Geografia astronomica: l'esobiologia

 

La vita è (anche) altrove ?  Cliccare per ingrandire

Da sempre l'uomo si è chiesto se esiste la vita su altri mondi e con la sua fantasia ha cercato di immaginarne i possibili abitatori. Oggi i progressi della scienza permettono di formulare ipotesi più attendibili, anche se meno poetiche, su questo grande interrogativo.
Se vogliamo offrire un'analisi coerente delle possibilità di vita extraterrestri, è necessario anzitutto definire l'obiettivo della nostra ricerca: la vita.
La definizione più semplice che si possa dare è questa: la vita consiste nella capacità che ha un organismo di conservare la propria struttura e di compiere un'attività. Altre caratteristiche che si possono prendere in considerazione per fare una distinzione tra organismi viventi e oggetti inanimati sono la composizione chimica, il comportamento, la struttura e la disposizione degli elementi che la costituiscono. L'elemento chimico predominante negli organismi viventi è il carbonio, mentre negli oggetti inanimati è il silicio. Inoltre, gli organismi viventi mostrano di a vere un comportamento ben definito, che ha lo scopo di mantenere il loro funzionamento e di adattarsi alle condizioni ambientali modificando in modo autonomo il loro comportamento. Infine, gli organismi viventi hanno una struttura eterogenea, cioè sono composti da una o più cellule molto differenziate, e le cellule stesse sono costituite da diverse parti con funzioni specifiche; invece gli oggetti inanimati hanno una struttura omogenea, cioè sono costituiti, in tutta la loro massa, dagli stessi elementi, uniformemente distribuiti e regolarmente disposti, destinati tutti alla medesima funzione.


L'origine della vita.

 

Una volta chiarito che cosa si intende per organismo vivente, non possiamo porci subito la domanda se la vita esista su altri mondi: prima dobbiamo risolvere il problema dell'origine della vita stessa. L'ipotesi di base e quella dell'evoluzione chimica: in condizioni opportune gli atomi dei diversi elementi chimici che costituiscono gli organismi viventi devono essersi riuniti a dare le prime molecole complesse di aminoacidi e carboidrati le quali, a loro volta, devono essersi evolute verso polimeri ancora più complessi, simili alle proteine e agli acidi nucleici che costituiscono la vera e propria materia vivente.
Questa successione di eventi ha dato luogo alla comparsa della vita sulla Terra in un momento compreso tra 4,6 miliardi di anni fa, data di formazione del nostro pianeta, e 3,8 miliardi di anni fa, data di nascita della più antica roccia terrestre contenente tracce di vita. Per sapere cos'è accaduto in quest'intervallo di tempo si ricorse a degli esperimenti di laboratorio. In un pallone di vetro fu ricostruita l'atmosfera terrestre di due miliardi di anni fa, facendo arrivare una corrente gassosa di vapore acqueo, metano e ammoniaca mescolati nelle opportune proporzioni: in questo ambiente simulato furono inviati potenti fasci di raggi ultravioletti e vennero fatte scoccare forti scariche elettriche che svolgevano il ruolo di fulmini; tutto questo procedimento durò una settimana. Alla fine, sul fondo del recipiente si raccolsero alcune goccioline di composti chimici formatisi per reazione tra i materiali presenti. Quando fu fatta l'analisi chimica, si appurò che queste goccioline erano composte in prevalenza da aminoacidi. Questo esperimento confermava così l'ipotesi che la vita nasce ogni volta che si presentano le condizioni ambientali adatte.

 

Le condizioni per l'esistenza della vita.

 

