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Frutta e verdura del Veneto

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Consorzio dell'Asparago bianco di Cimadolmo I.G.P

Consorzio tutela ciliegia di Marostica I.G.P.

Consorzio per la tutela del fagiolo di Lamon della vallata Bellunese I.G.P.

Consorzio tutela Radicchio rosso di Treviso I.G.P.

Il radicchio

 

Il radicchio rosso di Verona

La buona cucina del radicchio

Asigliano e il radicchio vicentino

 

 

Le terre rosse del Guà

La patata dorata tesoro della bassa

 

 

 

 I piselli di Lumignano dei Colli Berici

 Da Lumignano i piselli migliori

 Una varietà chiamata Palladio

 

 

Melograni, giuggiole, mandorle...

Nespoli, cotogni, cachi...

 

 

Consorzio dell'Asparago bianco di Cimadolmo I.G.P.

logo asparago bianco cimadolmo

La denominazione 'Asparago Bianco di Cimadolmo' è riservata ai turioni di asparago che rispondono alle condizioni e ai requisiti previsti nel disciplinare.

In particolare è ben delimitata la zona di produzione, comprendente alcuni comuni del Trevigiano sulla riva sinistra del Piave, un territorio caratterizzato fino a pochi decenni fa dalle frequenti alluvioni del fiume.

Oggi di quei tempi resta solo il ricordo, e queste campagne hanno assunto l'aspetto e la redditività della migliore terra veneta.

La coltivazione dell'asparago bianco trova qui fertile e disponibile accoglienza proprio nel limo lasciato dalle diversioni del corso del Piave; sono infatti idonei a questa coltura i terreni sabbiosi, di origine alluvionale, permeabili ed accuratamente drenati.

Anche il clima temperato-umido di questa zona è ideale, con primavere molto piovose che garantiscono una rapida crescita dei turioni.

L'aparago di Cimadolmo si presenta di colore totalmente bianco, senza sfumature verdi neppure sulla punta; inoltre dev'essere intero, esente da ammaccature ed impurità, privo d'umidità eccessiva e odore o sapore estraneo. Molto importante l'etichettatura, dove la designazione dell'IGP attesta la garanzia del prodotto e della zona di provenienza. Gli asparagi coltivati nel comune di Cimadolmo possono inoltre essere designati con la menzione aggiuntiva 'Piave'.

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Consorzio tutela ciliegia di Marostica I.G.P.

logo ciliegia di marostica
   

 La cerasicoltura del Morosticense colloca la provincia di Vicenza al secondo posto nel Veneto per la coltivazione di questo frutto.

Di tempo ne è passato molto, da quando, negli anni '50, i cerasicoltori raccoglievano di notte le ciliegie e poi le convogliavano al mercato di Mason.

Allora non esisteva ancora una vera sede consortile e un locale era messo a disposizione del comune.

Lì si accoglievano tutte le ciliegie del territorio comunale e dei comuni limitrofi. Il Consorzio nacque nel 1957 e ancora oggi raccoglie, conserva e distribuisce i frutti coltivati su una superficie di circa 460 ettari.

Oggi sul mercato sono presenti principalmente queste varietà di ciliegia (Prunus Avium): Roana, Moretta, Sandra, Romana, Durone rosso, Industria e Bigarreau.

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Consorzio per la tutela del fagiolo di Lamon della vallata Bellunese I.G.P.

 

logo consorzio tutela fagiolo di lamon

La produzione del fagiolo di Lamon è tutelata da alcune comunità montane, che ne custodiscono e governano la semina.

Bisogna comunque fare una distinzione; la zona di produzione delle sementi è d'esclusiva pertinenza di una limitata area, quella compresa cioè fra l'altopiano di Lamon e di Sovramonte, mentre la zona coltivazione del fagiolo interessa, oltre a questi due, anche altri comuni della comunità montana Feltrina, Bellunese e della Valbelluna.

Sono quattro i tipi fondamentali di Lamon.

Il tipo Spagnol ha forma ovoidale e si presenta con le tipiche striature rosso carnose. Il peso medio è di 1.2 gr per seme. Per la sua aromaticità è un tipo di fagiolo adatto per la preparazione d'insalate.

Il tipo Spagnolet è più piccolo del precedente, ha una forma piuttosto rotondeggiante, a botte, e si presenta con striature rosso brillanti su fondo bianco crema. E' particolarmente ricercato a motivo della buccia particolarmente tenera e sottile. Il suo baccello è di colore rosso fuoco ed al suo interno ospita 4 semi. E' senz'altro il più indicato per la preparazione di antipasti e contorni.

