Camera con vista su teatro


Quando il Liga era un bambino, andava a giocare in un parchetto giusto dietro il teatro della sua città, il "Bonifazio Asioli". Ce l'aveva sotto gli occhi tutti i giorni ed era una tentazione per la sua curiosità, con quegli stucchi, quei fondali che s'intravvedevano dalla grande porta sul retro, che per lavori di ristrutturazione era spesso aperta. Non aveva ancora deciso di fare il musicista, quel Liga piccolo, e allora non ci spendeva sogni; ma era come se il teatro in qualche modo lo chiamasse.
Lo chiamava, in effetti. Tanti anni dopo, facciamo venti, l'"Asioli" aprì le sue porte per una serata speciale di Ligabue giovane, quello del primo disco: uno show e le riprese di un video, prima di addormentarsi per un lungo sonno di restauro solo oggi terminato, undici anni dopo. Mentre quello dormiva, il Liga girava il mondo e tanti luoghi di musica. Piccoli club, sale più grandi, stadi. Anche il "Rolling Stone" ti chiama, anche San Siro, ma sono strilli forti, soffi imperiosi, non è quel canto sottile e struggente. Così a Luciano è rimasta la voglia di teatro; anzi gli è proprio cresciuta, mano a mano che la sua musica diventava grande e prendeva forma e colori, e gli pareva che si sviluppasse solo da certi lati e non da altri. Un giorno del 1997, al "Valli" di Reggio Emilia, provò a verificare quei suoi desideri con un concerto speciale. Tolse le prese di corrente, chiamò a raccolta i suoi musicisti non più ai quattro lati di un palco immenso, ma vicini vicini, e tutti seduti, e capì che poteva essere un divertimento. Musica più intima, rilassata; e certe canzoni che in quel clima unplugged crescevano strane, mettevano sfumature mai viste o forse eri tu, liberato dai ruggiti da stadio e dal pogare sotto il palco, forse eri tu spettatore che ci facevi più caso.
Ora, dimenticate quella parolina incubo troppo fortunata, "unplugged". Questo nuovo progetto non è un "unplugged". I fili della corrente ci sono, di più, ci sono computer che generano suoni, campionamenti, loops; e le canzoni non parlano sempre e per forza sottovoce. Diciamo che è un altro modo di affrontarle - Luciano dice "sbudellarle". Un modo attento, circospetto; pigiando meno sull'aspetto ritmico e badando invece più ai timbri, alle sfumature, ai particolari. Quando suoni in uno stadio, l'importante è accumulare energia e rilasciarla tutta insieme; un enorme fionda che fa slammmmmm, una grande biglia di fuoco che non sai distinguere ma che rotola bene così, travolgente abbagliante. In teatro non ci sono bocche di fuoco o, almeno, non viene da usarle. Diventi guerriero antico nel bosco: usi cerbottane, arco e frecce, arnesi piccoli per sgrezzare gli accordi, limare i timbri, lucidare i colori. Canti, devi cantare in maniera diversa. Le parole pesano di più e vanno collocate bene; e vai a lavorare sulla materia profonda della voce, sul tessuto, si deve proprio vederne la "grana".

"Al centro di questi concerti ci sono le parole e la melodia; subito a ridosso, la mia voce. Intorno c'è uno spettro sonoro che ho voluto dilatare, nelle sue varie componenti, con le sue diverse temperature: la 'parte fredda', quella in cui interviene l'elettronica di Stefano Facchielli, e la 'parte calda', le suggestioni etno-melodiche di Mauro Pagani con i suoi flauto mandolino bouzouki." Nuovi spazi, nuove ampiezze; e uno sforzo per dare misura all'insieme, per trovare il giusto equilibrio, cosa non facile in un complesso dove tutti hanno fame di musica e vogliono suggerire, proporre, esserci - il bello del rock di Ligabue è anche questa coralità.
Insomma, un gioco ma anche una scommessa; che si estende fino alla scelta delle canzoni, al repertorio che non sarà il juke box dei concerti soliti, con i brani più amati e ascoltati e richiesti. Questa volta il Liga ha deciso di fare lui, riservando i grandi successi per le serate nei palasport e scegliendo per il teatro invece le pagine minori, le canzoni sfortunate o dimenticate o rimaste "incastrate negli album", come dice lui, "quelle che nei riascolti con lo skip restano sempre fuori". Per anni, ai raduni con i fans, il Liga ha proposto un siparietto del genere, interpretando con voce e chitarra alcuni dei suoi pezzi più trascurati - quelli che non ce l'han mai fatta ad arrampicarsi fino alle radio, che non hanno mai sentito il fiato caldo degli stadi. Qui l'idea è la stessa: un'occasione per riprendere certi brani amati da Luciano come quelli di "Miss Mondo", forse il suo album più incompreso, o per dare nuova vita a vecchie creature come, per esempio, "Dove fermano i treni", a cui è stata smontata l'originaria corazza hard e trapiantato un micro-campionamento di "Trans Europe Express" dei Kraftwerk, e con questo organo nuovo sta che è un bijou.

Se c'è una cosa che mi piace di Ligabue è la sua cura attenta, puntigliosa, quasi materna, nei confronti di quello che scrive. Nessuna canzone di nessun album è mai un "filler", un puro riempitivo. Per ognuna ha un perché e una storia, e la convinzione profonda che sia pane che continua a fermentare, da poterci sempre tornar su per nuovi impasti. Mi piace questo atteggiamento, mi sembra il segno di un gusto dell'artigianato che, mille concerti e milioni di dischi dopo, non si è perduto - ed è una grande risorsa. Mi piace anche la sua voglia di mettersi in gioco, di muoversi sulla scacchiera senza fermarsi sulle caselle che (ormai si conoscono) piacciono di più. Non è un caso, credo, che questa serie di concerti in teatro venga dopo un album molto tipico come "Fuori come va?". Lì è stato onorato il Ligabue più classico, qui si cerca qualcos'altro, per non restare prigionieri del gioco, ma continuare a reinventarlo.
Augh, ho detto. Mi metto anch'io in platea e ascolto, anzi, guardo, perché un concerto così, dice Luciano, "è come quando si sfoglia un album di foto di famiglia: ci si intenerisce, ci si inorgoglisce, si sorride al ricordo" - ed è un piccolo rito che il Liga non si tiene per sé, ma a cui tutti siamo invitati.

Riccardo Bertoncelli


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