Autore: Jean-Louis
Tauran
Tratto
da: L'Osservatore Romano del 07/08/2010
LA RESPONSABILITÀ DEI
CREDENTI NELL'AFFERMAZIONE DI UNA VIRTÙ CHE VA COSTRUITA OGNI
GIORNO
Non c'è libertà e uguaglianza senza la
fraternità
L'undicesima edizione di
"Tonalestate", che si svolge dal 4 al 7 agosto a Ponte di Legno (Brescia) e a
Passo del Tonale (Trento), ha scelto tre parole come guida ai suoi lavori:
liberté, égalité, ma soprattutto fraternité. E al tema della fraternità ha
dedicato il suo intervento il cardinale presidente del Pontificio Consiglio per
il Dialogo Interreligioso. Riportiamo ampi stralci della relazione, intitolata
"La fraternità, responsabilità dei credenti: un'utopia?".
La fraternità non è
spontanea. Ricordiamo Caino e Abele! La fraternità è sempre avanti a noi.
Dobbiamo costruirla ogni giorno. In Francia, sui frontespizi dei palazzi
ufficiali, si distacca l'emblema "libertà, uguaglianza fraternità". Charles
Péguy pensava che il motto repubblicano dovesse essere riscritto in questo
ordine: fraternità, libertà, uguaglianza. L'idea non ebbe successo perché gli
anticlericali di turno fecero notare che la fraternità era un concetto
cristiano. E a ragione.
Diceva Edgar Morin: la libertà può essere istituita.
L'uguaglianza può essere imposta. La fraternità, invece, non si stabilisce con
una legge, né si impone dallo Stato! Viene da una esperienza personale di
solidarietà e di responsabilità. Da sola, la libertà uccide l'uguaglianza e
l'uguaglianza imposta come unico principio distrugge la libertà. Solamente la
fraternità permette di mantenere la libertà, continuando però la lotta per
sopprimere le disuguaglianze.
Nel secolo scorso due sistemi hanno cercato di
incarnare la libertà e l'uguaglianza. Il liberalismo economico ha cercato di
assicurare a tutti il benessere e il socialismo ha cercato di promuovere
l'uguaglianza, attribuendo allo Stato la giusta ripartizione delle ricchezze.
All'inizio di questo secolo le crisi finanziarie, le malattie, la povertà hanno
fatto capire che manca una base etica che assicuri un senso agli sforzi di chi è
incaricato di organizzare la vita sociale ed economica. E forse la fraternità
potrebbe essere questo riferimento etico.
La fraternità è spesso fraintesa con la solidarietà. La
solidarietà ha come scopo di correggere le disuguaglianze e le ingiustizie senza
tuttavia rimetterle in discussione. La fraternità, invece, indica una società
genuinamente egualitaria, una uguaglianza non soltanto di diritto ma soprattutto
di fatto, a nome dell'imminente dignità di ogni essere umano. Una società
fraterna è una società in cui i singoli privilegi non esistono più, dove ognuno
si prende cura dell'altro, di ogni altro. Implica un contatto immediato con le
persone, riconosce in ogni persona uno che è insieme diverso da me e uguale a
me. Diverso perché ognuno è unico. Uguale perché in ognuno c'è la chiamata a
essere fratello in umanità; fratello in quanto appartengo alla medesima famiglia
umana. La fraternità arricchisce la libertà e l'uguaglianza perché, al contrario
della libertà liberale, la libertà fraterna si sente responsabile della libertà
dell'altro. Io non sono veramente libero se l'altro non lo
è.
Giovanni Paolo II, in occasione della sua prima visita
apostolica in Francia nel 1980, disse che "nel fondo, libertà, uguaglianza e
fraternità sono idee cristiane". È interessante notare che il cristianesimo
primitivo parlava della Chiesa come di una "comunità di fratelli". La parola
fratello (ádelphos) designa quelli che appartengono al gruppo dei
discepoli di Gesù il quale - dice san Paolo nella Lettera ai Romani
(8,29) - "è il primogenito in una moltitudine di fratelli". Però la comunità
primitiva usa anche un termine generico: fraternità (ádelphotes). È una
parola che appartiene tipicamente al vocabolario cristiano; per esempio non si
trova né in Platone né in Aristotele mentre questi medesimi autori usano di
frequente la parola fratelli. Quindi per noi cristiani la fraternità, più che
una virtù, è il fatto di essere fratelli, membri di un gruppo, il gruppo dei
cristiani, battezzati, uniti a Cristo attraverso i sacramenti della
Ecclesia.
Benedetto XVI tratta della fraternità nella sua
enciclica Caritas in veritate. Il capitolo iii, infatti, è intitolato:
"Fraternità, sviluppo economico e società civile". Nel capitolo v, sulla
collaborazione della famiglia umana, la fraternità viene esaminata sotto
l'aspetto teologico: la Santissima Trinità viene considerata come il
riferimento ultimo dell'unità della famiglia umana (n. 54) e il Papa riconosce
che le diverse culture e religioni, nella misura in cui prendono in
considerazione l'esigenza dell'amore e della verità, sono di grande aiuto per il
ravvicinamento dei popoli. Il Papa rimane prudente quanto alla collaborazione
delle religioni per assicurare l'unità del genere umano. Insiste, piuttosto, nel
dire che il contributo delle religioni allo sviluppo richiede, prima di tutto,
che Dio abbia il suo posto nella sfera pubblica (n. 56). In tale contesto il
Papa evoca la relazione tra fede e ragione. Fede e Ragione che si purificano
l'una con l'altra.