Il tipo Calonega è il più grande di tutti. Facilmente riconoscibile per la forma a barchetta del seme. Viene intensamente coltivato a motivo dell'elevata produttività e del particolare gusto, che ricorda l'aroma di castagna. E' il fagiolo ideale per la preparazione di minestre.

Il tipo Canalino che pur essendo un fagiolo dall'ottima resa, particolarmente aromatico e di bell'aspetto, attualmente è in disuso a causa della buccia spessa. Rimane pur sempre un ottimo fagiolo per la preparazione di passati di fagiolo.

Si narra che gli antenati di questa leguminosa siano arrivati in Europa grazie a Papa Clemente VII, che ne fece dono al bellunese Pietro Valeriano.

Quest'ultimo si affrettò a donarlo alla corte di Alessandro De' Medici, e da qua passò quindi in Francia grazie a Caterina, che sposò Enrico II, portando in dote, tra l'altro, anche il fagiolo di Lamon. Sembra una saga hollywoodiana, ma questo dare "nobili lombi" a un prodotto ritenuto per secoli il cibo dei poveri è dovuto, essenzialmente, alla scoperta della sua bontà e unicità.

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Consorzio tutela Radicchio rosso di Treviso I.G.P.
 

logo Consorzio tutela radicchio rosso di Treviso

È difficile trovare qualcosa da eccepire a chi sostiene che l'indiscusso e consolidato "Re" delle tavole invernali è il radicchio rosso di Treviso. Tra i raccolti tardivi di una terra che, in autunno avanzato, quando i campi si spogliano, si prepara ai rigori dell'inverno, primeggia sicuramente per qualità e prelibatezza. Il prezioso ortaggio ha conquistato in brevissimo tempo i gourmet e la ristorazione più esigente, senza sofisticate campagne pubblicitarie né esasperate strategie di marketing tutto grazie alle sue straordinarie caratteristiche organolettiche.

La sua produzione è laboriosa; piantato in estate, i geli dell'inverno né rinsecchiscono le foglie più esterne e solo a questo punto le piante vengono immerse in acque risorgive circolanti nel terreno. Al riparo della luce acquista così la tipica forma e colore. Il radicchio rosso di Treviso esiste in due tipologie: la tardiva e la precoce. Il più pregiato è il radicchio tardivo, con un cespo lungo circa 20 cm, con germoglio compatto in cui prevale la nervatura bianca sul lembo rosso fogliare privo di nervature. È chiamato "spadone", ricordando le lunghe lame bianche e lucenti.

Entrambe i prodotti hanno un piacevole sapore amarognolo, e sono diventati il simbolo della creatività della cucina Trevigiana. Sono centinaia le ricette che li vedono protagonisti; le più conosciute sono il risotto al radicchio ed il radicchio ai ferri, anche se la "morte sua" è in insalata.

La zona di produzione del radicchio variegato di Castelfranco si estende tra le province di Treviso, Venezia e Padova.

Il cespo può raggiungere i 15 cm di diametro, ha un apparato di foglie variamente disposte, tanto da formare una vera e propria struttura a forma di fiore.

L'inconfondibile colore delle foglie bianco-crema è puntellato da variegature (da cui il nome) viola-rossastre ed il sapore varia dal dolce al leggermente amarognolo.

La sua coltivazione viene effettuata da marzo a dicembre.

Data la delicatezza delle foglie, in cucina questo radicchio ama piatti poco elaborati.

È ottimo soprattutto crudo, in insalata, ma l'inventiva dei cuochi trevigiani è riuscita a proporlo in numerose e fantasiose preparazioni.

