Che cos'è la verità? Non soltanto Pilato ha accantonato questa domanda come
irrisolvibile e, per il suo compito, impraticabile. Anche oggi, nella disputa
politica come nella discussione circa la formazione del diritto, per lo più si
prova fastidio per essa. Ma senza la verità l'uomo non coglie il senso della sua
vita, lascia, in fin dei conti, il campo ai più forti. "Redenzione" nel senso
pieno della parola può consistere solo nel fatto che la verità diventi
riconoscibile. Ed essa diventa riconoscibile in Gesù Cristo. In lui Dio è
entrato nel mondo, e ha con ciò innalzato il criterio della verità in mezzo alla
storia.
***
Il compimento della Pasqua
Il libro del Papa Gesù di Nazaret. Dall'ingresso in
Gerusalemme fino alla risurrezione, verrà presentato il prossimo 10 marzo. La
Libreria Editrice Vaticana, d'intesa con Herder che ha curato l'edizione
principe dell'opera, ne anticipa alcuni brani. L'opera uscirà in contemporanea
inizialmente in sette lingue: tedesco, italiano, inglese, spagnolo, francese,
portoghese e polacco. Pubblichiamo stralci dal primo punto del quarto capitolo
intitolato "L'Ultima Cena".
Giovanni bada con premura a non
presentare l'ultima cena come cena pasquale. Al contrario: le autorità giudaiche
che portano Gesù davanti al tribunale di Pilato evitano di entrare nel pretorio
"per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua" (18, 28). La Pasqua comincia
quindi solo alla sera; durante il processo si ha la cena pasquale ancora
davanti; processo e crocifissione avvengono nel giorno prima della Pasqua, nella
"Parascève", non nella festa stessa. La Pasqua in quell'anno si estende dunque
dalla sera del venerdì fino alla sera del sabato e non dalla sera del giovedì
fino alla sera del venerdì.
Per il resto, lo svolgimento degli eventi rimane
lo stesso. Giovedì sera l'ultima cena di Gesù con i discepoli, che però non è
una cena pasquale; venerdì (vigilia della festa e non la festa stessa): il
processo e l'esecuzione capitale; sabato: il riposo del sepolcro; domenica: la
risurrezione. Con questa cronologia, Gesù muore nel momento, in cui nel tempio
vengono immolati gli agnelli pasquali. Egli muore come l'Agnello vero che negli
agnelli era solo preannunciato.
Questa coincidenza teologicamente
importante, che Gesù muoia contemporaneamente con l'immolazione degli agnelli
pasquali, ha indotto molti studiosi a liquidare la versione giovannea come
cronologia teologica. Giovanni avrebbe cambiato la cronologia per creare questa
connessione teologica che, tuttavia, nel Vangelo non viene manifestata
esplicitamente. Oggi, però, si vede sempre più chiaramente che la cronologia
giovannea è storicamente più probabile di quella sinottica. Poiché - come s'è
detto - processo ed esecuzione capitale nel giorno di festa sembrano poco
immaginabili.
D'altra parte, l'ultima cena di Gesù appare così strettamente
legata alla tradizione della Pasqua che la negazione del suo carattere pasquale
risulta problematica.
Per questo già da sempre sono stati fatti dei tentativi
di conciliare le due cronologie tra loro. Il tentativo più importante - e in
molti particolari affascinante - di giungere ad una compatibilità tra le due
tradizioni proviene dalla studiosa francese Annie Jaubert, che fin dal 1953 ha
sviluppato la sua tesi in una serie di pubblicazioni. Non dobbiamo qui entrare
nei dettagli di tale proposta; limitiamoci all'essenziale. In questo modo la
tradizione sinottica e quella giovannea appaiono ugualmente giuste sulla base
della differenza tra due calendari diversi.
La studiosa francese fa notare
che le cronologie tramandate (nei sinottici e in Giovanni) devono mettere
insieme una serie di avvenimenti nello spazio stretto di poche ore:
l'interrogatorio davanti al sinedrio, il trasferimento davanti a Pilato, il
sogno della moglie di Pilato, l'invio ad Erode, il ritorno da Pilato, la
flagellazione, la condanna a morte, la via crucis e la
crocifissione.
