PICCOLE STORIE - DIARI MINIMI
20 SETTEMBRE 1870
Oltre Porta Pia
Edmondo De Amicis |
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Edmondo De Amicis nacque a Oneglia
(Imperia) nel 1846. Dopo aver frequentato scuole a Cuneo e liceo a Torino, si
iscrisse all’Accademia militare di Modena, convinto che la carriera militare
sarebbe stato il suo futuro, in questa Italia incompiuta. Combatté a Custoza nel
1866 col grado di luogotenente, ma la delusione degli eventi si disse fu anche
alla base del suo successivo abbandono. Iniziò a scrivere una raccolta di
bozzetti, dal titolo La vita militare (1868), il cui successo lo incoraggiò a
proseguire sulla strada della scrittura letteraria e del giornalismo, come
inviato de «La Nazione» di Firenze. Assunse poi la direzione della rivista
L'Italia Militare e vi pubblicò altri suoi scritti. Proprio in veste di inviato
della Nazione assistette alla presa di Roma nel 1870. Prolisso e convenzionale,
fu piuttosto nella prosa didascalica che riuscì a dare il meglio di sé, ponendo
la sua attenzione sulla borghesia e sul popolo ("Cuore", 1886) e permeando le
sue opere di continui spunti morali. Furono proprio questi ingredienti che ne
fecero un perfetto esempio di scrittore popolare e pedagogico, un ottimo latore
di quel bonario paternalismo tipico della fine del XIX secolo. Possiamo
ricordare: "Il romanzo di un maestro" (1890); "La carrozza di tutti" (1899);
"Novelle" (1875); "L'idioma gentile" (1905). Infine "Primo Maggio", romanzo
postumo pubblicato da Garzanti nel 1980, su incarico del Comune di Imperia. La
lunga e prolifica attività giornalistica, lo portò ad analizzare con occhio
attento e critico la realtà contemporanea avvicinandolo alle idee socialiste
(accettò dopo Adua di essere candidato). I suoi viaggi all’estero nelle comunità
italiane gli ispireranno in quegli anni di emigrazione il romanzo “Sull’oceano”.
Si ricordano anche i suoi reportage di viaggio dedicati alla Spagna (1873),
all’Olanda e Londra (1874), al Marocco (1876), a Costantinopoli (1878) e a
Parigi (1879). Fu il 17 ottobre 1886, primo giorno di scuola, che l'editore Treves fece uscire nelle librerie “Cuore”, che da subito ebbe grande successo.
Edmondo De Amicis fu anche eccellente oratore. Egli non diede alle stampe tutte
le sue conferenze e non tutti i suoi discorsi lasciò raccogliere. L'ultima volta
che De Amicis parlò in pubblico fu il 20 marzo 1898, per pronunziare l’orazione
funebre di Felice Cavallotti a Torino (Cavallotti radicale socialista era stato
ucciso in duello da Ferruccio Macola). Eletto deputato nel collegio di Torino
rinunziò però all'ufficio, e il Parlamento non udì mai la sua parola. Due giorni
prima dell'elezione gli era morta la madre amatissima, e pochi mesi dopo,
suicida, il figlio primogenito Furio a cui si era ispirato per “Cuore”. Edmondo
De Amicis morìrà a Bordighera nel 1908.
IL BERSAGLIERE
Un bersagliere insanguinato e stanco
ma baldo ancor, scendea da Monte Croce
e giunto in mezzo a noi, con fiera voce
gridò: Un dottor !…ci ho una palla al fianco.
Un dottor lo frugò: si fece bianco,
strinse i denti in superbo atto feroce,
e quando vide in terra il piombo atroce
-Grazie !- esclamò rasserenato e franco.
- Ed or – gli disse il medico – cammina:
l’ambulanza è la sotto. Ed egli – E’ pazzo?
Vado freddarne ancora una dozzina.
E presa l’arma, pallido ma forte,
a passi vacillanti il buon ragazzo
ridendo risalì verso la morte.
