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Perché non tutta l'arte «religiosa» è adatta alle chiese

di Enzo Bianchi


La liturgia ha bisogno dell’arte, sia in quanto liturgia dell’incarnazione sia perché non si può concepire una liturgia senza arte.
La liturgia confessa la trasfigurazione della realtà e l’arte è capace di evocare in modo particolare questa trasformazione, di alludere a questo processo di metamorfosi che ha come soggetto lo Spirito santo. È dunque vero che la liturgia abbisogna del linguaggio dell’arte, espresso nell’architettura, nella scultura, nella pittura, nelle vetrate, nella musica. Nello stesso tempo, però, la liturgia cristiana deve discernere e giudicare quali opere d’arte possono entrare in essa e acquisire la capacità di essere concelebranti, di essere mistagogiche, in grado cioè di condurre al mistero di Cristo; oppure deve valutare se, al contrario, le opere d’arte costituiscono una contraddizione, un impedimento alla liturgia stessa. Non si dimentichi che c’è un’arte religiosa, a volte straordinaria, che però non è adeguata, non ha la capacità di entrare nella liturgia. Oggi regna molta confusione sull’argomento, e per questo ci si avventura troppo facilmente sulle vie della sperimentazione e dell’improvvisazione, ma tale modo di procedere contraddice lo statuto della liturgia cristiana. Occorre pertanto ricordare che una cosa è l’arte religiosa, anche cristiana, e un’altra è l’arte cristiana liturgica: quest’ultima è giudicata a partire dalla sua capacità mistagogica.
Non dovremmo mai dimenticare, in proposito, le parole dette da Henri Matisse (che destarono anche una certa sorpresa): «Tutta la mia opera è religiosa, ma non tutte le mie opere religiose possono stare in una chiesa». Qual è dunque il fine a cui deve tendere l’arte quando vuole entrare nella liturgia? Con la sua bellezza, della materia e dell’arte umana, è chiamata a narrare la bellezza della presenza e dell’azione del Signore vivente. Simboli e arte testimoniano la convinzione che l’invisibile esiste, che la liturgia è una finestra aperta sull’invisibile, che il credente vuole esercitarsi a vedere l’invisibile (Eb 11,27), per restare saldo in un mondo in cui il visibile sembra essere l’unica possibilità di lettura. In un mondo limitato al visibile, e di conseguenza all’empirico, simboli e arte chiedono di essere letti, di essere presenti per aiutare gli uomini a una comprensione più profonda e totale della loro vocazione. Detto altrimenti, il problema è quale simbolica, quale linguaggio e immaginario simbolico può attivare il desiderio spirituale dell’uomo attuale e aprire la sua mente e il suo immaginario verso l’eschaton e l’eterno, cosa già difficile di per sé, e oggi ancora di più per l’uomo contemporaneo costantemente di corsa, «in fuga».
Questa simbolica (e arte) nella liturgia deve avere come fine quello di suscitare la capacità di gratuità e di contemplazione, non di consumo o di possesso; deve saper introdurre al senso del mistero, che non è affatto l’inconoscibile, ma ciò per il quale l’interesse e la ricerca non si esauriscono mai, anche quando lo si conosce parzialmente: il mistero infatti, e in particolare il mistero di Dio, diviene sempre più interessante, seducente, capace di condurre a sé, nella misura in cui a esso ci si avvicina progressivamente e se ne conosce qualcosa. Occorrono una lunga disciplina e una costante educazione di ogni cristiano, perché possa percepire la vera bellezza nell’arte la quale, se è autentica, insegna, fa memoria, emoziona, plasma il cristiano stesso. E noi dobbiamo credere, insieme alla tradizione cristiana orientale, che l’arte non solo può narrare l’agere Dei, ma può anche riflettersi sul cristiano che la legge e la abita, trasfigurandolo di gloria in gloria, a immagine di colui che è la fonte di ogni bellezza.



(Fonte: “Avvenire” del 29 maggio 2011)



 

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