A questo punto, per risolvere il problema dell'esistenza della vita su altri mondi, dobbiamo porci questa nuova domanda: perché su un altro pianeta diverso dalla Terra esista la vita, quali devono essere le condizioni ambientali?
Possiamo cominciare dicendo che la vita non esiste sulle stelle: le elevatissime temperature che si hanno sulla superficie degli astri (fino a 50'000°C) farebbero decomporre qualsiasi sostanza chimica dalla struttura complessa, come sono appunto gli aminoacidi. Possiamo anche dire che la vita non esiste neppure nello spazio interstellare: le bassissime temperature che esistono in questo ambiente (intorno ai 3°K) non permetterebbero lo svolgersi di nessuna reazione chimica, dal momento che queste, per avvenire, richiedono una certa energia. Perciò, fatte queste esclusioni, dobbiamo limitare il nostro campo di ricerca ai pianeti del Sistema Solare e ai pianeti di altri sistemi stellari. Cliccare per ingrandire
Nella nostra indagine dobbiamo tenere presenti alcuni elementi fondamentali. Innanzitutto, perché su un pianeta possano esistere forme viventi, occorre che la sua temperatura superficiale sia compresa fra 0°C e 100°C, infatti, solo all'interno di questo intervallo di temperatura l'acqua, sostanza fondamentale per tutti gli esseri viventi, rimane allo stato liquido. Perché la temperatura superficiale di un pianeta si mantenga entro questi limiti, occorre che il pianeta non sia né troppo lontano né troppo vicino alla stella che gli dà luce. Questa condizione è necessaria ma non sufficiente: occorre anche che l'orbita percorsa dal pianeta intorno alla sua stella non sia troppo allungata, in modo che non si allontani e non si avvicini troppo; in tal modo la quantità di calore che il pianeta riceverà non varierà entro limiti troppo ampi, e tutti i fenomeni vitali si svolgeranno con regolarità. Inoltre occorre che il pianeta possieda un'atmosfera "respirabile", ovvero composta di gas utilizzabili dagli organismi viventi e non dannosi per essi. Perché questa condizione sia rispettata occorre che il pianeta abbia una massa di determinate dimensioni: infatti, se la massa fosse troppo piccola, il pianeta non sarebbe in grado di trattenere un'atmosfera attorno a sé, e se la massa fosse troppo grande l'atmosfera conterrebbe gas non respirabili. L'unico pianeta del Sistema Solare che sia dotato di tutte queste caratteristiche è Marte per quanto siano state avanzate teorie fantasiose anche sulla Luna e su Giove.

 

 

Luna.

 

Notizia clamorosa: acqua sulla luna in buone quantità. Quasi a dimostrare che il prezioso liquido ha una diffusione non certo esclusiva della Terra, la notizia, tenuta segreta dagli scienziati della NASA e del Pentagono sino alla fine del 1996 è stata diffusa suscitando grande clamore negli ambienti della ricerca esobiologica.  Lunghe analisi hanno totalmente confermato la possibilità di fare del nostro satellite una base ideale per i futuri passi dello uomo alla conquista dello spazio. L'acqua lunare e'  probabilmente di origine esogena cioè esterna vale a dire che deriva probabilmente da una cometa e , non e', cioè, segno di una 'idrologia interna e di fenomeni endogeni che potrebbero   suggerire anche l'esistenza di forme viventi.  L'acqua e' concentrata   sotto forma di un lago ghiacciato sul fondo di un gigantesco cratere. La sonda spaziale Clementine, lanciata dalla NASA per conto del Pentagono nel gennaio del 1995 ha proposto delle immagini molto interessanti. Il messaggio e' stato captato dal gigantesco radiotelescopio di Arequipo (Portorico). La comunità scientifica ha accolto la notizia con emozione: "ossigeno ed idrogeno sono il combustibile primario dei razzi, con l'acqua sulla Luna potrebbe essere possibile fabbricare carburante  spaziale direttamente sul satellite" ha detto Rick   Lehner, uno dei portavoce del Pentagono. Secondo lo  specialista di viaggi interplanetari Pat Dasch, invece, la presenza di acqua costituisce la migliore premessa per impiantare una permanente colonia umana sul  satellite. Intanto possiamo dire che la "luna bagnata" potrebbe essere uno dei tanti corpi celesti "inseminati" dalle comete per quanto concerne l'acqua. Quest'ultima potrebbe essere presente in numerosi distretti sia del nostro sistema solare, della Via Lattea, e, più in generale, del cosmo. Come dire che l'ingrediente base della vita non è esclusivo della Terra. E intanto su meteoriti vengono trovati aminoacidi (sostanze base delle proteine) e sostanze di natura zuccherina (fine 2001-rivista "Nature")

 

 

Marte.