Edmondo De Amicis |
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http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_9/t241.pdf Cuore
di Edmondo De Amicis |
da Speranze e Glorie - Le tre Capitali, Torino -
Firenze – Roma di Edmondo De Amicis – F.lli TREVES
Editori 1911
Via via che ci avviciniamo (a piedi s'intende) vediamo tutte le terrazze delle
ville affollate di gente che guarda verso le mura. Presso la villa Casalini
incontriamo i sei battaglioni bersaglieri della riserva che stanno aspettando
l'ordine di avanzarci contro Porta Pia. Nessun corpo di fanteria aveva ancora
assalito. L'artiglieria stava ancora bersagliando le porte e le mura per aprire
le brecce. Non ricordo bene che ora fosse quando ci fu annunziato che una larga
breccia era stata aperta vicino a Porta Pia, e che i cannoni dei pontifici
appostati là erano stati smontati. Quando la Porta Pia fu affatto libera, e la
breccia vicina aperta sino a terra, due colonne di fanteria furono lanciate
all'assalto. Non vi posso dar particolari. Vidi passare il 40° (fanteria) a
passo di carica; vidi tutti i soldati, presso alla porta, gettarsi a terra in
ginocchio, per aspettare il momento d'entrare. Udii un fuoco di moschetteria
assai vivo; poi un lungo grido "Savoia!" poi uno strepito confuso; poi una voce
lontana che gridò: - Sono entrati! - Arrivarono allora a passi concitati i sei
battaglioni dei bersaglieri della riserva; sopraggiunsero altre batterie di
artiglieria; s'avanzarono altri reggimenti: vennero oltre, in mezzo alle
colonne, le lettighe pei feriti.
Corsi con gli altri verso la Porta. I soldati
erano tutti accalcati intorno alla barricata; non si sentiva più rumore di
colpi; le colonne a mano a mano entravano. Da una parte della strada si
prestavano i primi soccorsi a due ufficiali di fanteria feriti: uno dei quali,
seduto in terra, pallidissimo, si premeva una mano sul fianco: gli altri erano
stati portati via. Ci fu detto che era morto valorosamente sulla breccia il
maggiore dei bersaglieri Pagliari, comandante del 35.°. Vedemmo parecchi
ufficiali dei bersaglieri con le mani fasciate. Sapemmo che il generale Angolino
s'era slanciato innanzi ai primi con la sciabola nel pugno come un soldato.
Entrammo in città. Le prime strade erano già piene di soldati. È impossibile
esprimere la commozione che provammo in quel momento; vedevamo tutto in confuso,
come dietro una nebbia. Alcune case arse la mattina fumavano, parecchi zuavi
prigionieri passavano in mezzo alle file dei nostri, il popolo romano ci correva
incontro. Salutammo, passando, il colonnello dei bersaglieri Pinelli; il popolo
gli si serrò intorno gridando. A misura che procediamo nuove carrozze, con entro
ministri ed altri personaggi di Stato, sopraggiungono. Il popolo ingrossa.
Giungiamo in piazza di Termini: è piena di zuavi e di soldati indigeni che
aspettano l'ordine di ritirarsi. Giungiamo in piazza del Quirinale (allora
residenza del Papa). Arrivano di corsa i nostri reggimenti, i bersaglieri, la
cavalleria. Le case si coprono di bandiere. Il popolo si getta fra i soldati
gridando e plaudendo. Passano drappelli di cittadini con le armi tolte agli
zuavi. I sei battaglioni dei bersaglieri della riserva, preceduti dalla folla,
si dirigono rapidamente, al suono della fanfara, verso piazza Colonna. Il
Campidoglio è ancora occupato dagli squadriglieri e dagli zuavi. Una folla di
popolo accorsa per invaderlo è stata ricevuta a fucilate. Parecchi feriti furono
ricoverati nelle case; fra gli altri un giovanetto che marciò quindici giorni
coi soldati. Il
popolo è furente. Si corre allora a chiamare i bersaglieri. Due battaglioni
arrivano sulla piazza, ai piedi della scala. I pontifici, al primo vederli,
cessano di tirare; ma restano in atto di resistere. Una specie di barricata di
materasse è stata costrutta in alto. L'assalirla di viva forza potrebbe costar
molte vittime; s'indugia, forse gli zuavi s'arrenderanno, si dice che hanno
paura dell'ira popolare. Tutte le strade che circondano il Campidoglio sono
piene di gente armata che sventola bandiere tricolori e canta inni patriottici.
