La
Signora Quinterno
Sotto le spoglie di una virtuosa signora della
buona borghesia
piemontese
si nascondeva una prolifica scrittrice di romanzi
"gotici" (noir) di odio e amore, terrificanti e sadici, scritti in una prosa
di facile lettura per un pubblico allora “semianalfabeta”. Famosissima anche
all'estero, i suoi
torridi
titoli e romanzi le valsero la messa all'Indice dal Vaticano. Era poi definita
con scherno "la casalinga di Voghera", "l'onesta gallina della
letteratura popolare", e "Carolina di servizio"
per la sua
popolarità fra le domestiche. Carolina Invernizio ai giorni nostri, come
sceneggiatrice di telenovelas e fiction televisive (soap operas), non l'avrebbe
battuta nessuno. Il target di riferimento se non è molto
cambiato, si è sicuramente allargato alle più diverse categorie sociali.
L’Invernizio dichiara di nascere a Voghera nel
1858.
Quando il padre fu promosso Direttore delle Gabelle (l'allora Ufficio delle
entrate o Monopoli di Stato), la famiglia si trasferì a
Firenze, nuova capitale d’Italia dal 1865. Studentessa delle Normali, venne
espulsa per aver pubblicato a 15 anni un racconto di perdizione e castigo
dal titolo "Amore e morte". A 18
anni (sempre dichiarati) pubblicò presso l'editore Salani di Firenze il suo primo romanzo (Rina o l'Angelo delle Alpi 1877); ne
seguirono almeno altri 120, per
lo più apparsi in appendice di quotidiani come L'Opinione Nazionale
di Firenze, la Gazzetta di Torino e poi pubblicati da Salani in volume
con vistose copertine. Nel 1881 sposò un tenente dei
bersaglieri (Marcello Quinterno) e dopo il ritorno del marito dalla guerra
d'Africa, nel 1896, si
trasferirono a Torino, dove al consorte era stata assegnata la direzione del Regio
Panificio Militare. Fu signora perbene, madre tenerissima e moglie esemplare; devotissima alla Madonna (ogni sabato si recava
con la figlia Marcella al santuario della Consolata) ma anche amante dei
gioielli, dei
cappelli piumati e degli abiti a strascico. Amava i salotti delle conversazioni eleganti
(ma in quelli letterari non la volevano, e del
teatro e nessuno riuscì a scalzarla per oltre un quarantennio dal trono del nostrano
"feuilleton" o romanzo d’appendice. Carolina Invernizio fu
l'equivalente delle ambigue scrittrici vittoriane, anche loro "anime
perverse" sotto montagne di piume, trine e merletti. Con le sue vicende
“noir”, la scrittrice mette in moto con grande abilità il suo meccanismo
fatto di inconfessabili peccati, perfidi tradimenti, vili stratagemmi, laceranti
segreti, terribili vendette, nefandi delitti e luminose redenzioni, in un
accumulo di effetti Kitsch spesso involontariamente comici, ma paradossalmente
geniali.
Nel 1914 la famiglia si trasferì a Cuneo, dove la scrittrice teneva
nella centrale via Barbaroux un salotto molto frequentato dalle amiche; e qui morì di
polmonite due anni dopo all'età di 65 anni. Sulla tomba, al cimitero di Torino, sopra la statua in
bronzo ad opera dello scultore Edoardo Robino, l'editore fece mettere una corona
di bronzo con la scritta (assurdamente esagerata, ma anche profetica) "Il
tuo nome non morirà". Ancor oggi, mani anonime mettono su quella tomba fiori
freschi a duratura memoria.
Passi
da un articolo del 1973 (Giuseppe Rigotti) su Historia-
Carolina Maria Margherita Invernizio nacque
il 28 marzo 1859 (secondo il Dizionario degli Autori Bompiani, invece, nel 1858)
a Voghera, figlia del Cav. Ferdinando Tattoni, impiegato governativo. E qui vien
fatto di chiedere se il nome Invernizio risponde a quello della madre o se fu
adottato in seguito come pseudonimo. La cosa non è mai stata chiarita, ma penso
che si possa optare per la seconda versione. Sulla copertina di un romanzo, il
nome di Carolina Tattoni avrebbe potuto non attirare i possibili acquirenti.