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Il radicchio

 


 


radicchio rosso precoce Treviso

radicchio rosso Verona

radicchio rosso Chioggia

 

radicchio rosso tardivo Treviso

radicchio rosso variegato di Castelfranco

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Il radicchio rosso di Verona
I
l radicchio rosso è una cicoria (Cichorium intybus) e dunque uno stretto parente della pianta spontanea che allieta i cigli delle strade e gli incolti con l'azzurro intenso dei suoi fiori, simili a piccoli astri.Pianta di poco conto, si direbbe, ma sbagliando perché per secoli, in tutta Europa, le sue foglie sono state considerate pregiate come verdura e foraggio e le sue radici carnose venivano seccate, tostate e macinate per utilizzarle come surrogato del caffè. Quanto alla varietà a foglia rossa, gli esperti ritengono che sia di lontana origine orientale, introdotte nei possedimenti di terra della Repubblica diVenezia nel '400 e dal secolo successivo intensamente coltivata, specialmente nel Trevigiano.
Del radicchio la tavola contadina faceva utilizzo tutto l'anno. Nella bella stagione si consumavano i radicchi da taglio, crudi in insalata mentre erano giovani, anche se amarognoli e un po' duri, oppure lessati e passati in tegame con un po' di pancetta. Altri radicchi venivano invece seminati in estate ed erano consumati dall'autunno alla primavera come 'zermoi'.
Per resistere al freddo venivano protetti coprendo le 'vanese' degli orti di foglie secche o addirittura trapiantati in cassette e portati a maturazione al calore di una stalla. Assai più recente è la selezione che ha portato alle varietà che oggi conosciamo e che hanno fatto del Veneto la roccaforte di tutti i radicchi, con8.000 ettari coltivati e una specializzazione a dir poco eccezionale.
Capofila del settore è il radicchio di Treviso, indicato come il progenitore delle altre varietà, precoce o tardivo, comunque inconfondibile per il cespo verticale e sottile, le foglie rosse e costa bianca, di sapore amarognolo. Lo affiancano il radicchio di Chioggia, facilmente riconoscibile per i grumoli sferici e compatti, di taglia ridotta, e il radicchio di Verona a cespo ovale con foglie esterne espanse. È di quest'ultimo che approfondiremo la conoscenza perché oltre ai 1.300 ettari della zona di origine viene coltivato anche nel Vicentino.

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La buona cucina del radicchio

Un ruolo determinante nella valorizzazione di un prodotto di pregio come il radicchio rosso di Verona è senza dubbio quello della ristorazione. Nei ricordi dei meno giovani sono senza dubbio le scorpacciate di 'zermoi col lardo', piatto tipicamente vicentino, semplice ma così gustoso da aver varcato i confini della provincia affermandosi anche a Castelfranco e a Treviso. Utilizzato in sostituzione del costoso olio d'oliva, il lardo veniva dapprima battuto con un coltello scaldato sulle braci, poi fatto sciogliere al fuoco in un tegame, e infine, dopo che vi era stato aggiunto un po' di aceto, sale e pepe, versato sulle verdure. Delizioso, con buona pace dei profeti del colesterolo che dovevano ancora venire con i loro giusti ma deprimenti insegnamenti. A partire da questo piatto tradizionale, la rassegna degli utilizzi gastronomici del radicchio, ben prestandosi alla cottura e all'abbinamento con funghi e quant'altro, è praticamente infinita.
È quanto si evince dai menù dei ristoranti del gruppo «Le Buone Tavole dei Berici» che ogni anno, a fine novembre, organizzano serate a tema per onorare con creatività questo generoso fiore d'inverno. Volendo comporre un banchetto ideale che abbia per protagonista il radicchio di Asigliano citiamo:
come antipasto, una torta salata di radicchio su fonduta di Asiago; come primo, un risotto al radicchio brasato con scalogno e salsiccia; come pietanza, dei bocconcini di vitello con salsa al radicchio.
A far loro da contraltare, impegnandosi sul fronte della tradizione e della semplicità, dovranno essere gli operatori agrituristici con quei piatti casalinghi, come il pasticcio di radicchio o il 'radicio in tecia', che è sempre un piacere gustare
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Asigliano e il radicchio vicentino