 

Fu proprio su Marte che vennero lanciate le prime due sonde destinate a eseguire per la prima volta una ricerca diretta di organismi viventi su un pianeta diverso dalla Terra. Si trattava allora dei due oggetti più sofisticati mai scesi su un altro pianeta: le sonde Viking 1 e Viking 2, partite da capo Canaveral rispettivamente il 20 Agosto e il 9 Settembre 1975. Entrambe erano costituite di due parti: la prima, "orbiter", destinata a entrare e rimanere in orbita attorno a Marte; la seconda, "lander", destinata invece ad atterrare ed eseguire riprese fotografiche e analisi del suolo. I lander erano macchine notevolmente sofisticate. Il loro scopo primario era quello di dare un quadro delle condizioni vigenti alla superficie del pianeta e di analizzarne il suolo. Le due sonde Viking erano dotate di un braccio semovente capace di penetrare nel suolo, raccogliere un campione e immetterlo in un piccolo laboratorio in grado di eseguire tre tipi diversi di analisi chimico-biologiche.
Se uno degli esperimenti, infatti, ha dato risultati completamente negativi a proposito della presenza o meno di qualche forma di vita nel suolo marziano, gli altri due hanno invece fornito indicazioni ambigue che possono dare luogo a interpretazioni molto diverse.
Il più interessante è il cosiddetto "labeled release experiment". Il suolo doveva essere mescolato con una certa quantità di sostanze nutrienti (zuccheri) contenenti del carbonio radioattivo. Se nel suolo c'erano degli organismi viventi in qualche modo simili a quelli terrestri, essi si sarebbero nutriti di questi zuccheri e avrebbero poi emesso, come prodotto finale del loro metabolismo, dell'anidride carbonica contenente, appunto, il carbonio radioattivo. Uno strumento adatto a misurare la radioattività controllava i livelli di radioattività prima, durante e dopo l'esperimento. I risultati hanno fatto sobbalzare sulla sedia i tecnici della NASA: dopo qualche ora il livello di radioattività ha cominciato a salire dalla base ambiente di 400 fino a raggiungere il valore altissimo di 10'000. La controprova che si trattava di organismi viventi e non di qualche strana reazione chimica doveva venire dalla sterilizzazione. Il campione fu sterilizzato. Non essendoci più alcun organismo vivente la reazione doveva scomparire: e infatti scomparve. Ancora però, rimaneva il dubbio che si trattasse di una strana reazione chimica, e non biologica, che veniva inibita dalle procedure di sterilizzazione. Allora il campione fu sterilizzato a una temperatura di 120°C invece che 300°C, come in precedenza. L'idea era che quale che fosse la reazione chimica che aveva prodotto il risultato si sarebbe manifestata comunque. Se invece si fosse trattato di organismi viventi la reazione sarebbe scomparsa o si sarebbe notevolmente rallentata. E qui i risultati divennero ancora più misteriosi. La reazione rallentò nettamente, rendendo improbabile l'ipotesi chimica, ma cominciò a comportarsi in modo stranissimo: il carbonio radioattivo veniva emesso e riassorbito dal suolo con un ciclo giornaliero, un po' come accade alle piante che assorbono carbonio durante il giorno e lo emettono durante la notte. Di fronte a questi ultimi risultati, che potevano far pensare alla presenza nel suolo di qualche microrganismo, l'attenzione si spostò sulle analisi chimiche del suolo: se ci fossero stati dei microrganismi, qualche molecola organica, di quelle che noi sappiamo costituire la struttura base dei nostri microrganismi, doveva pur esserci. E invece no. L'esperimento diede risultati assolutamente negativi. E così, ancora oggi dopo altri numerosissimi esperimenti e ricerche, non sappiamo con certezza se qualcosa vive su Marte oppure no.

 

 

Giove.

 

