"Tempo Perso -
Alla ricerca di
senso nel quotidiano"
FONTE: Rocca n. 8 - 15 aprile 2009 ( http://www.cittadella.org/pls/cittadella/cittadella.rocca) ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- IL CONCRETO DELLO SPIRITO Perdono
Nella
tradizione cristiana si è molto parlato di perdono: non di rado
con sublimità (e sincerità) di parole, e talvolta con profonde aperture
mistiche, ma la pratica pastorale non ha sempre aiutato a comprenderlo. L'idea
affiorante era sempre che può essere perdonato solo chi, oltre a pentirsi,
espia, dopo aver confessato la colpa. Ovviamente nei modi dovuti, altrimenti
non funziona. Ciò contribuisce a rafforzare l'idea che il perdono debba essere
'domandato' e 'meritato', e si perde la sua natura di dono, quindi la gratuità. il perdono riguarda solo l'imperdonabile Di
alcune fra le più ardue e luminose intuizioni contemporanee sul perdono siamo
debitori a un filosofo francese, Jacques Derrida, morto nel 1984. In una
celebre polemica a distanza con un altro pensatore francese (W.Jankélevitch)
sulla possibilità per i sopravvissuti alla Shoah di 'perdonare' i
responsabili dello sterminio, sostiene che il solo perdono vero è incondizionato e si rivolge all'imperdonabile. Si trova qui la chiave del discorso ma anche lo
scoglio più difficile da superare. Parliamo del perdono nel senso più serio
(non consideriamo dunque micro-perdoni, le piccole scuse, il 'metterci una
pietra sopra' ecc., che pure sono ben presenti e frequenti nel nostro vissuto),
quindi muovendo dall'assunto che ci sia stato qualcosa di grave, di molto
grave. Perdonare
il perdonabile non significa molto in questo senso. Naturalmente è una cosa che
si deve fare; ma non dovrebbe nemmeno chiamarsi perdono. Quello
che chiamiamo il 'perdonabile' può rientrare in tre ambiti molto generali. Il
primo è ovvio: quando il male commesso non sia di gravità estrema, un caso in
cui rifiutare il perdono sarebbe semplicemente un agire stizzoso e nevrotico. Il
secondo: quando il male è oggettivamente grande e grave, ma l'offeso comprende le dinamiche interiori che hanno
spinto l'offensore a fare quello che ha fatto. Nel momento in cui si perviene
a questa comprensione - anche se il male c'è stato e rimane, anche se rimane la
sofferenza che ha causato -, il perdono già comincia a germogliare, a
costruirsi dentro di noi, anche se ancora non accettiamo in pieno !'idea. Il
terzo: quando l'offensore riconosce la
propria colpa e
quindi richiede il perdono, più o meno esplicitamente. Anche in questo caso
rifiutare il perdono costituirebbe un'inammissibile durezza e un'ostinazione
psicologicamente sospetta. In fondo
- confessiamolo - nemmeno perdonare il perdonabile ci risulta facilissimo,
tuttavia la nostra ragione lo comprende bene: insomma non è 'iperbolico'. Ma
non è nemmeno per-dono: il vero perdono è contrassegnato dalla gratuità
totale. attenzione agli equivoci Oggi
parlare di perdono risulta impopolare, quasi sempre frainteso. Al di fuori di
contesti molto specializzati e molto spirituali, espone subito a sospetti di
vario genere e a reazioni negative. Nel migliore dei casi si passa per teorici
sognatori, ma vi è il rischio di venir accusati anche di debolezza e/o di
complicità con il male. E
siccome il perdono è disturbante, 'scandaloso', sovversivo, e prenderlo sul
serio non significa dare un'indolore adesione intellettuale, ma rimescolare a
fondo le proprie scelte esistenziali e morali, la maggior parte delle persone
che avviciniamo - anche quando siano di buona o di ottima cultura -, al sentirne
parlare reagiscono subito con un fraintendimento difensivo: cioè scambiando il
perdono con realtà diverse. Perciò
ogni riflessione su ciò che è il perdono richiede un chiarimento previo su ciò