La zona del Basso Vicentino è un territorio a spiccata vocazione orticola per la composizione del terreno, fertile e leggero, e l'abbondanza di acque. Di rilievo nazionale è la coltivazione della patata, nelle cosiddette terre rosse del Guà, ma anche il radicchio rosso di Verona, che spesso le subentra per un secondo raccolto in autunno-inverno, sta assumendo caratteristiche di prim'ordine. Ciò avviene soprattutto nel comune di Asigliano, dove si concentrano i nove decimi della superficie specializzata, stimata in 400 ettari con una crescita del 5-10% annuo (altri centri interessati alla coltivazione sono Poiana, Orgiano e Sossano). La produzione, che offre rese medie di 100 quintali per ettaro, interessa due varietà simili per fisionomia - cespo espanso medio-grande, foglie rosse con nervature bianche, bene evidenti e aperte; grumolo compatto, serrato nella parte apicale, di forma leggermente ovale - ma distinte per epoca di maturazione. La varietà precoce si semina in pieno campo nella seconda metà di luglio; ha foglie rosse fin dai primi stadi di sviluppo e per questo non richiede alcuna forzatura; il peso del grumolo pronto per la vendita varia dai 150 ai 350 grammi. Si raccoglie e si immette immediatamente sul mercato dai primi di ottobre a tutto novembre.
La varietà tardiva si semina invece a fine luglio e ha ciclo vegetativo con una più lenta formazione del cespo e foglie verdi, che virano al rosso solo ai primi freddi. Dopo la raccolta, che inizia ai primi di dicembre e, si protrae fino a gennaio inoltrato, il cespo viene toelettato e sottoposto a forzatura per una ventina di giorni in pieno campo in cumuli protetti da teloni di nailon; questa operazione porta alla formazione di un grumolo di peso compreso tra i 100 e i 300 grammi, che pur aumentando in compattezza acquista in tenerezza e dolcezza delle foglie. Per la ricchezza di sostanze di riserva accumulate nella crescita protratta, il radicchio tardivo è il più adatto alla conservazione ed è proprio la presenza sul mercato quando le altre varietà sono esaurite a rappresentare una delle sue grandi attrattive commerciali.

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Le terre rosse del Guà
Il
Veneto è stata una delle prime regioni d'Italia a entrare in contatto con la patata, giunta in Europa sulla scia della scoperta dell'America e già presente a fine'500 nelle collezioni dell'Orto Botanico di Padova. Non fu, a dire il vero, amore a prima vista.
Nei secoli successivi la solanacea venne coltivata sporadicamente dalla Carnia al Polesine senza peraltro entrare nelle grazie dagli agricoltori.
Solo ai primi del'900, con l'avvio di specifici studi agronomici, divenne chiaro che la sua coltivazione poteva assicurare rese, strabilianti per l'epoca, di 250 quintali per ettaro (oggi si arriva a 500). Fu così che nei decenni successivi venne individuata l'area a maggiore vocazione nelle terre alluvionali formate in tempi remoti dal divagare dell'Adige e in seguito solcate da quel corso d'acqua che, nato tra i Monti Lessini, assume strada facendo triplice nome: Agno, dalla sorgente all'esordio in pianura; Guà, nel suo primo tratto padano; Frassine o Fratta fino allo sbocco a mare.
Il tratto che interessa la patata è quello mediano: soprattutto qui,infatti, alla base sabbiosa, si sono aggiunte le argille ricche di ferro, diorigine vulcanica, che gli conferiscono l'aspetto di "terre rosse" e nefanno un ottimo suolo da ortaggi (sabbia 49%, argilla 32%, limo 19%).
In queste distese di campi mosse da leggerissime ondulazioni la patata subentrò gradualmente alle coltivazioni tradizionali: prima a livello di autoconsumo familiare, poi come coltura da mercato o, come si era soliti dire, "di gran reddito". All'inizio gli agricoltori erano dubbiosi sulla possibilità di ottenere buoni raccolti di patata sui terreni argillosi della zona, ma ben presto fu chiaro che le terre rosse del Guà erano particolarmente vocate allo scopo garantendo, a prescindere dalla varietà seminata, un prodotto eccellente, o ancor più attraente dalla particolare colorazione e lucentezza della buccia. Il riscontro veniva dal mercato che riconosceva alla "patata dorata del Guà", come si prese a chiamarla, prezzi superiori ai tuberi prodotte nelle zone limitrofe o anche nella stessa area, ma su terreni sabbiosi. Proprio in quegli anni aveva inizio, su basi empiriche, la selezione genetica della semente, proseguita oggi con tecnologie d'avanguardia alla Stazione di Genetica e Sperimentazione Agraria di Lonigo. Il pieno sviluppo della coltura si aveva con la progressiva estensione della rete irrigua, che oggi copre praticamente tutto il territorio interessato.