Su un pianeta gigante come Giove con atmosfera ricca di idrogeno, elio, metano, acqua e ammoniaca, non esistono superfici solide accessibili; nell'atmosfera densa e nebulosa le molecole organiche possono cadere dal cielo come manna, o come i prodotti degli esperimenti di laboratorio. C'è però un impedimento alla vita caratteristico su un tale pianeta: l'atmosfera è turbolenta e nei suoi abissi più profondi è molto calda. Un organismo che si lasciasse andar giù finirebbe fritto. Per dimostrare che la vita non è impossibile anche su un pianeta tanto diverso dal nostro, Carl Sagan, astronomo americano, ha fatto alcune considerazioni con E.E.Salpeter, suo collega alla Cornell University. Entrambi non pensavano di scoprire come potesse essere la vita su Giove ma volevano vedere se un mondo di tal sorta, compatibilmente con le leggi della fisica e della chimica, tollerasse l'ipotesi di risultare abitato da forme di vita.
Un modo di vivere in un ambiente come quello di Giove affermano, potrebbe essere continuare a far figli prima di essere distrutti, sperando che i moti convettivi portino qualcuno dei vostri rampolli fino a strati più alti e freddi dell'atmosfera. Organismi adatti dovrebbero essere molto piccoli: potremmo chiamarli sinker. Ma potreste anche essere un floater, un grande pallone che pompa fuori da sé l'elio e i gas più pesanti, conservando solo il gas più leggero: l'idrogeno; o un pallone che si tiene a mezz'aria scaldando il suo interno con l'energia fornita dal cibo ingerito. Come un pallone aerostatico terrestre, più in basso va un floater e più forte è la spinta al galleggiamento che lo fa tornare nelle regioni superiori fredde e sicure dell'atmosfera. Un floater potrebbe nutrirsi di molecole organiche preformate, o costruirne da sé partendo dalla luce solare e dall'aria, come fanno le piante terrestri. Entro certi limiti, maggiori dimensioni garantiscono una migliore efficienza. Salpeter e Sagan hanno pensato a floater del diametro di chilometri, molto più grossi della più grossa balena, creature grandi come città. I floater potrebbero muoversi nell'atmosfera planetaria con getti di gas, come uno statoreattore o un razzo. I due astronomi li immaginano raccolti in grandi, pigri branchi estesi a perdita d'occhio. Hanno una pelle ricoperta da disegni mimetici, dal che si capisce che hanno anch'essi i loro problemi. Infatti c'è un pericolo ecologico in tale ambiente: la caccia. I cacciatori si muovono con agilità e destrezza, e prendono i floater per le loro molecole organiche e la loro riserva di idrogeno puro. Sinker cavi possono essersi evoluti nei primi floater e floater autopropulsi nei primi cacciatori. Questi ultimi però non devono essere in numero eccessivo per mantenere l'equilibrio ecologico di quest'ipotetico ciclo di vita extra terrestre.

 

 

Europa.


Uno dei satelliti di Giove, Europa, con un diametro di 3138 km, di poco inferiore a quello lunare, è l'oggetto più levigato del sistema solare: non presenta alcuna attività vulcanica passata o presente e, cosa abnorme nel sistema gioviano, ha pochissimi crateri da impatto. Questo fa pensare a un satellite molto più giovane degli altri. Le foto dettagliate scattate dalla sonda Galileo nel febbraio 1997 a soli 600 km da Europa hanno improvvisamente fatto del piccolo satellite il sito, dopo Marte, più interessante per la bioastronomia. Infatti l'analisi geologica delle eccezionali fotografie ha permesso agli scienziati della NASA di dedurre che Europa è, come la Terra, un pianeta ricco di acqua allo stato liquido, ma che quest' acqua si trova sotto la superficie di ghiaccio. E' una situazione simile a quella dell'Artide e dell'Antartide, dove le calotte di ghiaccio galleggiano sull'acqua liquida. Chiaramente la presenza di acqua liquida, ingrediente necessario per la formazione di amminoacidi e quindi della catena chimica che porta alla formazione del DNA e delle cellule viventi, ha fatto immediatamente esultare gli esobiologi americani che credono fermamente che nell'ambiente "europeo" possa essersi sviluppata la vita. Anche perché Europa riceve energia non solo dal Sole, che dista 750 milioni di km, ma anche da Giove, pianeta con una forte sorgente di radiazioni. Anche in questo caso un altro scienziato russo in cerca di pubblicità, il cosmofisico Boris Rodionov, ha recentemente riempito le cronache con la sua teoria circa le strutture osservate su Europa: si tratterebbe secondo lui non di fenomeni geologici dovuti alla presenza di acqua allo stato solido e liquido, bensì di oleodotti, autostrade, città di una civiltà extraterrestre talmente evoluta da poter sopravvivere nel sottosuolo di Europa, non avendo il satellite un'atmosfera respirabile, né un campo magnetico che lo protegga dalle radiazioni solari e gioviane. L'enorme interesse destato da Europa ha messo in moto proposte per l'esplorazione a breve termine del satellite e l'esobiologo Julian Chela-Flores del Centro internazionale di fisica teorica di Trieste ha proposto di inviare su Europa un minisommergibile capace di esplorarne le acque sotto il manto di ghiaccio.

 

 

Titano.