Provato è che Carolina era figlia, e non unica, del citato, rispettabile signore
vogherese il quale, quasi subito dopo la nascita di questa figliola, fu promosso
«Direttore delle Gabelle » e trasferito a Firenze. Grande fortuna questo
trasferimento per la piccola Carolina, che diventava fiorentina d' elezione, in
grado così di sciacquare i panni in Arno fin da bambina. Carolina, a prestar
fede alla cronaca familiare, fu una ragazzina molto vivace, una specie di Gian
Burrasca in gonnella, e tanto birichina da essere richiamata più volte a scuola
perché poco osservante della disciplina; studentessa delle normali, venne
sospesa per aver pubblicato a meno di 15 anni su un giornaletto fiorentino una
novella il cui tema era “Amore e Morte". Ed è da questo momento che Carolina
Invernizio incominciò a far parlare di sè. Era nata per raccontare: nè i suoi di
casa, nè i suoi severi insegnanti potevano mettere un freno alla sua sincera
vocazione. Scriveva perchè aveva bisogno di scrivere e scriveva quello che aveva
in animo di scrivere. Le sue letture? La cara ragazza non aveva nemmeno il tempo
di leggere. Un bel mattino di un giorno non ben precisato dell'anno 1877, al
signor Adriano Salani, proprietario della Casa Editrice omonima, allora sita in
Viale Militare, venne annunciata la visita di una signora che aveva espresso il
desiderio d'essere ricevuta personalmente da lui. Ed eccola la visitatrice, una
giovinetta graziosa e mingherlina, dai grandi occhi che parevano mangiarle il
viso, tutta chiusa in un' elegante mantellina di pelliccia su un abito a due
pezzi «fin de siècle », con sciarpa di velluto al collo fermata da una spilla di
non dubbio valore, e in capo un cappellino di pelo dall'ala rialzata sui capelli
biondi, soffici, ondulati. Il signor Salani rimase con la bocca aperta per lo
stupore: aveva creduto che la visitatrice fosse qualche anziana signora che
voleva affidargli la pubblicazione delle sue memorie. La giovinetta che aveva
davanti non doveva avere più di 17 anni. Aspirante scrittrice? No, già
scrittrice. A essere brevi, il signor Salani, che leggeva personalmente tutti i
manoscritti che gli venivano proposti - allora non era di moda il “lettore" o
consigliere letterario (si smentisce qui che Salani fosse analfabeta, ma non che
lo fosse stato)- accettò di leggere quello che la giovane maestrina (ma aveva
veramente ottenuto il diploma Carolina?) gli recò di lì a qualche giorno. Il
signor Salani, pur non rifiutando di leggere il parto letterario della
giovinetta, aveva sorriso sotto i baffi,·dubbioso di un risultato positivo.
Possibile, una simile ragazzina era in grado di scrivere una storia
interessante? Ebbene, il grosso fascicolo manoscritto conteneva un romanzo che
il signor Salani giudicò ottimo: "Rina o l'angelo delle Alpi". Doveva essere il
best-seller del 1877; l'autrice aveva compiuto da poco i diciott'anni!-. Dopo
questo primo romanzo, prima che Carolina lasciasse Firenze per Torino, l'
editore Salani doveva pubblicarne altri quarantacinque. Quali le condizioni
contrattuali fra l'autrice e l'editore? Anche questo rimase sempre un mistero.
Si diceva che Carolina Invernizio scrivesse solo per la gloria di venir
pubblicata, ma non può essere vero, qualcosa doveva pur percepire. Oggi sembra
accertato che Salani le versasse mille lire per ogni libro, più un gioiello di
pregio che le inviava ogni anno in dono a Natale. (Quello dei gioielli era
l'unico « lusso » di Carolina). Lo scrittore non retribuito quasi
inevitabilmente si scoraggia, invece Carolina Invernizio era più impegnata che
mai. Romanzi tenebrosi, a base d'intrighi complicati e che finivano sempre
tragicamente. Bastava soltanto dare un 'occhiata ai titoli per giudicare di che
si trattasse: "Satanella ", "Il morto di Via San Sebastiano", « La mano della
morta", "La morta viva", « L'atroce visione », « Paradiso e inferno » ecc. Come
mai da quel cervello di donna per bene potevano scaturire tante truci idee di
violenza, di perfidia, di delitto? Soltanto Freud avrebbe potuto darei la chiave
dell'enigma....Malgrado la Chiesa avesse messo all'Indice l'Invernizio, Adriano
Salani continuava a pubblicare libri vecchi e nuovi dell'ormai celebre autrice.