Intanto ai bersaglieri che attendono sulla piazza son portati in gran copia
vini, liquori, sigari, biscotti. La moltitudine va crescendo, cresce lo
strepito. I conventi vicini, dove si crede che siansi rifugiati gli zuavi e gli
squadriglieri, sono circondati dai bersaglieri e dalla fanteria….. Si ritorna in
fretta verso il Corso. Tutte le strade sono percorse da grandi turbe di popolo
che agitano armi e bandiere. I soldati pontifici che s'avventurano
imprudentemente a passare per la città a due, a tre, o soli, sono circondati,
disarmati e inseguiti. Giungiamo in piazza Colonna. In mezzo alla piazza vi sono
circa trecento zuavi disarmati, seduti sugli zaini, col capo basso, abbattuti e
tristi. Intorno stanno schierati tre battaglioni di bersaglieri. Il colonnello Pinelli e molti ufficiali guardano giù dalla loggia del palazzo che chiude il
lato destro della piazza. Popolani, signori, signore, donne del popolo, vecchi,
bambini, tutti fregiati di coccarde tricolori, si stringono intorno ai soldati,
li pigliano per le mani, li abbracciano, li festeggiano. Nel Corso non possono
più passare le carrozze. I caffé di piazza Colonna sono tutti stipati di gente;
ad ogni tavolino si vedono signore, cittadini e bersaglieri alla rinfusa. Una
parte dei bersaglieri accompagna via gli zuavi in mezzo ai fischi del popolo;
tutti gli altri sono lasciati in libertà. Allora il popolo si precipita in mezzo
alle loro file. Ogni cittadino ne vuole uno, se lo piglia a braccetto e lo
conduce con sè. Molti si lamentano che non ce n'è abbastanza, famiglie intere li
circondano, se li disputano, li tirano di qua e di là, affollandoli di preghiere
e d'istanze. I soldati prendono in collo i bambini vestiti da guardie nazionali.
Le signore domandano in regalo le penne.
L'ALTRA CAMPANA
DELL'INTEGRALISMO ROMANO
... Anche a Porta Pia gli Italiani
avanzarono sparando e, appena entrati, uccisero due Zuavi, che, come tutti gli
altri, erano appoggiati ai propri Remington. Un ufficiale dei bersaglieri fece
fuoco contro il tenente Van der Kerckhove, ferendolo al collo di striscio. Un
altro ufficiale, pistola in mano, aggredì il capitano de Coussin e gli strappò
le medaglie di Castefidardo e Mentana dal petto. I soldati, seguendo l’esempio
degli ufficiali, inveirono contro i prigionieri (…) Mentre la resistenza
cessava a Porta Pia, la bandiera bianca veniva issata su tutta la linea del
fronte. Essa fu rispettata da Ferrero e Angioletti, ma per un’altra mezz’ora,
dopo che la bandiera bianca era stata issata sulle mura di Trastevere, e tutti
cannoni nemici tacevano, Bixio continuò il bombardamento. Non c’era nulla di
nuovo in questa prassi dell’esercito italiano, giacché ad Ancona, nel 1860,
Cialdini e Fanti avevano continuato a sparare molte ore sulla bandiera bianca.