 

Intanto è in viaggio verso Saturno e il suo satellite Titano la sonda Cassini, lanciata nell'ottobre scorso. La sonda ha come scopo principale l'esplorazione di Titano tramite una minisonda europea (Huygens) che verrà paracadutata nella sua atmosfera nel 2004 per studiarne la composizione atmosferica ed eseguire una mappatura della superficie con grande dettaglio [v. Newton n. 2, novembre '97]. Con un diametro di 5150 km, Titano è di poco più piccolo della Terra, ma la sua temperatura apparente è di circa -178°C, a causa della grande distanza dal Sole (1,22 miliardi di km). Ciò lo renderebbe un candidato poco probabile per lo sviluppo della vita. L'analisi spettroscopica eseguita dalla sonda Voyager ha invece rivelato che Titano è l'unico oggetto del sistema solare con un'atmosfera ricca di azoto molecolare come la Terra. Inoltre vi è una forte presenza di metano che può essere convertito in etano, acetilene, etilene e acido cianidrico, panorama chimico che ricorda quello dell'atmosfera terrestre di miliardi di anni fa. Un forte effetto serra, cioè l'intrappolamento della radiazione infrarossa solare, potrebbe far notevolmente salire la temperatura sulla superficie e consentire uno sviluppo prebiotico simile a quello terrestre. Cliccare per ingrandire

I prossimi vent'anni, con le innumerevoli spedizioni automatiche su Marte, Titano, Europa e sulla cometa Wirtanen (missione Rosetta) potranno certamente far luce sui quesiti affascinanti e inquietanti, connessi all'origine della vita nel sistema solare. Il pianeta c'è ma non si vede. Fino al 1995 sapevamo che il nostro sistema solare era composto da nove pianeti con i loro satelliti, eravamo certi che di sistemi simili al nostro ne esistessero milioni se non miliardi nella sola nostra Galassia, ma, a causa delle grandi distanze che ci separano dalle stelle più vicine, i nostri telescopi non erano in grado di "risolvere", cioè di separare visualmente, un eventuale pianeta che ruotasse intorno a un'altra stella. E' stato grazie a una raffinata tecnica spettroscopica, sviluppata dall'astronomo svizzero Michel Mayor, che poi si è scoperta la presenza di dieci nuovi pianeti ruotanti intorno a stelle di tipo solare. Queste scoperte avvengono in maniera indiretta, cioè osservando le perturbazioni che eventuali pianeti provocano sulle stelle centrali. La tecnica si chiama "misura delle variazioni della velocità radiale per effetto Doppler" e necessita, oltre che di grandi telescopi, di una strumentazione sofisticata. I pianeti scoperti hanno masse che vanno da 0,47 a 10 volte la massa di Giove, che è a sua volta 318 volte la massa della Terra. Tali perturbazioni si possono evidenziare, infatti, soltanto se esiste un pianeta di grande massa. Si pensa ora di sviluppare tecnologie interferometriche dallo spazio che permettano di occultare la luce della stella in modo da poter "vedere" direttamente i pianeti che la circondano e poterne eseguire la spettroscopia, cioè l'analisi chimica, per cercare elementi come acqua, ossigeno e ozono che possano far risalire a un'eventuale attività biologica. Le scoperte di pianeti extrasolari costituiscono un enorme passo in avanti per la bioastronomia in quanto uno dei parametri dell'equazione di Drake riguarda proprio il numero di pianeti che potrebbero ospitare la vita. Si pensa che nei prossimi anni si susseguiranno scoperte a catena di nuovi pianeti, una volta sperimentata la tecnologia più appropriata. Un ascolto universale L'idea che sia possibile usare le tecniche radioastronomiche per comunicare attraverso gli spazi interstellari con eventuali civiltà extraterrestri tecnologicamente evolute risale al 1959, quando il fisico italiano Giuseppe Cocconi e l'americano Philip Morrison pubblicarono uno storico articolo sull'autorevole rivista Nature. Secondo loro, qualsiasi civiltà tecnologica deve essere a conoscenza della frequenza radio emessa dall'atomo di idrogeno (cioè un'emissione di lunghezza d'onda pari a 21 cm), poiché l'atomo di idrogeno è il più abbondante nell'universo e la legge fisica che lega un elettrone al protone dell'idrogeno è valida su ogni pianeta del cosmo. Con i radiotelescopi, noi captiamo questa frequenza proveniente in modo naturale da una quantità di oggetti cosmici. Dunque, se la modulassimo in modo tale da far comprendere, a chi riceve il nostro segnale radio, che si tratta di un segnale artificiale, il contatto potrebbe essere stabilito. Rimane il grande problema delle distanze, in quanto le stelle simili alla nostra nei cui sistemi planetari potrebbe essersi evoluta la vita intelligente distano da noi centinaia di anni luce. Così, se noi inviassimo un segnale poi captato da una civiltà distante cento anni luce, la risposta arriverebbe a noi dopo 200 anni e risulterebbe di interesse solo per i nostri pronipoti. Quindi l'unica cosa da fare restava quella di "ascoltare", cioè sperare di captare un segnale radio intelligente, anche se questo fosse partito da una civiltà forse estinta da migliaia di anni, da cui dedurre almeno che non siamo soli in questo immenso universo nel quale la Terra rappresenta un infinitesimo granellino.