Collocare tutto questo nell'ambito di poche ore sembra -
secondo Jaubert - quasi impossibile. Rispetto a ciò la sua soluzione offre uno
spazio temporale che va dalla notte tra martedì e mercoledì fino al mattino del
venerdì. In quel contesto la studiosa mostra che in Marco per i giorni "Domenica
delle palme", lunedì e martedì c'è una precisa sequenza degli avvenimenti, ma
che poi egli salta direttamente alla cena pasquale. Secondo la datazione
tramandata resterebbero quindi due giorni su cui non viene riferito nulla.
Infine Jaubert ricorda che in questo modo il progetto delle autorità giudaiche,
di uccidere Gesù puntualmente ancora prima della festa, avrebbe potuto
funzionare. Pilato, tuttavia, con la sua titubanza avrebbe poi rimandato la
crocifissione fino al venerdì.
Contro il cambio della data dell'ultima cena
dal giovedì al martedì parla, però, l'antica tradizione del giovedì, che
comunque incontriamo chiaramente già nel II secolo. Ma a ciò la signora Jaubert
obietta citando il secondo testo su cui si basa la sua tesi: si tratta della
cosiddetta Didascalia degli Apostoli, uno scritto dell'inizio del III secolo,
che fissa la data della cena di Gesù al martedì.
La studiosa cerca di
dimostrare che quel libro avrebbe accolto una vecchia tradizione, le cui tracce
sarebbero ritrovabili anche in altri testi. A questo bisogna, però, rispondere
che le tracce della tradizione, manifestate in questo modo, sono troppo deboli
per poter convincere. L'altra difficoltà consiste nel fatto che l'uso da parte
di Gesù di un calendario diffuso principalmente in Qumran è poco verosimile.
Per le grandi feste, Gesù si recava al tempio. Anche se ne ha predetto la
fine e l'ha confermata con un drammatico atto simbolico, Egli ha seguito il
calendario giudaico delle festività, come dimostra soprattutto il Vangelo di
Giovanni. Certo, si potrà consentire con la studiosa francese sul fatto che il
Calendario dei Giubilei non era strettamente limitato a Qumran e agli
Esseni.
Ma ciò non basta per poterlo far valere per la Pasqua di Gesù. Così
si spiega perché la tesi di Annie Jaubert, a prima vista affascinante, dalla
maggioranza degli esegeti venga rifiutata.
Io l'ho illustrata in modo così
particolareggiato, perché essa lascia immaginare qualcosa della molteplicità e
complessità del mondo giudaico al tempo di Gesù - un mondo che noi, nonostante
tutto l'ampliamento delle nostre conoscenze delle fonti, possiamo ricostruire
solo in modo insufficiente.
Non disconoscerei, quindi, a questa tesi ogni
probabilità, benché in considerazione dei suoi problemi non sia possibile
semplicemente accoglierla.
Che cosa dobbiamo dunque dire? La valutazione più
accurata di tutte le soluzioni finora escogitate l'ho trovata nel libro su Gesù
di John P. Meier, che alla fine del suo primo volume ha esposto un ampio studio
sulla cronologia della vita di Gesù.
Egli giunge al risultato che bisogna
scegliere tra la cronologia sinottica e quella giovannea e dimostra, in base
all'insieme delle fonti, che la decisione deve essere in favore di
Giovanni.
Giovanni ha ragione: al momento del processo di Gesù davanti a
Pilato, le autorità giudaiche non avevano ancora mangiato la Pasqua e per questo
dovevano mantenersi ancora cultualmente pure. Egli ha ragione: la crocifissione
non è avvenuta nel giorno della festa, ma nella sua vigilia. Ciò significa che
Gesù è morto nell'ora in cui nel tempio venivano immolati gli agnelli pasquali.
Che i cristiani in ciò vedessero in seguito più di un puro caso, che
riconoscessero Gesù come il vero Agnello, che proprio così trovassero il rito
degli agnelli portato al suo vero significato - tutto ciò è poi solo
normale.