che il perdono non è. Non è
giustificazione del male, innanzitutto: per renderlo possibile occorre un'idea
chiara del bene e del male, una coscienza etica ben strutturata. Non significa
'depenalizzazione': le eventuali conseguenze penali di un certo agire, le
esigenze della società
civile, la dimensione giuridica, non possono venir annullate, ma costituiscono
una diversa pista di riflessione. Non significa nemmeno 'prescrizione' del
male avvenuto (quasi che si potesse smettere di considerarlo un male e, anzi,
non parlarne neppure più, quando sia passato un bel po' di tempo). Il perdono
non è amnistia. Non è neppure, mi si passi il termine, 'amnesia'; non è vero che «perdonare è dimenticare». È possibile dimenticare il male che si è ricevuto? Se non è una bugia, può voler dire solo che il male di cui si tratta era
irrisorio e trascurabile - e in quel caso il problema di perdonare o non
perdonare non dovrebbe nemmeno porsi -, oppure che la persona offesa è di un'incredibile superficialità, o che il trauma
ricevuto gli ha causato una perdita di memoria. Come si può dimenticare un male
(grande, evidentemente: non sprechiamo qui il nostro tempo o i nostri pensieri
con i mali piccoli, le piccole offese, che dovrebbero risolversi da sé) che ha
segnato tutto il nostro percorso vitale, tutto il nostro modo di essere? Quando
in una vita umana si determina una lacerazione di questo genere, è chiaro che nulla - dopo - può più essere come prima. È
vero che il tempo
esercita sempre e comunque la sua opera, per cui può darsi che il dolore, dopo
dieci o vent'anni, sia meno esplosivo, che si riesca a parlarne ... , ma
quella ferita che altera tutto il rapporto dell' offeso con il mondo, tutto
il suo modo di sentire la vita, aderisce alla persona: viene a far parte
stabilmente della sua identità, della sua fisionomia, e non si può togliere. Quindi,
perdonare non significa «facciamo come se non fosse successo nulla». Non è possibile se non a
patto di un'operazione artificiosa, di assoluta improponibilità psicologica e
storica, un'operazione che tra l'altro sottintende una pavidità inaccettabile.
No, non è quello il perdono. perdonare una persona, non una cosa Il
perdono si riferisce sempre alla persona,
non alla cosa che ha fatto. Non è una scoperta: seppure con altri termini, è la vecchia distinzione agostiniana - ripresa da molti altri, fra cui Si sta
diffondendo la consapevolezza che nessuno, nemmeno la persona più buona che si
possa immaginare, possiede al cento per cento il merito della sua virtù e del
male che non ha mai neppure sognato di commettere; non si potrà mai dire fino a
che punto la sua buona vita, la sua virtù intemerata, siano proprio merito suo,
e non piuttosto il frutto di una serie di circostanze fortunate, dell'ambiente
in cui è avvenuta la sua formazione, delle
opportunità che gli si sono presentate ... o delle negatività che non gli si sono presentate. D'altra parte, anche lasciando
alla responsabilità umana tutto il suo peso, nessuna persona può essere
considerata responsabile al cento per cento, responsabile da sola del male che
ha fatto: perché le profondità del cuore umano sono quasi inesplorabili, e
sulle nostre scelte pesano la storia e la cultura, pesano le deformazioni della
coscienza storica e tutto il male del mondo, che a distanza forse riusciamo a
vedere in modo un po' più limpido di quanto non si riesca a vederlo standovi
dentro. L'idea
di fondo è semplice e assoluta: il perdono è assolutamente gratuito e asimmetrico. È pericoloso
stabilire troppo disinvolte corrispondenze (anche solo verbali) tra perdono e
riconciliazione. La differenza di fondo sta nel fatto che la riconciliazione esprime e presuppone un agire reciproco.
