"Tempo Perso -
Alla ricerca di
senso nel quotidiano"
9 OTTOBRE 2011 - XXVIII DOMENICA - Anno A -
Prima lettura: Is 25,6-10 Salmo: 22 Seconda lettura: Fil 4,12-14.19-20
VANGELO secondo Matteo 22,1-14
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Diventare la Sposa del Figlio
1. Con questa domenica continuiamo ad ascoltare e meditare un’altra parabola del vangelo di Matteo: quella del banchetto nuziale (Mt 22,1-14), cui molti sono chiamati ma pochi gli eletti, cioè coloro che sanno rispondere con responsabilità e vivere con consapevolezza la loro vocazione e missione. Anche questa parabola ci parla del “Regno dei cieli”, cioè della presenza paterna/materna di Dio nel mondo e nella storia. Bisogna osservare che all’inizio del v. 1 Matteo fa intendere che questa parabola non è solo la ripresa di un discorso ma, molto di più, è una risposta: è la risposta di Gesù a coloro – i capi dei sacerdoti e i farisei – che cercavano di catturarlo (Mt 21,46); possiamo anche dire, stando alla trama della parabola, è la risposta del Padre al tentativo di cattura del Figlio. E in che modo risponde? 2. Il Padre risponde innanzitutto chiamando tutti al banchetto nuziale del Figlio. Si sa che le nozze del Figlio sono il suo sposalizio con l’umanità e, all’interno di essa, con la sua Chiesa. Il Padre inviando il Figlio come Sposo, vuole fare di noi la sua Sposa, vuole stabilire con tutta l’umanità e con noi credenti una relazione di comunione sponsale intima e profonda. E così, essere chiamati al banchetto nuziale del Figlio Sposo vuol dire diventare la sua Sposa. Ma qual è il significato del banchetto nuziale che Dio ha già preparato? Ce lo dice la pagina del profeta Isaia (prima lettura: Is 25,6-10a): è l’apertura all’amicizia con tutti i popoli della terra, nessuno escluso; è la condivisione, la solidarietà e la gratuità con tutti, senza particolarismi, localismi egoistici e privilegi di casta. È questo il banchetto della vita, il banchetto che elimina, anzi che “divora” la morte per sempre (Is 25,8), ovvero le proprie chiusure, e apre alla speranza e al senso vero della vita. È l’esperienza di gratuità, di condivisione e di solidarietà umana e in Cristo Gesù che l’apostolo Paolo ha sperimentato nei suoi rapporti fraterni con la comunità della città di Filippi (seconda lettura: Fil 4,12-14.19-20; sarebbe bene leggersi anche i vv. 15-18). La comunità lo ha aiutato e sostenuto nel suo ministero di evangelizzatore: questo gesto di gratuità e di solidarietà, per Paolo, è «un sacrificio gradito a Dio» (Fil 4,18), è il segno di una vita donata, dove al centro vi è Cristo e non i propri interessi. 3. Eppure la parabola evangelica ci dice che non sempre Cristo è lo Sposo, il centro effettivo della nostra vita personale ed ecclesiale. Spesso vi sono altri centri di interesse… Di fronte ai servi, cioè ai profeti, ai testimoni della fede che ogni giorno Dio ci invia per ricordarci che siamo chiamati alle nozze, che siamo chiamati a diventare la sua Sposa, molto spesso opponiamo il rifiuto volontario (Mt 22,3), o l’indifferenza, o la cura prioritaria degli interessi personali e di ciò che più ci gratifica (Mt 22,5), o ancora l’arroganza e la violenza (Mt 22,6). Di fronte al banchetto nuziale già pronto, segno della gratuità di Dio, molto spesso opponiamo il rifiuto di una vita cristiana vissuta nella logica sponsale della gratuità, del dono, della condivisione e della solidarietà (sono gli elementi costitutivi del banchetto nuziale), perché questo modo di vivere la vita cristiana è poco gratificantè, perché mettè al centro il proprio io, ma la vita degli altri. E anche quell’uomo che entra nella stanza nuziale senza la veste nuziale (Mt 22,12) ha opposto il suo rifiuto. Era usanza al quel tempo che prima di entrare nella stanza nuziale, ognuno era invitato a lavarsi e ad indossare l’abito nuziale. Quel tale, invece, ha scelto di partecipare alle nozze del Figlio continuando ad indossare le sue proprie vesti, a seguire le proprie consuetudini, i propri modi di fare, le proprie logiche, i propri criteri… Quel tale vuole essere un cristiano senza Cristo, senza “rivestirsi di Cristo” (Rm 13,14; Ef 4,23): vale a dire un cristiano – come tanti lo sono oggi – per tradizione, per abitudine, semplicemente per cultura, per salvaguardare una certa immagine di sé, per acquisire un certo consenso sociale e politico, e a volte anche per ottenere certi privilegi… 4. Come reagisce il Padre di fronte a questo rifiuto e, in particolare, di fronte a questo modo indegno (Mt 22,8) di vivere la vita cristiana? Dio si indigna, Dio si adira. È una reazione che troviamo al centro (Mt 22,7) e alla fine (Mt 22,13) della trama narrativa della parabola. L’ira di Dio, della quale molte volte si parla sia nell’Antico Testamento che nel Nuovo Testamento, è l’altra faccia della misericordia di Dio: egli è il Dio lento all’ira e grande nell’amore (cf. Sal 86,15; Rm 12,19). L’ira di Dio è la sua indignazione contro il peccato e le ingiustizie dell’uomo, ed è il suo modo paziente di correggere l’uomo e di salvarlo dal suo fallimento esistenziale. L’ira di Dio è, quindi, per la salvezza dell’uomo, una salvezza che passa attraverso la morte, perché è salvezza pasquale: si legga e si mediti Rm 5,6-11. Noi oggi facciamo fatica a percepire, nella fede, l’ira di Dio, il suo sdegno, perché ormai siamo così assuefatti alle ingiustizie, che ormai tutto ci sembra ovvio, scontato e normale. E, invece, è salutare, anche se doloroso, sentire – nella fede – l’ira di Dio che mette in discussione, “brucia” e fa “morire” senza pietà le nostre cattive abitudini, le nostre logiche insipienti, i nostri egoismi, le nostre arroganze e violenze, i nostri modi perversi di abitare la città, di tessere relazioni con gli altri. E questo avviene, lo ribadiamo, per la nostra salvezza, perché noi possiamo rinascere come uomini nuovi. È quanto accade, nella parabola, a quegli assassini e alle loro città (Mt 22,7); è quanto accade a quell’uomo che non ha la veste nuziale (Mt 22,13), il quale si zittisce, come a dire: si consegna “mani e piedi” per passare attraverso la dolorosa e tenebrosa morte della Pasqua del Signore, e così ritornare a vivere come uomo nuovo, come la Sposa del Signore, partecipando senza reticenze al banchetto nuziale del Figlio Sposo e Agnello, al banchetto della convivialità, della condivisione e della solidarietà, del quale l’eucaristia è segno e sacramento. Con il salmista (salmo responsoriale: Sal 23), allora, chiediamo a Dio, nostro Pastore, e al suo Figlio Sposo, il Pastore dei pastori (1Pt 5,4), di accompagnarci nel cammino della vita, di stare sempre accanto a noi e di far sentire, quando occorre, il suo sdegno salutare ogni volta che noi opponiamo alla sapienza del vangelo le nostre stupide e dannose insipienze. Lo chiediamo per noi e per tutta la Chiesa.
Egidio Palumbo |