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QUANDO IL NATALE ERA BIANCO

Un vento pungente di tramontana spazzolava piazze e strade rimuovendo da terra le ultime foglie che avevano opposto una tenace resistenza ai venti autunnali e alla scopa di Ernesto. L’inverno era arrivato puntuale ma Ernesto, lo stradino comunale, non aveva completato il lavoro quella vigilia di Natale. La febbre lo aveva costretto a letto e, nel forzato riposo, poteva gustare il suo piatto caldo preferito, "la sòpa coe tripe e el butiro", così come andava cantarellando tutti i giorni, mentre saliva e scendeva il tratto di strada a lui assegnato, muovendo con maestrìa la fedele saggina. All'epoca, il Natale era la festa per antonomasia, la festa della famiglia, del calore del focolare. C’era in grandi e piccoli l’attesa di un evento straordinario; era la gioia di stare assieme a creare quella magica atmosfera, pur se già nel corso degli anni ’50 la gente cominciava a dedicarsi ai regali sulla spinta dell’immagine pubblicitaria che ci era stata riproposta di Babbo Natale. L'oratorio di S. Nicolò a Crocetta del Montello in una foto del 7 marzo 2004
In realtà già gli Antichi Romani, ormai cristianizzati, avevano iniziato questa consuetudine quando, per ricordare il “dies natalis” dell’Impero e di Gesù, cominciarono a scambiarsi cesti di frutta come augurio di prosperità per l’anno che incominciava. Anche il sommo Dante in un canto del Purgatorio che ben non ricordo, dopo essersi scagliato in un’invettiva contro la lupa, simbolo dell’avarizia, faceva parlare un’anima in pena per celebrare esempi famosi di magnanimità: e qui spuntava la storia di San Nicola che, intenerito dalle preghiere di un pover’uomo che non poteva fornire la giusta dote alle figlie, decise di risolvere la questione. Arrampicatosi sul tetto della casa, fece scivolare dal camino, dove erano appese le calze delle fanciulle, un sacco di monete d’oro. Il padre salvò l’onore e le figlie poterono trovare marito, evitando così la strada della prostituzione. La vicenda subì nel tempo qualche modifica e il nostro personaggio sarebbe diventato l’uomo benefico che calava dal camino il cibo alla gente bisognosa e i regali ai più piccoli. Insomma il vecchio divenne S. Nicolò ed il nome olandese del santo, Sinter Klass, importato in America dagli immigrati come Santa Claus divenne presto tradotto in italiano come Babbo Natale; con la sua barba bianca e vestito di rosso inteneriva i cuori, e la gente si scrollava dall’avarizia per un giorno, ricorrendo al negozio più vicino per comperare i regali...
I bambini di quel freddo inverno aspettavano l’arrivo di Babbo Natale, scorrazzando per le vie, imbacuccati in vecchi cappotti e passamontagna, ai piedi le galosce, quella specie di scarpe con la suola di legno. I loro giochi misti a schiamazzi erano una specie di danza per invocare la neve. Quando i primi fiocchi volteggiavano nell’aria era un’esplosione di felicità. Un breve istante di esitazione per rendersi conto che era vera neve e...via di nuovo. Solo allora ci si poteva accorgere del colore paonazzo dei volti. Alcuni, non riuscendo ad eludere la sorveglianza familiare, erano costretti ad osservare quello spettacolo dalle finestre di casa. Le loro facce melanconiche si notavano attraverso i vetri appannati delle abitazioni, dove qualche dito disegnava figure che svanivano presto nelle gocce del vapore.
L’arrivo della neve metteva fretta ai “grandi” e, mentre raggiungevano casa con le ultime provviste si salutavano scambiandosi vicendevolmente “...la tàca…la tàca…la vien dal Furlàn…se va avanti cussì, doman matina ghe né meso metro…” Nonostante i disagi, la neve era il giusto complemento del Natale e quando la notte si faceva più buia il riverbero del manto bianco e l’assoluta mancanza di rumori davano al paesaggio un profondo senso di tranquillità.
Le poche lampade dell’illuminazione pubblica lasciavano intravedere una lunga fila di alberi spogli i cui rami caricandosi di neve, creavano effetti meravigliosi, e poi i fili della luce venivano intrecciati di coltre bianca e il bagliore che li sfiorava dava origine al moderno concetto di “luminarie”. Quelle sarebbero arrivate dopo il boom degli anni sessanta, agli albori del consumismo.
Nel 1954 la neve era caduta particolarmente abbondante. Nella notte di Natale avevamo avuto la visita del Bambin Gesù. L’idea del più “laico” Babbo Natale stentava a prendere piede in una famiglia religiosa come la nostra, tutt’al più avremmo potuto accettare che Babbo Natale accompagnasse Gesù Bambino.
I doni erano comunque arrivati puntualmente, uno per ognuno di noi tre fratelli. Al più grande era toccato il gioco del meccano, al mezzano un libro di una grande fiaba “il Re del fiume d’oro”, al terzo più piccolo una giostrina metallica con la carica a molla. Quando i genitori tornarono da “Messa prima” ci trovarono già svegli, indaffarati con i regali e non curanti se ai vetri della finestra della stanza da letto c’erano i ghiaccioli. Fuori un manto bianco copriva case, strade e viottoli e la neve continuava a turbinare nell’aria, mossa da un vento che non voleva cessare. Anche noi fratelli, fatta eccezione per il più piccolo, che non aveva ancora l’uso di ragione, saremmo presto partiti per raggiungere la chiesa. Con quel tempaccio sarebbe stata una vera impresa recarsi alla Messa. Ben infagottati scendemmo in strada, ma non v’era traccia della carreggiata. Tutto era bianco. Cercavamo di mettere i piedi sulle orme di chi era passato prima ma anche queste erano quasi ricolme dalla neve che continuava a scendere ed il freddo era sempre più pungente. Con grande fatica raggiungemmo la chiesa. Entrati ci accorgemmo che c’erano più pastori nel presepe che gente in carne ed ossa, ma le funzioni cominciarono regolarmente. Me ne stavo rannicchiato, seduto su di una piccola panca cercando in tutti i modi di riscaldarmi ma non ce la facevo e cominciavo ad avvertire un gran dolore ai piedi. Non potevo più resistere anche se il mio sguardo era volto alla fredda capanna dove il Bambin Gesù, incurante della temperatura, seminudo ed a braccia aperte ascoltava le nostre balbettanti parole. Fu allora che Maria, la nostra sorvegliante, sempre severa e pronta a richiamarci alla minima distrazione, vedendomi piangere dal dolore, si avvicinò ed esclamò: “oh! poro fantulìn, quanto freddo no atu!” Subito mi slacciò le scarpe, me le tolse e rimosse pure i calzini. Prese fra le sue mani i miei piedi gelidi e, alitandovi sopra, cominciò a riscaldarmeli proprio come avrebbe fatto la Madonna del presepe duemila anni prima. Vinto il momentaneo imbarazzo dovuto al luogo sacro e alla strana operazione, sentii che il sangue riprendeva a circolare. Quando mi prese in braccio e fui avvolto dal suo calore, allora compresi il bene che la Maria “Gaìna” voleva a tutti noi. Sono passati cinquant’anni da allora: Ernesto se n’è andato la Maria”Gaina” anche, e tante persone non sono più tra noi, ma, ad ogni Natale sono preso dai ricordi di un’infanzia felice nonostante tutte le difficoltà.
E’ per questo che a Natale tutti si sentono più buoni? Succede anche a voi?
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Tiziano Biasi - Natale 2003