Poiché le ricerche effettuate sino ad oggi ci portano a concludere che nel sistema solare non esiste alcuna forma di vita semplice o intelligente, il campo di indagine si è spostato verso le stelle. Dal momento che la stella esterna al sistema solare più vicina a noi dista ben 40 anni luce, le ricerche vengono eseguite esclusivamente per mezzo dei radiotelescopi. Tali strumenti analizzano le onde elettromagnetiche provenienti dallo spazio e le interpretano a seconda della lunghezza d'onda. Iniziò così quello che si sarebbe chiamato Progetto Seti (Search for extraterrestrial intelligence, ricerca di intelligenze extraterrestri) e fu l'astrofisico americano Frank Drake, a tentare per primo questo ascolto nel 1959 col radiotelescopio di Greenbank in Virginia, usando un ricevitore a un solo canale. Egli scelse due stelle simili al nostro Sole, tau Ceti ed epsilon Eridani, usando un ricevitore sulla lunghezza d'onda di 21 cm. Dalla seconda stella giunse un segnale fortissimo che fu tenuto segreto finché Drake non riuscì a scoprire che proveniva da una "intelligenza" terrestre segreta: l'aereo spia americano U2 abbattuto da un missile sovietico. Tutti i rumori del cosmo Sono passati circa quarant'anni dalla nascita dell'idea di Cocconi e Morrison, e il progetto denominato prima Ozma e poi Seti ha fatto passi da gigante. Soprattutto grazie alle fondazioni private della Silicon Valley, visto che nel 1993 il Congresso americano ha tagliato i finanziamenti a causa della guerra scatenata dal senatore Bryan, secondo il quale il progetto in tutti questi anni non era servito a "catturare neanche un omino verde"! Attualmente la ricerca segue due direttrici: quella del progetto Phoenix del Seti californiano e il progetto Serendip dell'Università di Berkeley. Il progetto Phoenix ha come scopo l'esplorazione nella banda di frequenze 1-3 GHz delle mille stelle di tipo solare più vicine a noi con la massima sensibilità possibile e usando i più grandi radiotelescopi esistenti al mondo: Arecibo, Parkes, Greenbank e Nancay. Questa esplorazione si concentra sulla rivelazione di segnali a banda stretta (meno di 300 Hz) difficilmente casuali, e che potrebbero indicare l'esistenza di una civiltà tecnologica. Il Serendip (dalle parole inglesi Ricerca di emissioni radio extraterrestri da civiltà intelligenti relativamente vicine a noi) si basa invece sul concetto di osservazione passiva in quanto non permette di controllare la frequenza e il puntamento, ma registra tutti i segnali provenienti dal radiotelescopio di Arecibo senza disturbare le osservazioni astronomiche in programma. Usa il più sofisticato spettrometro multicanale mai costruito (ogni canale può definirsi come un ricevitore a sé), con ben 168 milioni di canali, ciascuno di appena 0,6 Hz di banda, e copre una regione spettrale di 100 MHz con una capacità di calcolo di 200 miliardi di operazioni al secondo. Con questo strumento si realizzerà una mappa della sfera celeste intorno alla frequenza dell'idrogeno fra 1327 e 1500 MHz. Recentemente il gruppo italiano che fa parte del nostro progetto di bioastronomia ha acquisito presso l'Istituto di Radioastronomia del CNR di Medicina  uno spettrometro di 4 milioni di canali che ci permetterà di entrare nel progetto Seti a cui attualmente aderiscono Usa, Australia e Francia. Poiché con questi nuovi spettrometri si potrà risolvere il problema della lotta al "rumore" radio dovuto in gran parte alla nostra ionosfera carica di milioni di frequenze terrestri artificiali (oltre a quelle naturali provenienti dal cosmo), Frank Drake è apparso recentemente molto ottimista: egli spera che nei prossimi dieci anni si possa stabilire il primo "contatto".

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