Un'utopia realistica

La forza delle armi sta disarmando la ragione. Non si tratta di un caso sfortunato; la conseguenza è inevitabile. Le bombe demoliscono il diritto e la legalità. I rapporti tra gli stati e le persone presentano aspetti impensabili pochi mesi or sono. La strada che si sta imboccando è una china verso la barbarie. Il governo della superpotenza unica annuncia che colpirà dove, quando e come riterrà opportuno, senza darne spiegazione ne, forse, notizia: nemmeno gli alleati, dai quali pretende una sottomissione cieca e assoluta che per parte loro gli alleati, convinti o costretti, hanno offerto in ginocchio e a capo chino.

Non si pongono, ne si acettano domande; non si forniscono risposte. Non si pensa si uccide. Questo vuole la guerra. Che però smette di essere una guerra, se questo nome comporta il rispetto delle convenzioni sul trattamento dei prigionieri. Il terrorista è il "nemico" quando serve a invocare le clausole di un'alleanza. Diventa invece un oggetto indeterminato quando si vuole disporre di lui senza che nessuno sappia, veda, controlli. Le bombe sugli autobus o le uccisioni dei civili in una discoteca di Tel Aviv sono azioni terroristiche come gli aerei sul World Trade Center e sul Pentagono. Ma la differenza tra la legalità e il crimine scompare quando gli eserciti regolari di Paesi democratici annientano i villaggi afgani o radono al suolo le abitazioni dei vicini di casa di un "kamikaze".

 Questa guerra ha il presupposto di una sconfinata disparità di forze. Il che comporta la possibilità - ed esibisce il fatto accertato - di un'incontrastabile incontrollata ferocia. Nel cuore di una guerra c'è l'arbitrio assoluto. Violare risoluzioni dell'ONU, convenzioni internazionali e impegni sottoscritti, come si fa a Guantanamo o in Palestina, è l'esibito, irridente disprezzo di ogni regola, la proclamazione che il solo vero diritto è la forza, una forza che rifiuta di essere messa in discussione, di dar conto di ciò. Nell'azione di chi impiega i bombardieri, come nelle parole di servili narratori e di ammiratori  commentatori, prevalere equivale a dimostrare, averla vinta significa avere ragione. Nei corpi morti delle vittime sarebbero così iscritte le "buone ragioni" dei loro uccisori.

Ma la distruzione della ragione e del diritto, la violenza, l'inciviltà della guerra non sono un destino ineluttabile. Opporsi non significa avere nemici: è, al contrario, il solo modi di non averne. Esiste, oscurata e tacitata, un'umanità diversa, che non invoca la vendetta per ogni offesa, che alle domande sul dolore, sull'ingiustizia, sull'esistenza non cerca risposte nell'azione distruttiva o nella vendetta. Esiste un'umanità che accanto a tutte le vittime sepolte sotto le macerie scopre come un'unica sensata prospettiva la PACE. Se questa è un'utopia, in questa utopia risiede la sola realistica, ragionevole speranza di un futuro umano.

(GB - Emergency2002)

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