Radiofreccia
Si può partire da lì, e si parte, con l'ingaggio di Antonio Leotti come
co-sceneggiatore e qualche incontro preliminare per darsi un'idea di
scaletta. Il produttore è contento, ma in realtà medita il colpo grosso.
Ligabue lui lo vede come regista, non solo come sceneggiatore.
"Io credo che fare il regista sia una cosa molto lontana dalla mia
natura. La musica è un'esperienza più immediata. Il cinema ha a che fare
con i filtri, con la progettazione, e quelli non sono i miei modi.
Però ho sentito che era un'offerta che non potevo rifiutare. Volevo
raccontare una storia, volevo immortalare un mondo e ricordare i miei
quindici anni, e quello era il modo migliore di farlo. Ho vissuto tutto
con questi sentimenti contrapposti: da un lato un'estrema voglia, dall'altro
una grande ansia. Scrivevo un film e lo giravo senza avere esperienza
ed effettiva tecnica. Una scommessa: e non mi sarei mai perdonato di
fare le cose male."
Il film va a chiamarsi "Radiofreccia". Lo scrivono e
sceneggiano Ligabue e Antonio Leotti dopo sette-otto stesure puntigliose,
lo gira Liga stesso con l'assistenza di Antonello Grimaldi in dieci
settimane, fra il maggio e il luglio 1998. L'idea originale è quella di
scegliere attori non-professionisti, ma poi a Luciano viene il dubbio che
potrebbe essere una mossa che gli complica la vita e lascia perdere.
Così cinque giovani professionisti (Stefano Accorsi, Luciano Federico,
Alessio Modica, Enrico Salimbeni, Roberto Zibetti), più Serena Grandi
nella parte della madre di Freccia e Francesco Guccini, in una delle sue
rare apparizioni sul grande schermo, che fa il barista.
La storia la racconta Ligabue stesso, in un'edizione speciale del giornale
del Fan Club.
"Sono le ventidue del 20 giugno 1993. Bruno Iori è al microfono di
una piccola radio: Radiofreccia. La radio è così piccola che non copre
bene neanche tutta la provincia, ma è riuscita a sopravvivere per quasi
diciott'anni all'impossibile concorrenza dei networks e delle altre
radio. In realtà Radiofreccia farebbe diciott'anni a mezzanotte, ma è
proprio Bruno, che l'ha creata, che la vuole chiudere un minuto prima
che diventi maggiorenne. E allora approfitta di quest'ultima trasmissione
per parlare della radio stessa, dei giorni della sua nascita e degli
avvenimenti a cui ha assistito. Avrà così modo di parlare di sé, del
borgo, dei mutamenti avvenuti fra il '75 e il '77, della nascita e del
cambiamento delle radio chiamate "libere" e soprattutto della avventure
vissute fra goliardia e tragedie con i suoi quattro migliori amici."
Questa la trama. Più in fondo, "Radiofreccia" è
un'affettuosa carezza lunga un'ora e cinquanta a un ragazzo di quindici
anni timido che vive il suo mondo fantastico e poco legato alla realtà;
che un giorno scoprì le radio e trovò quel microfono collegato con
l'ignoto, e cominciò a respirare una nuova vita.
""Radiofreccia" non è un film sugli anni '70. Non parla a nome di
nessuno, non racconta una generazione. E' un film su quella storia lì,
in quel contesto lì. E perché il contesto fosse forte come la storia
e i personaggi, ho deciso di far sentire in continuazione la terra, il
suolo. Un richiamo continuo al posto del racconto, perché lo spettatore
capisca senz'altro dove siamo: non è Roma, non è Milano, è Correggio."
Ci sono vari livelli di lettura di questo film. E se il primo è evidente, coinvolgente, ce n'è uno molto sottile, fatto di allusioni, sfumature, segnali in codice. Da grande appassionato di cinema, Ligabue si è ricordato di certi giochi enigmistici su grande schermo, e chi li vede è bravo. Qualche esempio. I dischi che i ragazzi portano in mano alla radio, nessuno è casuale, qualcuno anzi profetico: Tito ha in mano il primo dei Doors, l'album di "The End" e "Padre, ti voglio uccidere". Le iniziali del nome di Freccia (Ivan Benassi) sono poi le stesse del nome di Bruno (Bruno Iori), solo al contrario; come a dire che, in fondo, sono due facce della stessa persona (due facce di Ligabue, per esempio). Sempre più difficile. Freccia beve un caffé al bar e si arrabbia con Guccini rinfacciandogli che "sa di fosso": e proprio in un fosso ritroveranno il suo cadavere. Fra parentesi, Guccini nel film si fa chiamare Adolfo "e quando abbiamo scritto la sceneggiatura quel nome lì ci sembrava davvero improbabile, ma poi Francesco ci ha spiegato che è il nome del suo barista di fiducia e allora, davanti a una minuzia così precisa...". Ma basta, fermiamoci qua.
"Radiofreccia" viene presentato l'ultima sera della Mostra Cinematografica di Venezia, fuori concorso. L'accoglienza è calorosa e anche la stampa reagisce bene. Sembrano tutti spiazzati da un film per niente da rockstar. Due giorni prima che la pellicola arrivi nelle sale, però, la Commissione di Censura di primo grado la vieta ai minori di 14 anni, suscitando un vespaio di polemiche che si teme possa danneggiare il film. Finisce in una bolla di sapone, perché la Commissione d'Appello fa in tempo a ritirare il provvedimento prima dell'uscita. Nel frattempo però, titoli in prima pagina, gas polemici, menate. Ligabue abbastanza teso; già odia fare promozione, se poi tutti i discorsi del film ruotano intorno a una scena di sesso e droga di quindici secondi, bé, allora è una maledizione e un esaurimento nervoso.
Il film finalmente esce e va benissimo. Non mancano i premi, molto importanti
e graditi. Un Grande Slam: tre "David di Donatello", due "Nastri d'argento",
un "Golbo d'oro", tre "Ciack d'oro". "Radiofreccia" è giudicata la
miglior "opera prima" del cinema italiano '98 e Luciano ne è giustamente
fiero.
Alla fine, comunque, "credo che il libro mi abbia dato molte possibilità,
credo che il fil sia riuscito a raccontare quel che volevo: ma credo anche
che con le canzoni mi diverto molto di più.".
La colonna sonora è un bel giochino. Tutt'e due i
dischi: quello con i materiali originali di Liga, e quello invece con le
sua scelte "storiche", un cd bello denso che in un'ora cerca di spiegare
che musica passava nelle "radio libere" in quei primi giorni.
Le canzoni sono dolcissime. "Siamo in onda", "Metti in circolo il tuo
amore" e soprattutto "Ho perso le parole" sono tra le più belle ballate
di Ligabue e lasciano intendere quanto l'autore ami il suo sfortunato
protagonista; più che un accompagnamento alla storia, sono una lunga e
affettuosa carezza. Anche il pezzo finale della banda che suona al
funerale "Can't Help Falling In Love", è una carezza così. Nei progetti
originali di Liga doveva esserci "Satisfaction", ma il cambio è forse
meglio. Era il brano con cui Elvis chiudeva i concerti e ha nei suoi
cromosomi non solo la dolcezza dell'amore, ma anche la malinconia di
un finale.