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La patata dorata tesoro della bassa

Gli accorgimenti utilizzati dai produttori per ottenere un prodotto di qualità superiore hanno inizio dalla lavorazione del terreno: in primo luogo, la conciliazione, che prevede solo l'impiego di letame bovino, l'unico a non influenzare il sapore del prodotto; quindi l'aratura, condotta in modo da ottenere il rimescolamento e la consistenza più idonei allo sviluppo delle patate.
Nella semina vengono poi impiegati solo tuberi certificati esenti da virus. Il diserbo e la difesa parassitaria, in particolare, sono condotti con grande oculatezza, con l'obiettivo di ridurre al minimo il ricorso a prodotti chimici di sintesi e di selezionare gli agenti a minore impatto ambientale.
Quattro le varietà più coltivate: Primura, la più diffusa (70%), Monalisa (10 %), Liseta (5%) e Alba (I%), a copertura di tutti gli usi gastronomici. Comune a tutte sono le caratteristiche esteriori dovute alla natura delle terre rosse del Guà: la forma allungata del tubero, occhi superficialissimi, che quasi non si vedono, la buccia chiara, liscia, pulitissima, con la doratura caratteristica che solo poche altre patate possono vantare. A distinguere la patata veneta è comunque una qualità complessiva derivante da un insieme di fattori: impiego di varietà estremamente pregiate, tecniche di avanguardia dalla coltivazione alla raccolta e quindi dalla conservazione alla presentazione con una confezione innovativo. Niente a che vedere con altre produzioni, nord-europee in particolare, dove è privilegiata la meccanizzazione, che abbassa sensibilmente i costi ma costringe a ricorrere a varietà ricche di amido e fibra, adatte a una manipolazione spinta ma per questo più coriacee e meno gradevoli al palato.
Le sorti della patata venera sono rette in massima parte dall'Appa (Associazione Produttori Patate), che riunisce cooperative e singole aziende e organizza produzione e raccolta di circa 600.000 quintali, gestendone in parte il commercio sotto il marchio registrato «Dorata». Gli sbocchi di mercato, al di fuori del Veneto, sono in Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e in altre regioni dell'Italia Centrale, nonché in Svizzera e in Germania, mercati pataticoli notoriamente esigenti

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I piselli di Lumignano dei Colli Berici
Percorrendo la Riviera Berica, pochi chilometri a sud di Vicenza, un campanile alto e aguzzo annuncia Lumignano, importante frazione di Longare che lega la propria fama fin dall'antichità alla coltivazione del pisello (Pisum sativum). A introdurla furono, a quanto pare, quegli stessi monaci Benedettini che intorno al Mille bonificarono la bassa pianura vicentina. E qui, ai piedi delle rupi che imbiancano il versante orientale dei Colli Berici, il dolce legume venuto dal Medio Oriente trovò un habitat ideale.
La composizione del suolo e il clima, favorevolissimo per l'esposizione ma anche per il riverbero delle rocce, permettevano una produzione tanto precoce da essere richiesta dai Dogi di Venezia per il banchetto della festa di san Marco, il 25 di aprile. Le ceste, caricate sui burchi (barche da trasporto a fondo piatto) che discendevano il Bacchiglione, rappresentavano il piccolo tesoro e l'orgoglio della gente del luogo. Era una coltivazione remunerativa ma faticosissima perché per sfruttare le esposizioni migliori si arrivava a coltivare fazzoletti di terra nei punti più scoscesi, costruendo terrazze, le 'masiere' o 'banchette' del parlar comune, con muretti a secco e portando tutto a spalle, con le gerle, anche il concime.
Il premio era un prodotto di ineguagliabile delicatezza al palato che sublimava nel più caratteristico dei piatti primaverili, risi e bisi, più minestra che un risotto, semiliquida e ricca di piselli come vuole il detto «ogni riso un biso».
Per prepararla si partiva da un 'desfrito' di lardo o pancetta battuti con cipolla e prezzemolo. Poi si aggiungevano i piselli con acqua e brodo fino a cottura, infine si aggiungeva il riso. Un piatto semplice, che però non mancava mai nei banchetti delle tante dimore nobili della Riviera, come una memorabile cena dai D'Aremberg a Costozza, bagnata da pregiatissimi vini. E chissà, forse anche tavole tanto aristocratiche non avrebbero disdegnato la gustosa variante in uso nelle case contadine, risi e bisi con l'oca in onto, ricorrendo per l'occasione alla carne messa via in inverno nel suo grasso.
I piselli, ovviamente si preparavano anche in "técia". Non occorreva lessarli: aggiunti al soffritto, magari con un po' di pomodoro o di conserva, li si lasciava 'pipare' su un angolo della stufa con la pentola quasi del tutto coperta, aggiungendo un po' d'acqua solo se necessario. Una volta pronti, morbidi e delicatissimi, erano il miglior condimento delle "tajadele de casa", altro piatto apprezzatissimo per festeggiare la Pasqua.