(…) Secondo le leggi di guerra, durante i negoziati della resa, entrambe le
parti erano obbligate a mantenere le posizioni raggiunte; le truppe italiane,
però, infischiandosene di ogni legge o regolamento, entrarono in città,
nonostante le rimostranze degli ufficiali degli Zuavi. Le compagnie egli Zuavi
al Pincio, a Porta Salaria, alla breccia e a Porta Pia, furono circondate, fatte
prigioniere disarmate. (…). Gli Italiani penetrarono in città da diverse
posizioni, ovunque accompagnati da una torma di teppisti, accorsa da tutte le
parti d’Italia per irridere e maltrattare i prigionieri, nonché approfittare dei
disordini che sicuramente sarebbero seguiti alla presa di Roma. Il comportamento
dei Romani nei confronti degli Zuavi prigionieri fu molto diverso da quello
degli invasori e dei loro seguaci. (…) Non si udì una sola parola di offesa o di
disprezzo, ma, al contrario, si udirono parole di simpatia e di incoraggiamento
(…). Per completare “l’unità d’Italia” restava solo la farsa dell’ennesimo
plebiscito. Con le truppe italiane erano entrati in città 4/5000
civili, tra uomini e donne, che, autoproclamandosi “esuli romani”, avevano
seguito la marcia degl’invasori. (…).“Roma”, scriveva La Nazione, giornale
liberale di Firenze, “è stata consegnata res nullius a tutti i promotori di
disordini e di agitazioni, a tutti gli approfittatori politici di professione, a
coloro che amano pescare nel torbido, ai bighelloni di cento città italiane”.
“Si potrebbe pensare”, aggiungeva il giornale, “che il governo voglia fare di
Roma il ricettacolo della feccia di tutta Italia”. A questa schiera di
indesiderati immigrati si unì il gruppetto di ultrà liberali che si trovava a
Roma, e la massa vilipese le truppe pontificie a Porta Pia, al Pincio, a Piazza
Colonna, assalì i preti e insultò i soldati, ferendone diversi, e addirittura
uccise tre squadriglieri. I Romani si tenevano lontano da questa marmaglia, e
non presero parte alcuna alle loro gesta.
(I caduti pontifici furono) in tutto 16 morti e 53 feriti. In questa somma non
sono compresi i soldati isolati che furono assassinati dalla teppa garibaldina
le sere del 20 e 21 settembre (…).“Modesti e coraggiosi” scriveva il 26
settembre la Soluzione, un giornale liberale di Napoli, “fecero brillare il
proprio dovere da eroi. La difesa di Roma fu coraggiosa e brillante. Erano
decisi a morire fino all’ultimo uomo in difesa delle mura, se il Santo Padre non
avesse ordinato loro di arrendersi”; e aggiungeva che, da questo, “la gente
giudicherà la barbarie, l’infamia e la viltà di coloro che li inseguirono dopo
l’ingresso delle nostre truppe, dando loro la caccia come a dei lupi”.
(Patrick Keyes O’Clery, La Rivoluzione italiana. Come fu fatta l’unità della
nazione, ed. Ares, Milano 2000, pagg. 707-716).
http://www.cattolicesimo.eu/forum/viewtopic.php?t=744
Situazione ufficiale dell’esercito pontificio in data 18 settembre 1870:
Gendarmi 1.863 Artiglieria 996 Genio 157 Cacciatori 1.174 Linea 1.691 Zuavi
3.040 Legione Romana o d’Antibo 1089 Treno 166
Carabinieri esteri 1.195 Dragoni 567 Sedentari (Veterani) 544 Infermieri 119
Squadriglieri 1.023 Totale 13.624.
Gli italiani superavano di circa
quattromila gli esteri. Quando il 21 Settembre 1870 il reggimento degli Zuavi si
trovò per l’ultima volta riunito a piazza San Pietro, nei suoi ranghi
militavano: 1.172 olandesi, 760 francesi, 563 belgi, 297 tra canadesi, inglesi e
irlandesi, 242 italiani, 86 prussiani, 37 spagnoli, 19 svizzeri, 15 austriaci,
13 bavaresi, 7 russi e polacchi, 5 provenienti dal Baden, 5 degli Stati Uniti, 4
portoghesi, 3 essinai, 3 sassoni, 3 wurtemburghesi, 2 brasiliani, 2 equadoregni,
1 peruviano, 1 greco, 1 monegasco, 1 cileno, 1 ottomano, 1
cinese.
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