Radiofreccia


Domenico Procacci (produttore cinematografico) cerca di convincere Liga a raccontare una storia, una di quelle che Luciano racconta nelle sue canzoni, questa volta attraverso un film. Così gli scrive una lettera dove si dice convinto di aver trovato nel suo libro, in quel "Fuori e dentro il borgo", un bel po' di "fotogrammi", pezzi di storie, personaggi, ambienti, alcuni così cinematografici che sembrano usciti dallo scermo. Ligabue non aveva mai pensato di fare il regista, almeno prima di questa famosa lettera. Liga scopre subito che l'idea originale di Procacci non gli piace. Un film da Blues Brothers di provincia, no, non se ne parla neanche. Però ripensa al libro e trova più di uno spunto interessante.
Si può partire da lì, e si parte, con l'ingaggio di Antonio Leotti come co-sceneggiatore e qualche incontro preliminare per darsi un'idea di scaletta. Il produttore è contento, ma in realtà medita il colpo grosso. Ligabue lui lo vede come regista, non solo come sceneggiatore.
"Io credo che fare il regista sia una cosa molto lontana dalla mia natura. La musica è un'esperienza più immediata. Il cinema ha a che fare con i filtri, con la progettazione, e quelli non sono i miei modi. Però ho sentito che era un'offerta che non potevo rifiutare. Volevo raccontare una storia, volevo immortalare un mondo e ricordare i miei quindici anni, e quello era il modo migliore di farlo. Ho vissuto tutto con questi sentimenti contrapposti: da un lato un'estrema voglia, dall'altro una grande ansia. Scrivevo un film e lo giravo senza avere esperienza ed effettiva tecnica. Una scommessa: e non mi sarei mai perdonato di fare le cose male."

Il film va a chiamarsi "Radiofreccia". Lo scrivono e sceneggiano Ligabue e Antonio Leotti dopo sette-otto stesure puntigliose, lo gira Liga stesso con l'assistenza di Antonello Grimaldi in dieci settimane, fra il maggio e il luglio 1998. L'idea originale è quella di scegliere attori non-professionisti, ma poi a Luciano viene il dubbio che potrebbe essere una mossa che gli complica la vita e lascia perdere. Così cinque giovani professionisti (Stefano Accorsi, Luciano Federico, Alessio Modica, Enrico Salimbeni, Roberto Zibetti), più Serena Grandi nella parte della madre di Freccia e Francesco Guccini, in una delle sue rare apparizioni sul grande schermo, che fa il barista.
La storia la racconta Ligabue stesso, in un'edizione speciale del giornale del Fan Club. "Sono le ventidue del 20 giugno 1993. Bruno Iori è al microfono di una piccola radio: Radiofreccia. La radio è così piccola che non copre bene neanche tutta la provincia, ma è riuscita a sopravvivere per quasi diciott'anni all'impossibile concorrenza dei networks e delle altre radio. In realtà Radiofreccia farebbe diciott'anni a mezzanotte, ma è proprio Bruno, che l'ha creata, che la vuole chiudere un minuto prima che diventi maggiorenne. E allora approfitta di quest'ultima trasmissione per parlare della radio stessa, dei giorni della sua nascita e degli avvenimenti a cui ha assistito. Avrà così modo di parlare di sé, del borgo, dei mutamenti avvenuti fra il '75 e il '77, della nascita e del cambiamento delle radio chiamate "libere" e soprattutto della avventure vissute fra goliardia e tragedie con i suoi quattro migliori amici."

Questa la trama. Più in fondo, "Radiofreccia" è un'affettuosa carezza lunga un'ora e cinquanta a un ragazzo di quindici anni timido che vive il suo mondo fantastico e poco legato alla realtà; che un giorno scoprì le radio e trovò quel microfono collegato con l'ignoto, e cominciò a respirare una nuova vita.
""Radiofreccia" non è un film sugli anni '70. Non parla a nome di nessuno, non racconta una generazione. E' un film su quella storia lì, in quel contesto lì. E perché il contesto fosse forte come la storia e i personaggi, ho deciso di far sentire in continuazione la terra, il suolo. Un richiamo continuo al posto del racconto, perché lo spettatore capisca senz'altro dove siamo: non è Roma, non è Milano, è Correggio."