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Da Lumignano i piselli migliori

Venendo a considerazioni più schiettamente astronomiche, la zona berica tradizionalmente vocata alla coltivazione del pisello è praticamente tutta la fascia pedecollinare dei quadranti meridionali, da Longare a Lonigo,con punti locali a Lumignano ma anche a San Germano e Villaga. Qui si riscontrano le condizioni pedoclimatiche più favorevoli: suolo di medio impasto, con una percentuale di calcare adeguata, fresco e sciolto; clima esente da freddi profondi e da gelate tardive, comunque fresco in primavera, come richiede la pianta per una fruttificazione abbondante e progressiva.
In un contesto già felicissimo una realtà privilegiata è quella di Lumignano, dove la roccia forma una sorta di scodella rivolta a sud-est che crea il microclima adatto a piante tipicamente mediterranee come l'olivo e il mandorlo tra quelle coltivate e lo spino di Giuda (Cercis siliquastrum), dalla intensa fioritura purpurea, tra quelle spontanee.
Ciò rendeva possibile la semina del pisello da novembre a gennaio - nella "quarantìa de San Martìn", come si era soliti dire - e una raccolta che un tempo si presentava con largo anticipo sulle produzioni di pianura, fornendo l'eccezionale vantaggio commerciale testimoniato dal favore goduto per secoli presso la Serenissima. All'eccezionalità del luogo si è aggiunta nel tempo l'abilità dei coltivatori nel selezionare le varietà più adatte per ciclo vegetativo e prodotto a mantenere saldo il primato vicentino: la più apprezzata, pur nell'estrema eterogeneità della produzione, era il cosiddetto Verdone, che abbinava alle caratteristiche di precocità un baccello attraente e semi di eccellenti qualità organolettiche.
L'apice della coltura tradizionale può dirsi raggiunto nella prima metà del Novecento, quando il patrimonio di conoscenze locali venne confortato da pratiche agronomiche moderne, e in primo luogo della conciliazione a base di fosforo e potassio (soprattutto il primo, poco presente nei terreni berici). La coltura aveva raggiunto un tale successo che a Lumignano in maggio si teneva mercato tutte le sere: i contadini si ritrovavano nello spiazzo della vecchia Osteria dei Bisi, lungo la strada della Campanonta, verso Costozza, e regolarmente un camion partiva carico alla volta di Milano. Coronava la felicità del momento il fiorire della sagra dei piselli, con grande concorso di visitatori e commercianti, come si legge nelle cronache del tempo.

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Una varietà chiamata Palladio

Nel dopoguerra cambiano gli scenari commerciali.
Migliorano i trasporti e le tecniche di conservazione, si affacciano ai mercati del Nord le produzioni precocissime della Puglia, della Campania e della Sicilia. Il mercato, più esigente e ristretto, stimola anche nel Vicentino la necessità di contromisure per occupare una nuova nicchia in nome della superiore qualità della coltura collinare. Nella circostanza è l'Istituto di Genetica e Sperimentazione Agraria Strampelli di Lonigo ad assumere l'iniziativa di porre ordine nella variegata compagine dei piselli berici con l'obiettivo di giungere a una ‘cultivar' che potesse distinguersi in un mercato sempre più affollato.
Il punto di riferimento è la nota varietà Piccolo Provenzale, dalla quale viene selezionata una pianta che abbina essenzialmente la precocità, orgoglio storico di Lumignano, alla taglia ridotta, o nana nel parlar comune, indispensabile sia per meglio resistere al clima arido della zona sia per evitare il ricorso a tutori e ridurre i costi del lavoro su un terreno tanto accidentato.
Nei primi anni Sessanta il risultato della selezione è una varietà che viene presentata con giusto orgoglio sotto il nome di Palladio e destinata arinnovare una coltura al tempo valutata in 100 campi vicentini (400 ettari)e 30.000 quintali.
Ahimé, tali aspettative erano destinate a infrangersi contro il cambiamento epocale che, negli anni del boom economico, ha sottratto tante braccia all'agricoltura condannando all'abbandono le sudatemasiere di Lumignano. A causa anche della concomitante invasione di varietà di piselli straniere, si disperdeva così il prezioso lavoro di selezione relegando il Palladio alle polverose pagine delle pubblicazioni di agronomia dell'epoca. Il caso ha voluto, però, che quella che sembrava la tomba del pisello vicentino, fosse anche il punto di partenza della sua rinascita. Protagonista di una vicenda che merita di essere raccontata è un agronomo in pensione, Lodovico Marangoni, che si è imbattuto proprio negli estratti riguardanti i piselli di Lumignano; appassionatosi al caso, ha contattato l'Istituto Strampelli e, come talora capita nelle belle favole, in quattro e quattr'otto si è trovato a coltivare un appezzamento sperimentale con 13 varietà di piselli tra le quali si spera di selezionarne una con caratteristiche simili al Palladio. Senza dire delle risorse che si potrebbero recuperare indagando di orto in orto: a San Germano parlano di un delicatissimo pisello Bianchetto; a Mossano, tra gli olivi, è segnalata un'altra coltivazione antica. Chissà..

