"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano

 





 

 Sulla terra rossa di Dadaab


La tendopoli degli affamati è la terza città del Kenya


di Francesco Calcagno, cooperante




In una impeccabile divisa blu l’hostess recita: «Welcome on board on Unhas flight, destination Dadaab Airstrip». L’aereo del programma umanitario delle Nazioni Unite decolla e dopo un’ora appare Dadaab. Non é cambiato niente, la solita terra rossa, poche chiazze verdi - non piove molto da queste parti - e tante forme circolari bianche. Una, due, tre… centinaia. Sono le tende dei nuovi arrivati, da gennaio ad oggi un flusso costante di quasi 20mila persone al mese. Una colonna umana che dalla Somalia attraversa il confine e raggiunge il Kenya. Da Liboi, cittá keniota al confine meridionale della Somalia, ci sono quasi 80 chilometri d’inferno per arrivare a Dadaab.
Dadaab è la destinazione, la loro terra promessa. Qui i profughi vengono assistiti, gli viene assegnato un pezzo di terra, hanno accesso alle razioni di cibo, all’acqua e alla legna per cucinare. Educazione primaria e secondaria, assistenza psicosociale.
L’affollamento. Non c’é abbastanza spazio a Dadaab. I tre campi originari - Ifo, Hagadera e Dagahaley - sono stati costruiti per circa 90mila rifugiati. A gennaio, qui c’erano già 300mila. Già si parlava di emergenza a fine 2010, prima che il flusso dei nuovi profughi facesse finalmente accendere i riflettori su Dadaab, provincia nordorientale del Kenya. Il governo di Nairobi chiede assistenza alla comunità internazionale perché non riesce a gestire questa grave crisi umanitaria. Nel frattempo, ha messo a disposizione altri due lotti di terra - Ifo Extension e Kambioos - lande desolate in questa regione semi arida della fascia di confine. Al primo centro di registrazione ci sono tante donne e bambini. Sono magrissimi. I bambini, come impauriti, scappano. Qualcuno lancia palloni per giocare a calcio, finalmente il timore è passato, sorridono e prendono a giocare a piedi scalzi tra la polvere, sembrano, magri come sono, farfalle in volo. Le donne restano in disparte coperte dai loro veli coloratissimi. Gli uomini raccontano che sono scappati via dalla siccità, dalla guerra, da un raccolto che non è mai cresciuto ma è rimasto bruciato, nella terra. Esuli di notte, percorrendo strade secondarie, per non essere visti, fermati e rispediti indietro.
Mohammed ha 7 anni, è orfano di padre ed è arrivato a Dadaab con la madre e due fratellini. Dice di non essere mai andato a scuola e di non aver mai ricevuto un’educazione formale perché la sua è una famiglia di pastori nomadi. Adesso che è a Dadaab vuole andare a scuola e ci indica in lontananza quella appena costruita dagli aiuti, pronta dal novembre scorso ma non ancora disponibile per i rifugiati perché per motivi legati alla sicurezza nazionale, il governo del Kenya non ha dato l’autorizzazione all’Unhcr a spostare i rifugiati in questa parte di deserto. È di qualche ora fa la notizia che il governo keniota darà il via libera nelle prossime 48 ore. I rifugiati saranno qui pazientemente a verificare.
Sisno è una donna di 30 anni, ma il suo volto ne dimostra 10 di più Parla con una voce forte. È da qui da 6 giorni, ha percorso più di 200 chilometri, viene dal basso Shabele, in Somalia. È scappata dalla guerra e dalla siccità, ha con sé due bambini di 5 e 10 anni. Loro la aiutano a portare l’acqua nella tenda appena ricevuta dall’Unhcr. Ha altri 5 figli che l’aspettano a casa. Ringrazia Allah se durante il tragitto non è stata violentata dai banditi: l’hanno solo derubata di tutti i suoi risparmi. Le é andata bene, racconta. Ha avuto la sua razione di cibo per i primi 15 giorni e dice di essere in Kenya proprio perché da sola non ce la fa e poi vuole mandare i suoi figli a scuola e anche lei vorrebbe imparare a leggere e a scrivere.
L’Unhcr ha rilocato in questo campo 10.900 individui, 2.535 famiglie. Dal 6 giugno ad oggi sono arrivate 75.949 persone, il trend di arrivi è intorno ai 1.500 al giorno. Numeri che fanno impressione. Dicono che Dadaab, con i suoi quasi 400mila abitanti, é diventata la terza città del Kenya. A Dadaab servono scuole e investimenti in educazione, metà della popolazione dei campi ha meno di 18 anni. Una generazione da formare perché possa ricostruire il proprio Paese.



(Fonte: “l'Unità” del 9 agosto 2011)



 

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