Invece il perdono
non ha altro fine che se stesso e non ha condizioni, è al di fuori di ogni logica di scambio. Ciò non
vuol dire, è chiaro, che la riconciliazione
non sia importante, e o che non lo sia la redenzione del colpevole. Semplicemente sono
realtà diverse. Forse comunque se si cominciasse a seminare qualche seme di
perdono 'vero', non potrebbe non avvenire a poco a poco un risanamento dei
rapporti umani, una resipiscenza, un inizio di redenzione. il perdono come sfida creativa Dicevamo
che la tradizione cristiana ha parlato spesso di perdono ma non l'ha veramente
insegnato, e spesso ha fatto emergere l'idea di un Dio che è buono con chi è
buono, prontissimo però a diventare terribile con chi non lo è. Con ciò si
distrugge nei fatti l'immagine di un Dio Amore, e si dimentica l'uomo immagine
di Dio per farsi un Dio a immagine dell'uomo, a immagine di ciò che vi è di
peggio nell'uomo. Non sarebbe giusto dame la colpa ai pastori soltanto. Anche
molte pagine dei due Testamenti mostrano come sia difficile per il pensiero e
le parole umane (e per la psicologia umana, e per il senso di 'giustizia'
intesa in senso unicamente retributivo) affrancarsi da immagini e schemi di pensiero
che recalcitrano al nuovo di Dio. L’immagine contraffatta di Dio, che forse
nessuno sottoscriverebbe più, ma che comunque ha lasciato tracce nella
tradizione e nella cultura che abbiamo intorno, è responsabile della maggior
parte dell'ateismo contemporaneo, ne sia o non ne sia consapevole chi lo
professa. L’idea
dell'inferno, fosse pure come possibilità, costituisce un oltraggio tale e una
tale smentita nei confronti di un Dio di amore infinito, che nessun pensiero
dei fratelli più deboli (se sono 'deboli', è una ragione di più per non sviarli
e ingannarli!), nessun rispetto della tradizione, nessuna riverenza verso un
magistero della chiesa che ancora esita a cancellare questa idea terribile e
preferisce parlare genericamente di speranza nella misericordia divina, può
autorizzarci non dico a continuare in questa credenza, ma a non denunciarne
le persistenze. Immergersi nell'impossibilità,
nello 'scandalo' del perdono fa sperimentare la trascendenza. Siamo indotti a
chiederci se perdonare sia possibile all'uomo o rientri nelle prerogative di
Dio. il perdono, un dinamismo che trasforma Quando
Gesù comanda di 'amare' i nemici, vieta l'odio, certo; ma non chiede di aver
simpatia per loro. La simpatia non si comanda: c'è o non c'è, e i nemici non
si amano nello stesso modo in cui si amano gli amici. Amare il
nemico significa invece imparare a dissociarlo dalla sua colpa. Può aver fatto
le cose più orripilanti che si possano immaginare ma, come persona, non coincide
mai al cento per cento con quello che ha fatto. Una persona è sempre infinitamente
più grande delle cose che fa. Anche
delle cose buone. Perdonare
l'altro non significa che da nemico diventerà un grande amico (senza essere
del tutto impossibile, è certo difficile, e comunque il senso del comando evangelico
non tende a questo); invece perdonarlo significa non lasciarlo inchiodato alla
sua colpa per sempre, non pietrificare il dinamismo infinito del divenire
umano. Non significa dimenticare il passato: anche perché, come si è già
detto, certe ferite del passato fanno parte di noi, e non sarebbe possibile
cancellarle senza cancellare la nostra storia e noi stessi. Significa
liberarsi gradualmente dal peso del passato, che impedisce di andare avanti.
Per liberarsene occorre accettare l'idea che quel passato c'è stato, che ha
contribuito a plasmarci come siamo. Perdonare
significa rinunciare alla vendetta, e guardare l'altro come un essere umano
portatore di un futuro infinito; significa anche sperare in un futuro in cui
questa persona avrà parte; soprattutto ammettere, per l'offensore come per
l'offeso, la possibilità di un nuovo futuro da costruire insieme. Il perdono è
davvero l'impossibilità che diviene possibile. Qui
troviamo il culmine dell' etica cristiana, radicata nella dismisura dell'amore
di Dio, e nello stesso tempo il suo fondamento. Si tratta di un'etica
iperbolica, certo, ma non per questo irreale, o asociale, o irrazionale: in
essa risiede l'unica speranza per l'umanità, l'unica via all'umanizzazione del
mondo. Parliamo di etica, ma è un'etica che va oltre se stessa: ha il fondamento
e la meta nell'escatologia, e non riesce a comprenderla chi non è capace di
operare questo passaggio di piano. Il
perdono significa fedeltà al Dio che fa nuove tutte le cose, e non è un dato,
ma un percorso o, meglio, un dinamismo. Non è possibile attingere questo
livello dell'etica senza la fede e senza la speranza che della fede costituisce
il risvolto dinamico, senza l'amore che supera infinitamente le nostre
modeste capacità di 'voler bene', perché è frutto e segno dell'inabitazione in
noi dello Spirito. Lilla
Sebastiani |