Quando l'Onu, nel 1948, promulgò la Dichiarazione
universale dei diritti dell'uomo, dopo le barbarie della seconda guerra
mondiale, tale dichiarazione trovò il suo fondamento nella fraternità. Basta
rileggere l'articolo primo: "Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in
dignità e in diritti. Sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli
uni verso gli altri in uno spirito di fraternità". Ciò significa che la
fraternità non è facoltativa, è una necessità, è un imperativo insito nei valori
religiosi o laici più sacri. La fraternità non è né spontanea né immediata, va
imparata attraverso l'educazione e la formazione, non solo lungo la vita
scolastica, ma lungo tutta la vita. Nelle scuole, si dovrebbe cominciare con
l'insegnare ai bambini come aiutarsi a vicenda, rispettare le differenze e lì le
religioni hanno un ruolo particolarmente decisivo da svolgere. Poiché le
comunità di credenti hanno un savoir faire che proviene dall'esperienza vissuta
da milioni e milioni di uomini e donne ogni settimana. In effetti, ogni venerdì,
sabato e domenica, milioni e milioni di credenti invadono sinagoghe, chiese e
moschee per il loro culto e lì tutti imparano a vivere l'unità nella diversità.
È possibile vivere assieme, conservare la propria identità perché siamo membri
di una stessa famiglia e sotto lo sguardo di Dio - per gli uni Creatore, per gli
altri Padre - dobbiamo e possiamo vivere non solamente tollerandoci a vicenda,
ma amandoci come in una famiglia.
Il dialogo interreligioso diventa allora un elemento
particolarmente decisivo nel mondo pluriculturale e plurireligioso di oggi, non
solamente per una coesistenza pacifica, ma per la promozione di un nuovo mondo.
Come credenti, siamo tutti chiamati a confrontarci con tre sfide: la sfida
dell'identità, la sfida della differenza e la sfida del pluralismo. La sfida
dell'identità è acquisire una coscienza del contenuto della propria fede, perché
non si può dialogare sull'ambiguità. La sfida della differenza: non dobbiamo
pensare che chi appartiene a un'altra religione o a un'altra cultura è
necessariamente un nemico. La sfida del pluralismo: dobbiamo accettare che Dio
è misteriosamente all'opera in ogni sua creatura.
Se riusciamo ad acquisire questa spiritualità allora
saremo in grado, noi credenti, di arginare tutte le cause di non-fraternità: la
disoccupazione, le disparità sociali, l'isolamento della malattia e della
povertà, la disattenzione verso le persone anziane, gli stranieri, i migranti.
Come credenti possiamo rendere un grande servizio ai nostri fratelli e sorelle
in umanità alla ricerca del senso della storia e della vita. Il filosofo Paul
Ricoeur, in un articolo del 1966, nella rivista "Esprit", osservava che l'uomo
moderno in realtà si confronta con quattro questioni: le questioni
dell'autonomia, del desiderio, del potere e del non senso. Io vorrei ricordare
quattro campi dove tutti i credenti possono cooperare per il bene comune: la
città, lo sport e la musica, l'educazione, l'ospitalità. Con tanti uomini e
donne dobbiamo condividere i grandi valori che appartengono al patrimonio
cristiano: il rispetto della persona umana, mai riducibile alla sua
produttività economica o alla sua posizione sociale; la tutela delle libertà
fondamentali della persona umana; l'uguaglianza, che per noi riposa sulla
carità. Dobbiamo tutti aiutarci, nel rispetto delle nostre differenze, a
scegliere tra il bene e il male. E i responsabili religiosi, in particolare,
hanno il dovere di indicare la via da intraprendere per dare a ognuno la
possibilità di scegliere, nella libertà e con responsabilità, la via
giusta.
Noi cristiani pensiamo che oggi è il migliore dei tempi
perché Dio ci ha piantato qui ed è qui che dobbiamo fiorire. Si, non perdiamo
coraggio, guardiamo attorno a noi e troveremo un fratello da amare e con cui
fare un pezzo di cammino assieme. Mi torna alla mente un racconto tibetano: "Un
giorno camminavo sulla montagna e ho visto una bestia. Avvicinandomi mi sono
reso conto che era un uomo. Quando sono arrivato davanti a lui ho visto che era
il mio fratello".
I credenti non possono che rivendicare il loro diritto
di proporre all'uomo di oggi "l'ipotesi Dio" e lì noi cristiani abbiamo una
responsabilità particolare. Saremo forse una minoranza nel mondo di domani, ma
saremo sempre una minoranza che conta, una minoranza che agisce.
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