Ci sono vari livelli di lettura di questo film. E se il primo è evidente, coinvolgente, ce n'è uno molto sottile, fatto di allusioni, sfumature, segnali in codice. Da grande appassionato di cinema, Ligabue si è ricordato di certi giochi enigmistici su grande schermo, e chi li vede è bravo. Qualche esempio. I dischi che i ragazzi portano in mano alla radio, nessuno è casuale, qualcuno anzi profetico: Tito ha in mano il primo dei Doors, l'album di "The End" e "Padre, ti voglio uccidere". Le iniziali del nome di Freccia (Ivan Benassi) sono poi le stesse del nome di Bruno (Bruno Iori), solo al contrario; come a dire che, in fondo, sono due facce della stessa persona (due facce di Ligabue, per esempio). Sempre più difficile. Freccia beve un caffé al bar e si arrabbia con Guccini rinfacciandogli che "sa di fosso": e proprio in un fosso ritroveranno il suo cadavere. Fra parentesi, Guccini nel film si fa chiamare Adolfo "e quando abbiamo scritto la sceneggiatura quel nome lì ci sembrava davvero improbabile, ma poi Francesco ci ha spiegato che è il nome del suo barista di fiducia e allora, davanti a una minuzia così precisa...". Ma basta, fermiamoci qua.

"Radiofreccia" viene presentato l'ultima sera della Mostra Cinematografica di Venezia, fuori concorso. L'accoglienza è calorosa e anche la stampa reagisce bene. Sembrano tutti spiazzati da un film per niente da rockstar. Due giorni prima che la pellicola arrivi nelle sale, però, la Commissione di Censura di primo grado la vieta ai minori di 14 anni, suscitando un vespaio di polemiche che si teme possa danneggiare il film. Finisce in una bolla di sapone, perché la Commissione d'Appello fa in tempo a ritirare il provvedimento prima dell'uscita. Nel frattempo però, titoli in prima pagina, gas polemici, menate. Ligabue abbastanza teso; già odia fare promozione, se poi tutti i discorsi del film ruotano intorno a una scena di sesso e droga di quindici secondi, bé, allora è una maledizione e un esaurimento nervoso.

Il film finalmente esce e va benissimo. Non mancano i premi, molto importanti e graditi. Un Grande Slam: tre "David di Donatello", due "Nastri d'argento", un "Golbo d'oro", tre "Ciack d'oro". "Radiofreccia" è giudicata la miglior "opera prima" del cinema italiano '98 e Luciano ne è giustamente fiero.
Alla fine, comunque, "credo che il libro mi abbia dato molte possibilità, credo che il fil sia riuscito a raccontare quel che volevo: ma credo anche che con le canzoni mi diverto molto di più.".

La colonna sonora è un bel giochino. Tutt'e due i dischi: quello con i materiali originali di Liga, e quello invece con le sua scelte "storiche", un cd bello denso che in un'ora cerca di spiegare che musica passava nelle "radio libere" in quei primi giorni.
Le canzoni sono dolcissime. "Siamo in onda", "Metti in circolo il tuo amore" e soprattutto "Ho perso le parole" sono tra le più belle ballate di Ligabue e lasciano intendere quanto l'autore ami il suo sfortunato protagonista; più che un accompagnamento alla storia, sono una lunga e affettuosa carezza. Anche il pezzo finale della banda che suona al funerale "Can't Help Falling In Love", è una carezza così. Nei progetti originali di Liga doveva esserci "Satisfaction", ma il cambio è forse meglio. Era il brano con cui Elvis chiudeva i concerti e ha nei suoi cromosomi non solo la dolcezza dell'amore, ma anche la malinconia di un finale.


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