Rimane la domanda: Ma perché allora i sinottici hanno parlato di una
cena pasquale? Su che cosa si basa questa linea della tradizione? Una risposta
veramente convincente a questa domanda non la può dare neppure Meier. Ne fa
tuttavia il tentativo - come molti altri esegeti - per mezzo della critica
redazionale e letteraria. Cerca di dimostrare che i brani di Marco, 14, 1a e 14,
12-16 (gli unici passi in cui presso Marco si parla della Pasqua) sarebbero
stati inseriti successivamente.
Nel racconto vero e proprio dell'ultima cena
non si menzionerebbe la Pasqua.
Questa operazione - per quanto molti nomi
importanti la sostengano - è artificiale. Rimane però giusta l'indicazione di
Meier che cioè, nella narrazione della cena stessa presso i sinottici, il
rituale pasquale appare tanto poco quanto presso Giovanni.
Così, pur con
qualche riserva, si potrà aderire all'affermazione: "L'intera tradizione
giovannea (...) concorda pienamente con quella originaria dei sinottici per
quanto riguarda il carattere della cena come non appartenente alla Pasqua" (A
Marginal Jew, I, p. 398).
Ma allora, che cosa è stata veramente l'ultima cena
di Gesù? E come si è giunti alla concezione sicuramente molto antica del suo
carattere pasquale?
La risposta di Meier è sorprendentemente semplice e sotto
molti aspetti convincente. Gesù era consapevole della sua morte imminente. Egli
sapeva che non avrebbe più potuto mangiare la Pasqua. In questa chiara
consapevolezza invitò i suoi ad un'ultima cena di carattere molto particolare,
una cena che non apparteneva a nessun determinato rito giudaico, ma era il suo
congedo, in cui Egli dava qualcosa di nuovo, donava se stesso come il vero
Agnello, istituendo così la sua Pasqua.
In tutti i Vangeli sinottici fanno
parte di questa cena la profezia di Gesù sulla sua morte e quella sulla sua
risurrezione. In Luca essa ha una forma particolarmente solenne e misteriosa:
"Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione,
poiché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di
Dio" (22, 15 s).
La parola rimane equivoca: può significare che Gesù, per
un'ultima volta, mangia l'abituale Pasqua con i suoi. Ma può anche significare
che non la mangia più, ma s'incammina verso la Pasqua nuova.
Una cosa è
evidente nell'intera tradizione: l'essenziale di questa cena di congedo non è
stata l'antica Pasqua, ma la novità che Gesù ha realizzato in questo contesto.
Anche se questo convivio di Gesù con i Dodici non è stata una cena pasquale
secondo le prescrizioni rituali del giudaismo, in retrospettiva si è resa
evidente la connessione interiore dell'insieme con la morte e risurrezione di
Gesù: era la Pasqua di Gesù. E in questo senso Egli ha celebrato la Pasqua e non
l'ha celebrata: i riti antichi non potevano essere praticati; quando venne il
loro momento, Gesù era già morto. Ma Egli aveva donato se stesso e così aveva
celebrato con essi veramente la Pasqua. In questo modo l'antico non era stato
negato, ma solo così portato al suo senso pieno.
La prima testimonianza di
questa visione unificante del nuovo e dell'antico, che realizza la nuova
interpretazione della cena di Gesù in rapporto alla Pasqua nel contesto della
sua morte e risurrezione, si trova in Paolo In 1 Corinzi, 5, 7: "Togliete via il
lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo,
nostra Pasqua, è stato immolato!" (cfr. Meier A Marginal Jew, p. 429 ss). Come
in Marco, 14, 1 si susseguono qui il primo giorno degli Azzimi e la Pasqua, ma
il senso rituale di allora è trasformato in un significato cristologico ed
esistenziale. Gli "azzimi" devono ora essere costituiti dai cristiani stessi,
liberati dal lievito del peccato. L'Agnello immolato, però, è Cristo.