A Genova, sui parapetti del corso che portava al porto d'imbarco, i librai
ambulanti esponevano i romanzi di Carolina Invernizio dalle allettanti copertine
illustrate. Ebbene, i poveri emigranti non esitavano a spendere gli ultimi
spiccioli per comprare uno di quei libri, che li avrebbe aiutati a ingannare la
noia della lunga traversata. E poi quel libro era un ultimo ricordo d'Italia che
portavano seco. L'Argentina fu una miniera d'oro per' l'Editore Salani: casse e
casse di libri della Invernizio venivano spediti da Genova e da Napoli dirette
ai librai di Buenos Aires, che li diffondevano in tutte le regioni della
repubblica fin nei territori più remoti. Le donne dei nostri emigrati non
leggevano libri in lingua spagnola e ricercavano i libri dell'Invernizio,
facili, scorrevoli, fantastici e che le aiutavano a sognare e a sopportare la
nostalgia. Così,
Carolina Invernizio, la scrittrice più popolare, teneva alta la fiaccola
dell'italianità nel Nuovo Mondo. Nessuno può contestare quello che è stato.
Ormai Carolina Invernizio era penetrata anche nelle caserme, portava un po'· di
svago ai soldati; a quelli che sapevano leggere, perchè, purtroppo, gli
analfabeti erano in numero assai maggiore. Gli ufficiali non sempre tolleravano
quelle letture. I sottufficiali sequestravano i libri quando riuscivano a
scoprirli. Letture deleterie, sostenevano gli ufficiali superiori. Ma anche
l'ufficiale di picchetto si addormentava sovente con un libro dell'Invernizio
tra le mani. Inutile parlare del livello culturale d'un certo ambiente e d'un
certo periodo e non vale fare delle discriminazioni, La povera Carolina tanto
ricercata tuttavia veniva beffata storpiandone il nome: Carolina
Di Servizio! E'
doveroso ricordare, però, che Antonio Gramsci, in «Letteratura e Vita Nazionale
». cita Carolina Invernizio come scrittrice popolare, sia pure con molte
riserve. Aggiungiamo che in fondo l'Invernizio è scrittrice morale. Non loda mai
il vizio, ma lo condanna, non disprezza i poveri, ma li ama, e se fra il
popolino vi sono dei malvagi, i malvagi si trovano anche, e forse di più, tra i
ricchi; in generale chi fa il bene è sempre ricompensato e chi fa il male quasi
sempre punito. Per quanto i suoi detrattori si siano fatti in quattro per
negarla, traspare anche, nei suoi libri, sebbene non molto in superficie, una
certa realtà sociale dell' 'epoca urnbertina. Ad esempio, tanto per citare a
caso, nel più criticato dei suoi libri “Il dramma degli emigrati”, buttato giù
alla brava, si possono intravedere una traccia di realtà sociale, la miseria, la
promiscuità in cui vivono tanti derelitti. Dopo tutto Carolina Invernizio era
una scrittrice che s'innestava nel filone romantico, anzi ultraromantìco, e non
si poteva chiederle quello che non possedeva. Da non dimenticare che Giovanni
Papini, in « Stroncature », si fa paladino di Carolina Invernizio e se si burla
in modo elegante e malizioso del contenuto dei suoi romanzi, ne elogia senza
riserve la purezza della lingua, proclamandola la miglior scrittrice d'Italia
(sic).
I libri dell'Invernizio ebbero vita gagliarda fino all'avvento del
fascismo, poi gradatamente scomparvero dalle bancarelle e dalle cartolerie
periferiche e di provincia che li esponevano in vetrina. Divennero introvabili
e, in seguito, ricercatissimi. Ma già nel '49 Carolina Invernizio era stata
riscoperta da alcuni produttori cinematografici che avevano per intento di
divertire un certo pubblico e di far cassetta. Il primo di questi riscopritori è
Campogalliani, che porta sullo schermo « La mano della morta» con protagoniste
Mary Martin e Brunella Bovo. A sua volta Brignone gira « Il bacio d'una morta »,
Seguono poi i film inverniziani « La vendetta d'una pazza », «L'orfana del
ghetto ». « La trovatella di Milano »: Carolina Invernizio non è dunque una
dimenticata. Tuttavia, poi, per un lungo decennio ricadde sul suo nome il
silenzio. Ma ecco la sorpresa: come strenna natalizia 1971, le « Edizioni
Accademia» risuscitano Carolina lnvernizio. Sono cinque romanzi (scelti fra i
più truci). Al successo del cofanetto delle « Edizioni Accademia» si accoda
quello dell'artigiano tipografo Lucchi, che avendo acquistato dal Quartara di
Torino i diritti di pubblicazione di nove romanzi dell'lnvernizio, li ha
sfornati tutti in una volta, vendendoli al pubblico sotto i portici di Piazza
Diaz a Milano a prezzi veramente popolari. Ma anche l'edizione è strapopolare.
