IL TEOLOGO RAVASI Non una dieta né astinenza triste. Purificarsi per essere più liberi di Gianfranco Ravasi «Abbà Eulogio diceva al suo discepolo: Figlio, poco alla volta, esercitati a restringere il tuo ventre, grazie al digiuno. Infatti, come un otre disteso diventa più sottile, così ugualmente il ventre quando riceve molto cibo. Ma se ne riceve poco, si riduce ed esige sempre poco». Questa parabola dei Padri del deserto egiziano illustra in modo pittoresco la genesi ascetica del digiuno. Da questa radice universale si è ramificata una prassi religiosa che ha i suoi vertici nel Kippur ebraico, la grande giornata penitenziale, totale astensione alimentare, sessuale e lavorativa, nel Ramadan islamico, uno dei "cinque pilastri" della fede musulmana, e soprattutto nell'ininterrotta tradizione cristiana. La secolarizzazione moderna ha ridotto questo atto spirituale prima ancora che corporale alla dieta o alla platealità di certi digiuni politici più spettacolari che genuini o, peggio ancora, al dramma dell'anoressia. In realtà tutte le grandi religioni sono fermamente convinte che digiunare è un atto di sua natura simbolico, nel senso più genuino del termine. Pensiamo solo alla lapidaria e incisiva dichiarazione di Isaia: «È questo il digiuno che il Signore vuole: sciogliere le catene inique, togliere i legami dal giogo, rimandare liberi gli oppressi, spezzare ogni giogo, dividere il pane con l'affamato, introdurre in casa i miseri, i senza tetto, vestire uno che vedi nudo, non distogliere gli occhi da quelli della tua carne» (58, 6-7). Oppure si pensi all'ironia di Gesù nei confronti di un'astinenza meramente ritualistica che ti fa «assumere un'aria malinconica, sfigurare la faccia» a cui egli oppone paradossalmente «il profumarsi la testa e il lavarsi il viso» (Matteo 6, 16-17) perché il digiuno non sia farsa ma decisione intima che esprime autodisciplina, liberazione dal consumismo, dall'egoismo, dalla logica del possesso, dalle false necessità, ma anche purificazione dello spirito, controllo di sé, dominio dei sensi. Gli stessi Padri del deserto non esitavano a dichiarare che «è meglio bere vino con umiltà che bere acqua con orgoglio». Lo stesso islam con la voce di uno dei suoi grandi maestri mistici, al-Ghazali (1058-1111), ammoniva che il vero digiuno è astenersi dai peccati della lingua e degli altri membri, anzi è liberarsi da «tutto ciò che non è Dio». Persino la tradizione indù con Gandhi - che aveva dimostrato anche l'efficacia "politica" del digiuno - si muoveva in questa linea: «Il digiuno non ha senso se non educa alla sobrietà e se non è accompagnato da un costante desiderio di autodisciplina. Colui che ha soggiogato i sensi è il primo e più importante tra gli uomini. Tutte le virtù risiedono in lui». È, in questa luce, che il digiuno per la pace voluto da Giovanni Paolo II assume un segno universale esteriore perché l'umanità ne riscopra il valore esistenziale ultimo di purificazione da quel male estremo che è l'odio, la violenza, la guerra e ritrovi la purezza della fraternità solidale, della condivisione e dell'amore. Un'arma non offensiva che si erge contro le armi degli eserciti con una sua potenza trascendente, personale e sociale.
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