In ciò
Paolo concorda perfettamente con la descrizione giovannea degli avvenimenti. Per
lui, morte e risurrezione di Cristo sono diventate così la Pasqua che perdura.
In base a ciò si può capire come l'ultima cena di Gesù, che non era solo un
preannuncio, ma nei Doni eucaristici comprendeva anche un'anticipazione di croce
e risurrezione, ben presto venisse considerata come Pasqua - come la sua Pasqua.
E lo era veramente.
***
E Giuda entrò nella notte
Dal quarto punto del terzo capitolo intitolato "La lavanda
dei piedi".
La pericope della lavanda dei piedi ci mette di fronte a
due differenti forme di reazione dell'uomo a questo dono: Giuda e Pietro. Subito
dopo aver accennato all'esempio, Gesù comincia a parlare del caso di Giuda.
Giovanni ci riferisce, al riguardo, che Gesù fu profondamente turbato e
dichiarò: "In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà" (13,
21).
Tre volte Giovanni parla del "turbamento" ovvero della "commozione" di
Gesù: presso il sepolcro di Lazzaro (cfr. 11, 33. 38); la "Domenica delle Palme"
dopo la parola sul chicco di grano morto, in una scena che richiama da vicino
l'ora del Monte degli ulivi (cfr. 12, 24-27); e infine qui. Sono momenti in cui
Gesù incontra la maestà della morte ed è toccato dal potere delle tenebre - un
potere che è suo compito combattere e vincere.
Ritorneremo a questa
"commozione" dell'anima di Gesù, quando rifletteremo sulla notte del Monte degli
ulivi. Torniamo al nostro testo. L'annuncio del tradimento suscita
comprensibilmente agitazione e, al contempo, curiosità tra i discepoli. "Uno dei
discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon
Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava. Ed egli,
chinandosi sul petto di Gesù, gli disse: "Signore, chi è?''. Rispose Gesù: "È
colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò''" (13, 23 ss). Per la
comprensione di questo testo bisogna anzitutto tener conto del fatto che per la
cena pasquale era prescritto lo stare adagiati a tavola.
Charles K. Barrett
spiega il versetto appena citato così: "I partecipanti ad una cena stavano
sdraiati sulla loro sinistra; il braccio sinistro serviva a sostenere il corpo;
quello destro era libero per essere usato. Il discepolo alla destra di Gesù
aveva quindi il suo capo immediatamente davanti a Gesù, e si poteva
conseguentemente dire che era adagiato presso il suo petto. Ovviamente era in
grado di parlare in confidenza con Gesù, ma il suo non era il posto d'onore più
alto; questo era situato a sinistra dell'ospitante. Il posto occupato dal
discepolo amato era nondimeno il posto di un intimo amico"; Barrett fa notare in
questo contesto che esiste una descrizione parallela in Plinio (p. 437).
Così
come è qui riportata, la risposta di Gesù è totalmente chiara. Ma l'evangelista
ci fa sapere che, tuttavia, i discepoli non capirono a chi si
riferiva.
Possiamo quindi supporre che Giovanni, ripensando all'evento, abbia
dato alla risposta una evidenza che essa per i presenti, sul momento, non aveva.
Il versetto 18 ci mette sulla giusta traccia. Qui Gesù dice: "Deve compiersi la
Scrittura: Colui che mangia il mio pane, ha alzato contro di me il suo calcagno"
(cfr. Salmi, 41, 10; 55, 14).
È questo lo stile caratteristico del parlare
di Gesù: con parole della Scrittura Egli allude al suo destino, inserendolo allo
stesso tempo nella logica di Dio, nella logica della storia della salvezza.
Successivamente tali parole diventano totalmente trasparenti; si rende chiaro
che la Scrittura descrive veramente il suo cammino - ma sul momento rimane
l'enigma. Inizialmente se ne arguisce soltanto che colui che tradirà Gesù è uno
dei commensali; diventa evidente che il Signore deve subire sino alla fine e fin
nei particolari il destino di sofferenza del giusto, un destino che appare in
molteplici modi soprattutto nei Salmi. Gesù deve sperimentare l'incomprensione,
l'infedeltà fino all'interno del cerchio più intimo degli amici e così "compiere
la Scrittura". Egli si rivela come il vero soggetto dei Salmi, come il "Davide",
dal quale essi provengono e mediante il quale acquistano senso.
