"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano

 




 

Le psicologhe che lo assistono: all´inizio non riusciva neanche a piangere, poi ha iniziato a ricordare Per papà Lucio un doppio rimorso "A metà mattina tornai in macchina e non vidi che lei era ancora lì" "Dovevo prendere un documento, ho sentito un gemito ma pensavo fosse uno dei nostri cani"

di Meo Ponte


Amava il giallo la piccola Elena. «Tra tutti i colori era quello che preferiva» dice Chiara Sciarrini indicando i disegni appesi alla parete della stanza ora vuota. Su un foglio a quadretti c´è l´abbozzo di un arcobaleno, sugli altri tanti piccoli scarabocchi lasciati con le dita intinte nel giallo. Sono le 10 di ieri mattina e Lucio e Chiara sono appena tornati nella loro casa a Campli, un piccolo borgo a venti chilometri da Teramo. Li accompagnano le tre psicologhe che da giovedì non li hanno mai abbandonati, strappandoli al dolore che li soffocava. Quando Maria Cristina Alessandrelli, una pioniera della psicologia dell´emergenza che nel 2008, per prima in Italia ha creato l´Ape, l´associazione psicotraumatologica dell´emergenza, e le sue giovani collaboratrici, Silvia Frantini e Francesca Brugnolini, hanno incontrato la coppia lei annegava nei singhiozzi, lui aveva lo sguardo perso nel vuoto, incapace persino di piangere. «Riusciva solo a balbettare qualche frase sconnessa, che era pronto a morire pur di ridare la vita alla figlia» ricorda la professoressa Alessandrelli. Già durante il primo incontro di giovedì pomeriggio nel reparto di rianimazione del Salesi le tre psicologhe riescono a far breccia nel muro di disperazione di Lucio e Chiara. «In quel momento erano come bambini fragili e indifesi, dovevamo diventare il sostegno che li avrebbe accompagnati nel percorso delle diverse fasi del trauma» sottolineano le tre psicologhe. Il giorno dopo Lucio riesce finalmente a parlare, ricorda il momento in cui ha lasciato l´auto nel parcheggio dell´Università, affiora alla sua mente un particolare terribile e ammette: «Sono tornato all´auto a metà della mattinata per prendere un documento che avevo lasciato sul sedile anteriore. Ho sentito un flebile gemito, ho pensato che uno dei nostri tanti cani fosse salito sull´auto. Ho guardato e non ho visto nulla. Non mi sono accorto di Elena, non riesco a spiegarmelo».
Giovedì sera quando Chiara e Lucio lasciano l´ospedale per la loro seconda notte in albergo lei stringe le mani alla professoressa Alessandrelli sussurrando: «Non sparite vero? Domani ci vediamo?». Venerdì è ancora un giorno intenso ma il momento più terribile arriva nel pomeriggio di sabato. Le tre psicologhe sono accanto a Chiara e Lucio quando il professor Franco Rychlicki che ha appena concluso il delicato intervento per aspirare l´edema cerebrale dalla testolina di Elena dice loro che non ci sono più speranze. La coppia sembra soccombere al dolore poi Chiara si riscuote, stringe la mano a Lucio e sussurra: «Voglio che dalla morte di Elena sorga una vita». È in quel momento che decide donare il corpo della sua piccola a chi può ancora vivere.
Ieri mattina Lucio e Chiara sono tornati a casa. «Ci siamo dati appuntamento alle nove davanti al Salesi, ci hanno detto che senza di noi non ce la facevano a tornare nella casa dove Elena non c´era più» dice Silvia Frantini. Quando arrivano davanti alla casa colonica appena finita di ristrutturare e che odora ancora di nuovo Chiara non riesce a scendere dall´auto, paralizzata dal ricordo. Le tre psicologhe le parlano, la prendono per mano. Lei si riprende e le guida in un giro della casa: mostra loro la stanza di Elena, l´armadio con gli abitini appesi, i disegni. Poi il giardino dove galoppa il pony che tanto faceva ridere la piccola e l´orto. «Qui ci veniva con il nonno» spiega Chiara. I vicini, secondo l´usanza della zona, portano il pranzo: pasta e porchetta, un po´ di frutta. «Alle 14 ci siamo chiuse con loro nello studio di Lucio e ci siamo rimaste sino alle 18» ricordano le tre psicologhe. È il colloquio più intimo. Dopo Chiara e Lucio riescono ad avvicinarsi per la prima volta al pick up dai vetri neri che ha ucciso Elena. «La mettevo dietro il mio sedile per proteggerla» dice ancora lui. E alle tre psicologhe che se ne vanno confessa: «Siete state un anello di protezione conro il dolore».


(Fonte: “La Repubblica” del 23 maggio 2011)



 

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