Il Gioco della Palla

Anche a Sassetta, come in molti altri paesi, fino all’inizio del XX secolo era praticato il Gioco della Palla, simile a quello che oggi viene chiamato Palla eh! o simili.

Emilio Agostini, nel racconto San Giovanni, ci da la descrizione di una partita, facendoci rivivere quei momenti e descrivendo egregiamente lo svolgimento e le regole di quelle partite.

 

 

Nel pomeriggio vi fu la disfida coi castagnetani. C’era per essa in tutto il paese una brama e una agitazione penosa, essendo quella che doveva decidere la vittoria e il vanto al paese per l’annata intera. Le disfide precedenti erano state nulla in confronto; si scommettevano ora un barile di vino vecchio di Montececi e quattro cinture di pelle bianche con fibbie di metallo pulito. Ma non era il valore della scommessa, era l’onore che teneva ansiosi.

Il tratto della via dove si giuocava alla palla, era stato sgombrato della terra smossa e spazzato; le donne avevano, dai calestri dell’argine che fiancheggiava la via, portate altrove le cataste delle fascine di frasca, e avevano pure spalancate le finestre per evitare che si rompessero vetri; quattro giovinotti avrebbero fermato con belle maniere i passanti all’entrata e all’uscita del giuoco; noi si sarebbero cercate e raccolte le palle gettate nella carciofaia dell’orto o nella nostra chiostra. Poco dopo le tre, rimasta in ombra la strada del giuoco, cominciarono ad avvicinarsi gli spettatori, collocandosi ognuno nei luoghi di miglior veduta. Le donne, le fanciulle dal cuore fiorente, si facevano alle finestre, fra i vasi dei garofani e quelli del basilico e della menta; qua e là apparivano visi bianchi e rosei e riccioli lunghi e sorrisi di labbra rosee simili al fior del geranio innaffiato nei vasi. I ragazzi, i cari compagni, si rampicavano sopra i capitelli sporgenti dai muri, e sui vicini gelsi; alcuni vennero con noi a sedersi sui muri più alti fra gl’impalancati della chiostra, di dove si vedeva intieramente il giuoco dalla lastra alla guadagnata e il luogo del rimando e il segno del fallo, tracciato col tacco delle scarpe e reso meglio visibile dall’acqua gettavi sopra. - Le palle che adoperarono quel giorno, foderate a spicchi e di pelle di cane, erano state cucite dal calzolaio Raffaello, fratello di Gianni del Biagi. Quando entrarono i giuocatori e si tolsero le giubbe e si tirarono su le maniche della camicia fino a mezzo il braccio, la gente si discostò facendo ala agli sbocchi della via.

La partita cominciò subito. A battere la palla toccò in sorte la prima volta ai quattro campioni paesani, dei quali era mandatore Celestino della Patetica. Scelse dalle mani di Grillo tre delle palle più dure provandole brevemente al balzo e si mosse tranquillo verso la lastra. Sembrava in vena e si doveva esser messo in cuore di vincere in qualunque modo, per quanto con gli amici avesse detto di non sentirsi in forza come gli sarebbe piaciuto. Ebbe per altro una buona giornata. Le palle gli balzavano bene ed essendo l’aria senza vento, quieta, andavano diritte dove le voleva mandare. Una dopo l’altra fece tre guadagnate, scavalcando i giuocatori sterzati sulla ripresa, e facendo battere le palle contro il muro della Fattoria di piazza, che chiudeva il giuoco.

I castagnetani si erano aggruppati uno da una parte uno da un’altra in cima alla ripresa, e avevano messo nel punto minacciato, Aquilino, il più forte di loro. Aquilino aveva dei gesti e dei movimenti scomposti, non belli, nel dare alla palla, ma quando la prendeva bene nel cavo della mano, sui polpastrelli, la bruciava, come dicevano, e se non la gettava in fondo al giuoco, sapeva drizzarla addosso al giuocatore di parte avversa, pronto subito a gridare il fallo, se il giuocatore si lasciava cogliere fuori dalla mano, e a indicare il punto preciso dove aveva colpito; tanto aveva l’occhio acuto nel seguire la palla!

Grillo, con quel suo fare pacato, senza favori per alcuno, andava da un punto a un altro a segnare, coi due pezzi di mattone quadri arrotati alle pietre, le caccie, - gridando, a voce alta e chiara,  qual’era la prima o la lunga, e quale la seconda o la corta, e che i signori del giuoco passassero.