Giovanni,
scegliendo al posto dell'espressione usata nella Bibbia greca per "mangiare" la
parola tro-gein con cui Gesù nel suo grande discorso sul pane indica il
"mangiare" il suo corpo e sangue, cioè il ricevere il Sacramento eucaristico
(cfr. Giovanni, 6, 54-58), ha aggiunto una nuova dimensione alla parola del
Salmo ripresa da Gesù come profezia sul proprio cammino.
Così la parola del
Salmo getta anticipatamente la sua ombra sulla Chiesa che celebra l'Eucaristia,
nel tempo dell'evangelista come in tutti i tempi: con il tradimento di Giuda la
sofferenza per la slealtà non è finita. "Anche l'amico in cui confidavo, che con
me divideva il pane, contro di me alza il suo piede" (Salmi, 41, 10). La rottura
dell'amicizia giunge fin nella comunità sacramentale della Chiesa, dove sempre
di nuovo ci sono persone che prendono "il suo pane" e lo tradiscono. La
sofferenza di Gesù, la sua agonia, perdura sino alla fine del mondo, ha scritto
Pascal in base a tali considerazioni (cfr. Pensées, VII, 553). Possiamo
esprimerlo anche dal punto di vista opposto: Gesù in quell'ora si è caricato del
tradimento di tutti i tempi, della sofferenza che viene in ogni tempo
dall'essere traditi, sopportando così fino in fondo le miserie della
storia.
Giovanni non ci dà alcuna interpretazione psicologica dell'agire di
Giuda; l'unico punto di riferimento che ci offre è l'accenno al fatto che Giuda,
come tesoriere del gruppo dei discepoli, avrebbe sottratto il loro denaro (cfr.
12, 6).
Quanto al contesto che ci interessa, l'evangelista dice soltanto
laconicamente: "Allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui" (13, 27). Ciò
che a Giuda è accaduto per Giovanni non è più psicologicamente spiegabile. È
finito sotto il dominio di qualcun altro: chi rompe l'amicizia con Gesù, chi si
scrolla di dosso il suo "dolce giogo", non giunge alla libertà, non diventa
libero, ma diventa invece schiavo di altre potenze - o piuttosto: il fatto che
egli tradisce questa amicizia deriva ormai dall'intervento di un altro potere,
al quale si è aperto.
Tuttavia, la luce che, provenendo da Gesù, era caduta
nell'anima di Giuda, non si era spenta del tutto. C'è un primo passo verso la
conversione: "Ho peccato", dice ai suoi committenti. Cerca di salvare Gesù e
ridà il denaro (cfr. Matteo, 27, 3 ss). Tutto ciò che di puro e di grande aveva
ricevuto da Gesù, rimaneva iscritto nella sua anima - non poteva
dimenticarlo.
La seconda sua tragedia - dopo il tradimento - è che non riesce
più a credere a un perdono. Il suo pentimento diventa disperazione. Egli vede
ormai solo se stesso e le sue tenebre, non vede più la luce di Gesù - quella
luce che può illuminare e superare anche le tenebre. Ci fa così vedere il modo
errato del pentimento: un pentimento che non riesce più a sperare, ma vede ormai
solo il proprio buio, è distruttivo e non è un vero pentimento.
Fa parte del
giusto pentimento la certezza della speranza - una certezza che nasce dalla fede
nella potenza maggiore della Luce fattasi carne in Gesù. Giovanni conclude il
brano su Giuda in modo drammatico con le parole: "Egli, preso il boccone, subito
uscì. Ed era notte" (13, 30).
Giuda esce fuori - in un senso più profondo.
Entra nella notte, va via dalla luce verso il buio; il "potere delle tenebre" lo
ha afferrato (cfr. Giovanni, 3, 19; Luca, 22, 53).