Carolina Invernizio fra i suoi innumerevoli
romanzi ha scritto “La Fidanzata del Bersagliere”
alla vigilia della morte ed a guerra in corso. I fatti narrati dell’amore fra una ragazza
Aurora, orfana di madre e poi di padre, e Giuliano, contadinotto piccolo
proprietario toscano, si svolgono allo scoppio della grande guerra e si
concludono nel 1916. Aurora, pur di raggiungere il fidanzato Giuliano,
bersagliere, non esita a travestirsi essa stessa da Bersagliere e a vivere della
vita di trincea, da ardito e poi da prigioniero/a. Come tutte le storie i nostri
eroi torneranno alla vita normale, lui mutilato ma felice e lei di nuovo nel suo
ruolo di madre e sposa per non inquietare il moralismo dell’epoca attaccato più
volte dalla Invernizio. Sotto la finzione letteraria si può comunque, ritrovare una
scrittrice, in linea con le suffragette, che reclama ruoli anche maschili, che
lei stessa non ebbe modo di vedere per la morte prematura. In prima linea oltre
alle Infermiere Crocerossine, ci saranno sempre più spesso donne di montagna
che faranno la spola fra le valli e le trincee per portare acqua, viveri e
munizioni. Nel caos e nel diluvio delle azioni, non era infrequente che esse
stesse finissero in trincea in prima fila.
Del clima guerresco ne è
testimonianza questo brano rintracciato in rete
da Storia Popolare della
Grande Guerra Roberto Mandel -MI -1919 Appendice: Scorci e
Riverberi. Testimonianze: le insegnanti e la guerra pag.
939-940.
LA MAESTRINA .... SOLDATO
In uno dei treni militari partiti dall' Italia Centrale e diretti al confine,
viaggiava insieme coi soldati un fante più bello degli altri e in completa
tenuta di guerra: zaino, fucile, coperta e cartucciera. Aveva statura e
lineamenti maschili, ma occhi troppo dolci, labbra troppo accese e mani
delicate. La voce, che si faceva sentire di rado, pareva eccessivamente
armoniosa. Del resto, apparve a tutti un buon camerata, aperto e disinvolto.
Dopo
qualche ora di viaggio, alcuni soldati credettero di riconoscere nel camerata
una donna. La voce si sparse fulminea nei vari scompartimenti, ed è facile
immaginare con quanta giocondità la donna-soldato fu subito circondata,
interrogata, scrutata. Alla stazione di Bologna lo strano soldato fu invitato a
scendere dal treno. Con armi e bagaglio seguì due graduati in Questura, dove
finì per confessare di essere la signorina Luigia Ciappi, ventenne, maestra
elementare a Rosarno, in Calabria, e dimorante a Firenze. La signorina che aveva
sacrificato ai suoi nobili istinti patriottici anche la bionda e bella
capigliatura, dichiarò con sincero dolore il suo malcontento per essere stata
riconosciuta, e che ella avrebbe tanto desiderato di poter combattere.
Naturalmente non le fu concesso di proseguire il viaggio. Sempre in divisa
militare, venne accompagnata al comando della Divisione e poscia rimandata a
Firenze. Per mettere in esecuzione il suo audace piano, la signorina Ciappi,
indossata segretamente la divisa grigio-verde, era entrata di sera in una
caserma di Firenze, confondendosi coi richiamati, e passando una notte e un
giorno in mezzo a loro. Dormì sulla paglia, mangiò il rancio, e quando venne il
momento della partenza nessuno si accorse che quel grazioso soldato, pur
presente, non aveva risposto all'appello di chiamata. Si controllava che non ne
mancassero di soldati e non che ce ne fossero in più.
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