Il primo giuoco fu vinto dai paesani per merito del mandatore, che venne salutato da un lungo battere di mani e dalle nostre grida. Le ragazze sporgevano il capo dalle finestre per vederlo passare, intanto che si mutavano di posto. Era un bel giovinotto, dal petto sollevato, grande, non alto troppo, ben fatto, dalle belle braccia robuste, dal capo cresputo; camminava sollecito ma non frettoloso, serio o con un sorriso negli occhi, frenato, senza atteggiamento di labbra. Se faceva un fallo nel giuoco, piegava il capo e veniva rosso in viso come un fanciullo per la vergogna.

Negli intervalli, fra i cambiamenti di posto, Grillo dispensava il vino al giuocatori, che bevevano poco per bagnarsi le labbra, e in fretta: lo dispensava con più larghezza agli spettatori vicini che ne avessero voglia e che ne accettassero. Anzi, avendo quel giorno tanto vino da versare, aveva dato a due giovinotti l’incarico di girare anche essi tra la folla coi fiaschi e i bicchieri.

Nei giuochi seguenti fu lotta molto contrastata. I castagnetani resi esperti dei luoghi diversi del giuoco, che prima non conoscevano, cominciarono a giuocare a maraviglia. Non giovava più la capacità di Celestino della Patetica; Aquilino, il Corbellaio suo compagno, riprendevano le palle meglio a spalla che a balzo, non le lasciavano nemmeno balzare; correvano sotto e le rimandavano con un impeto non giudicato.

Una palla di ripresa fu gettata da Aquilino sul pioppo del nostro orto, là in fondo al quadro, presso il tetto del Bertinelli e batté con tanta forza nel tralcio della vite che visi rampicava su, da gettare per terra come una grandine di chicchi d’uva, da passare al di là del folto della frasca e da riuscire di sul tetto fuori dal giuoco. Aquilino ebbe per ciò una grande battuta di mani! Perché neppure la gente parteggiava; amava i suoi, ambiva della loro vittoria, ma ammirava il merito in chi meritava, chiunque fosse.

Anche Claudio del Poggio, Marconcino e Gianni di Pietrarossa, si fecero onore. Per loro si rimise il contrasto nella partita, nella quale erano stati passati di tre giuochi innanzi. E ciò fece raccogliere il coraggio e la forza a Celestino della Patetica: ora non le alzava più, nel mandare le palle; le razzava rasente i muri, le mandava basse, di punta, non a malizia, con arte, con lealtà, ma di modo che balzavano poco sopra al segno del fallo e passavano poi fra i piedi dei giuocatori, basse, ed essi non arrivavano con la mano in tempo a trovarle. Avvantaggiatosi così di due giuochi, ricominciò a mandarle volate, ma con una forza che aumentava ogni volta. Una la gettò di là dai tetti del Biondi e del Martelli, in piazza; una di là da quelli della Rosa Santa nell’orto, presso la pergola della Canonica.

Erano all’ultimo giuoco oramai. Tutti i castagnetani, Aquilino stesso, che aveva la camicia fradicia di sudore, si erano rassegnati a perdere.  Già tra la folla voci sommesse e colloqui premurosi si animavano per i vincitori: la vittoria sarebbe stata quasi di sicuro dei nostri; non ci sarebbe stato altro che Celestino della Patetica avesse fatto, per qualche disgrazia, dei falli.

E già si era alla fine; rimanevano soltanto quindici punti da fare. I giuocatori tutti erano venuti più solleciti nel cambiarsi posto, nel mandare, nel dare alle palle, in ogni cosa, si asciugavano in fretta con la pezzuola la fronte, si stropicciavano i polsi. Avevano la lastra i paesani, ora e c’era da una parte il timore e dall’altra parte non c’era più, del resto, speranza. Celestino della Patetica, grondante dalla fatica, chiamò Grillo, si fece versare un po’ divino nel palmo della mano per renderla soda; bevve un bicchiere, si asciugò le labbra col dorso della mano, e fermatosi a pochi passi dalla lastra sul punto della rincorsa, stette un momento fisso con l’occhio, con la testa alta, col braccio sinistro e il dito indice teso, per accennare la battuta. Tutti gli occhi erano rivolti su lui; aspettavano.

E Celestino della Patetica fermo ancora un momento, dette un’occhiata allo spazio del giuoco fissandosi un poco su in alto, al di sopra della guadagnata. Poi, dopo il breve annunzio consueto di “eccola!” spiccò la corsa, balzò la palla in un attimo, rapido, fiero, la gettò, non la seguì con l’occhio. Nell’impeto, certo della vittoria fece una giravolta agile, sicuro e tornò piano verso la lastra. La palla era andata a battere sulla terrazza della Fattoria e a rimbalzare nel portone d’ingresso.

La partita era vinta. E la folla salutava i vincenti con le sue grida e col suo sereno clamore.

 

 

 

 

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