffici veneziani con l'Oriente, in tempi remoti.

 


Una donna rovescia la polenta sulla tafferia
(incisi
one ottocentesca
Raccolta Bertarelli, Milano)

Le prime coltivazioni di mais si ebbero trent'anni dopo la scoperta dell'America, in Andalusia, per opera di agricoltori di origine araba che lo usavano come mangime per gli animali. Dal Golfo di Biscaglia, il mais si diffonde nel XVII secolo in tutta Europa, anche per la spinta che viene dai coloni americani, e si espande lungo una fascia precisa, attraverso la Spagna, la Francia, l'Italia, i Paesi danubiani, l'Ucraina, fino al Caucaso. Più a nord, il clima era troppo freddo, più a sud troppo secco. La preparazione è ovunque la stessa: si fa cuocere la farina gialla in acqua o brodo, vi si aggiunge, alla fine, burro, latte, formaggio, sughi e carne.

 
Le attuali ricette della polenta impastizada, della polenta infasolà, della polenta onta, ecc., si rifanno a questo antico uso, derivato dalla maniera di preparare la puls romana.
La parola "polenta", infatti, conserva la sua origine latina, puls, plurale pultes. Allora, la polenta era fatta con il farro, un cereale più grosso e duro del comune frumento, e non offriva la consistenza della polenta di farina gialla. Si condiva con latte, formaggio, carne di agnello, oppure con salsa acida e maiale.
La puls era conosciuta in tutta l'area mediterranea e Apicio ci parla della puls punica, fatta con farina, formaggio fresco, miele e uova. Lo stesso autore ci riporta la preparazione delle pultes julianae, le polente friulane e venete con la spelta o il panico, con l'aggiunta di olio o latte, formaggio e sughi di carne.
Nel De honestate voluptate et valetudine del Platina, alla fine del XV secolo, ritroviamo la polenta di farro. La torta si otteneva mettendo in padella, in teglia, a strati, polenta e condimenti, con una "spolverata" di zucchero e acqua di rose.
La polenta di granoturco risolve subito i molti problemi alimentari delle popolazioni povere, fino a quando, nella metà del XVIII secolo, non apparve la pellagra, causata, si disse, dal continuo consumo di polenta. "Ci sono voluti decenni, si è dovuto arrivare a questo secolo prima di capire che la pellagra era conseguenza di una mancanza di vitamine" (Carnacina - Buonassisi) e si riconobbe l'antica saggezza dei Maya e degli Incas, che avevano fatto del mais la base della loro alimentazione ma vi univano quanto vi mancava.

 

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LA CONSERVAZIONE DEI CIBI

La conservazione dei cibi si otteneva nella cucina tradizionale contadina, con il sale e l'insaccatura in budella buone, appositamente acconciate, di alcune qualità di carne, in particolare di maiale e d'asino.
Il tempo di durata di questo ultimo tipo di conservazione era poi allungato dall'arte di impitarare, mettere salami, pancetta, pezzi d'oca (ochete) in ole di terracotta, sotto strutto o olio.
Per quanto riguarda la frutta, la tradizione veneta si fermava all'uva passita, alle conserve de pomi, peri, zarese, castagne, alle mele conservate nella paglia, all'aperto sull'aia, alle nespole (tempo e paia maura le nespole).

 


Lavorazione del formaggio, particolare
(illustrazione tratta da
l'Encyclopèdie di Diderot - D'Alembert)

Degli ortaggi, le biscote, verze in salamoia, la conserva di pomodoro, i pearoni soto asedo, peperoni sotto aceto, il cren sotto olio, le cipolle e l'aglio intressà, attaccate a qualche trave, a forma di treccia.
La maggior preoccupazione della mare, governatrice della casa, era quella di tener presente il tempo di maturazione e le possibilità naturali di conservazione di ogni prodotto (zucche, fagioli, ecc.) perché nulla andasse buttato o perduto.
Per questo la cucina tradizionale e contadina è ciclica, legata alla produzione stagionale.
D'estate, nelle case c'era qualche angolo più fresco dove si riponeva il cibo protetto da una moscarola, oppure si riponeva in un cestello che si teneva legato dentro il pozzo, a livello dell'acqua. D'inverno non era raro vedere cestelli, sporte o altro attaccati a qualche finestra a tramontana, all'esterno: era cibo messo al "fresco", in "frigo".
 
Nelle case con possanza, di proprietari, esistevano delle ghiacciaie rudimentali, alimentate con pezzi di ghiaccio provenienti da fabbriche cittadine (le fabriche del giazo) oppure dalle ghiacciaie della montagna.
Nelle corti, spesso i proprietari si costruivano la giazara che, oltre alla conservazione dei cibi, offriva all'esterno la possibilità di costruire giardini "freschi".
Anche nei paesi, dove c'era la macelleria, esisteva la ghiacciaia, spesso costruita in comunità tra i proprietari di terre e di diritti d'acqua. Il ghiaccio, infatti, veniva "scavato" nei fossi, nei dugali, nelle zeriole soggette a diritti di uso e di proprietà. I poveri avevano diritto a un pezzo di ghiaccio quando il dottore ne ordinava la necessità per le febbri gravi o altre malattie, ma non potevano godere del diritto de giazara, si diceva. Del resto, cosa potevano portare di così grosso da conservare in ghiacciaia?

 

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