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Melograni, giuggiole, mandorle...

Frutti perduti, si è soliti dire con la nostalgia per i loro sapori.
Forse sarebbe meglio dire frutti smarriti, per tener viva la speranza di rivederli sui colli e sulle nostre tavole.
Sono quelle specie coltivate che rischiano di essere soppiantate dai prodotti dell'agricoltura moderna, più belli e più convenienti, ma anche banali nei sapori, se questo qualcosa importa.
Un tempo ogni fattoria aveva i suoi alberi da frutto, talora unici per secolare quanto inconsapevole selezione: mele e pere, ovviamente; ciliegie e marasche, susine e pesche; un filare d'uva primaticcia da tavola e un fico, i cui frutti, seccati, si consumavano con il pane o la polenta in inverno; senza dire di qualche pianta particolare, per così dire esotica, che rappresentava il vanto e la curiosità dell'orto.
Da questo punto di vista prima citazione è senza dubbio per il melograno (Punica granatum, 'malgaragno') grosso arbusto caratteristico per il fogliame verde intenso e per i fiori vermigli, ma soprattutto per i frutti, costituiti da particolari bacche dette balausti, che giungono a maturazione in autunno.
I melograni (in dialetto 'malgaragni', 'pòmi granà') sono davvero inconfondibili per la buccia coriacea, cangiante dal giallo al rosso intenso, e per il gran numero di semi circondati da una polpa succosa che rappresenta la parte commestibile.
Da questa si ricava un succo di sapore fresco e acidulo, che serve per la preparazione di sciroppi, le cosiddette granatine, ma anche in cucina per insaporire varie preparazioni.
Uno dei piatti caratteristici del l'autunno vicentino è proprio la tacchina al melograno ('paeta al malgaragno'), cotta arrosto e irrorata col fondo di cottura corroborato dal succo zuccherino.
La pianta, che è di origini orientali ed è documentata nei giardini pensili di Babilonia, dalle nostre parti richiede esposizioni riparate ma, cosa singolare, proprio nei climi rigidi tende a dare raccolto più abbondante.
Sui Berici è presenza frequente negli orti di casa: i frutti, hanno sempre qualche estimatore disposto alla paziente opera di sgranatura, senza dire della loro funzione di decoro invernale sulla mensola del camino.
Al pari di 1 melograno il giuggiolo (Ziziphus jujuba, 'dudolaro')è un alberello o più spesso un arbusto; lo si riconosce senza incertezza per i rami che si sviluppano a zigzag e per le foglie contrapposte che li adornano; i frutti sono delle drupe ovoidali, di colore rossobruno, dalla buccia i lucida.
Anche il giuggiolo è di origine mediorientale e ciò spiega la sua resistenza tanto al caldo e alla siccità quanto agli inverni rigidi, condizioni che si ritrovano anche nell'ambiente berico.
Le giuggiole ('dùdole' 'sùsube" 'zìzole') maturano nel primo autunno e si consumano sia fresche che leggermente avvizzite (ma vengono anche fatte seccare).
Un tempo i contadini le mettevano anche a macerare nella grappa per conferirle un gradito aroma di frutta.
Nel Vicentino la coltivazione del giuggiolo è attualmente circoscritta all'ambito familiare ma è significativo che la specie rivesta un certo interesse economico in zone vicine: nei Coli Euganei, innanzitutto, ma anche nel Basso Garda, dove si produce ancora il brodo di giuggiole, un liquore di ricetta rinascimentale tanto raffinato da ispirare l'espressione 'andare in brodo di giuggiole' per indicare uno stato di grazia davvero fuori dal comune.
Per restare a specie d'ambiente mediterraneo, l'ultima citazione è per il mandorlo (Prunus amygda lus,'mandolaro'), d'origine nord-africana, che sui Colli si trova piantato sulle coste più assolate assieme all'olivo, un po' come avviene in Sicilia, terra che più prontamente associamo alla sua coltivazione.
La presenza di questo albero, per quanto improbabile possa sembrare in ambito vicentino, ha conferma storica nella toponomastica che registra, per esempio, una via Mandolare che risale i Colli in quel di Villaga.
Nel passato il raccolto, mai abbondante, era utilizzato nella preparazione di dolci e in particolare di un croccante casareccio, insieme ai più comuni semi di pesca, albicocca e a gherigli di noce.
Oggi il mandorlo potrebbe recuperare questa funzione, pensando più a torte e pasticcino che a far concorrenza al mandorlato vero e proprio che ha nonlontano, tra Lonigo e Cologna Veneia, il suo distretto d'elezione.

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Nespoli, cotogni, cachi...
Venendo a piante più continentali, merita menzione il nespolo (Mespilus germanica, 'nespolaro') piccolo albero della famiglia delle Rosacee, dai frutti autunnali, globosi e color ruggine, con apice cavo nel quale è visibile il seme, circondato da lunghi sepali persistenti.
È una specie originaria dell'Europa sud-orientale, diffusasi poi in tutto il continente e coltivata per i frutti di facile conservazione fino a inverno inoltrato.
Nei nostri climi, infatti, le nespole diventano mangiabili solo dopo che il gelo le ha toccate disgregando la polpa che poi 'ammezzisce' diventando molle e di sapore dolciastro.
Da ciò deriva la consuetudine di coglierle ancora dure per farle maturare lentamente sulla paglia; una volta pronte, si consumano così come sono, con un buon bicchiere di rosso, oppure si possono usare per fare gelatine e marmellate.
La sua coltura è praticamente scomparsa, tanto che i più lo confondono con il nespolo del Giappone, i cui frutti hanno colore arancione e maturano nella tarda primavera.
Affine al nespolo è il cotogno (Cydonia oblonga,'codognaro'), albero di piccola taglia, inconfondibile quando a fine estate si carica dei frutti giallo pallidi, di forma irregolare, a metà tra mela e pera.
La specie è originaria del Mediò Oriente e fu molto coltivata dai Romani, che la diffusero in Europa.
Il frutto, intensamente profumato, appena colto è duro e di gusto non proprio gradevole, ma quando è cotto la polpa assume un colore rosa e un sapore delicato.
Un tempo i cotogni venivano passati al forno o messi sul fuoco con mosto d'uva; i vignaioli invece li bollivano con le vinacce per preparare una lavanda con cui aromatizzare le botti.
Un uso tutto vicentino del cotogno è quello della mostarda, una marmellata senapata che ben poco ha che fare con l'omonimo prodotto di Cremona, fatto con frutta mista candita ma che altrettanto bene si presta ad accompagnare bolliti e arrosti.
Il più diffuso utilizzo del cotogno resta comunque la preparazione della cotognata, marmellata o gelatina, che un tempo si trovava anche confezionata in cartoccetti ed era una merenda sempre gradita ai bambini.
Un simpatico uso dei frutti era infine quello di profumare la biancheria nei cassetti o i locali di soggiorno.
La citazione finale è per il cachi (Diospyros kahí, 'cacaro'), l'ultimo in di apparizione tra le piante da frutta di provenienza esotica.
La pianta, infatti, ha origine giapponese e, se bene importato in Europa sul finire del '700, ha trovato diffusione e interesse alimentare solo nel secondo dopoguerra.
È una bella pianta, un vero e proprio albero, decorativa tanto per il fogliame lucido quanto per i frutti arancioni che danno una nota di colore ai campi quando il freddo ha spogliato tutti i rami.
I frutti, è ben noto, se sono acerbi legano in bocca; maturi, invece, sono dolcissimi e tanto morbidi da richiedere il cucchiaio, sostanziale mente si consumano freschi ma hanno buona riuscita anche per dessert e marmellate.
Il cachi non è propriamente un frutto desueto, tant'è che in certe zone Italia conta impianti specializzati, merita comunque di entrare nel novero delle specie da incrementare, soprattutto in collina, per la sua rusticità e la sua doppia valenza alimentare e ambientale.

 

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