"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"  -  



  

Riflessione pubblicata su HOREB numero 54 – 3/2009    "Ospiti e ospitali" 



IL SEME DEL DISAGIO


 E DELL’INOSPITALITÀ
*

di Felice Scalia

 

Forse al peggio non c’è mai fine, ma ricorderemo i primi mesi del 2009 come tra i più difficili e turpi della nostra storia. Difficili per la crisi economica, turpi per il livello morale ostentato da parte di tanto popolo e dai suoi governanti nell’affrontare l’emergenza immigrati. Il montare dell’intolleranza, del razzismo, della chiusura a riccio della “brava gente italica”, contro stranieri poveri e rom, la superficialità nell’analisi di un fenomeno inarrestabile come il mescolamento dei popoli, la tronfia ipocrisia di chi raccattava voti usando la forza coi più deboli, coi disperati che scappano dall’Africa e da Paesi asiatici in guerra, tutto questo è stato davvero uno spettacolo stomachevole. Abbiamo riservato ai più poveri dei poveri del Pianeta, non si sa bene se il trattamento degli “esuberi umani”, o quello dei “rifiuti tossici”. Una sorta di trionfo della “linea dura” si è avuta quando all’inizio di maggio oltre 200 disgraziati, dopo essere stati raccolti in mare dalle motovedette italiane, furono rispediti "nell'inferno libico", poco curandoci del destino che aspettava quegli sventurati. Tra di loro anche 41 donne con gravi ustioni e con sintomi di disidratazione. «Li hanno mandati al massacro. Li uccideranno, uccideranno anche i loro bambini. Gli italiani non devono permettere tutto questo. In Libia ci hanno torturate, picchiate, stuprate, trattate come schiave per mesi. Meglio finire in fondo al mare. Morire nel deserto. Ma in Libia no». Così gridavano in quei giorni, con le lacrime agli occhi, le donne nigeriane, etiopi, somale, le "fortunate" che erano riuscite ad arrivare a Lampedusa nelle settimane precedenti alla “rispedizione”, e quelle reduci dal mercantile turco Pinar.

Dopo quei fatti venne il “pacchetto sicurezza”, il famigerato “pacchetto sicurezza”. Noi ingenui fummo costernati, ma ci dissero che il legislatore deve “ascoltare la gente”, e la gente ha paura, “ vive nella paura”. L’Italia — ci spiegarono — non può permettersi buonismi, non può accogliere tutti, deve assicurare… sicurezza prima di tutto ai “suoi”. Non si possono lasciare le persone oneste nella paura di dovere consegnare al balordo il telefonino, di essere scippate della pensione, di subire una aggressione in casa, di girare di sera “tra quelle facce nere”, di perdere il lavoro…

Fu così che il clandestino diventò automaticamente un delinquente braccato dalle “ronde”. Oggi diventa “clandestino” anche un immigrato con regolare permesso di soggiorno che, perdendo il lavoro, non riesce a trovarne subito un altro. E così l’Italia fu additata al mondo, anche dall’ONU, come un Paese di arruffoni, di fantasiosi paranoidi trasformati in legislatori, di  uomini di basso profilo, piuttosto ignoranti ed inaffidabili, che fanno carta straccia dei diritti umani. Il tutto frutto della paura della gente, del bisogno di sicurezza.

 

Barbari di ritorno?

 “In principio” dunque, “en arché” di questa inospitalità, di questo modo spiccio di trattare un problema che “fa tremare vene e polsi”, la paura. Alla radice di questo disagio nel dirci italiani e cristiani, l’imbarbarimento da paura.

Ma quale paura?

Aprendo un qualsiasi testo di psicologia si trova che la paura è una emozione primitiva di reazione ad una minaccia, ad un pericolo, che spinge, con modificazioni anche fisiche, ad un comportamento di fuga, di difesa, di nascondimento, in vista di una preservazione della vita. A rigore di termini la paura è un istinto che accompagna l’umanità ed è stata anche madre della vita, qualcosa di positivo dunque. Forse se siamo vivi è perché abbiamo avuto paura di avventurarci da soli per strada quando eravamo piccoli, oppure di mettere le dita nella presa elettrica.

Esistono però paure che insorgono anche in mancanza di un pericolo reale, che persistono anche quando la probabilità di un male concreto è pressoché nulla. In questo caso più che di paura parliamo di “fobia”, di panico, di angoscia, e l’esito pare la mortificazione della vita, un atteggiamento che può portare molto lontano, fino a quella paura di vivere che conduce alla morte.

La paura sana è null’altro che un attaccamento all’esistenza che fiuta quanto alla vita si oppone, e ci fa affrontare con saggezza i pericoli. È una paura benedetta. Sa di vita avere paura di non amare più, di perdere la stima, di non essere bravi a sufficienza per guidare una moto; ci fa attenti sui nostri sentimenti e sullo spostamento dell’asse di ciò che veramente per noi conta. Ha anche il sapore della vita avere paura che in noi si spenga la fede; potremmo diventare così più attenti nel portare con noi, lungo le strade della vita e nella infinita pazienza per vedere sorgere “il regno”, riserve di olio «in piccoli orci» (Mt 25,4).

La paura patologica, al contrario, ci blocca, tarpa le nostre ali e ci fa schiavi della legge più che creature libere e figli amati dal Dio di Gesù. Si pensi a quanto sia devastante il terrore infantile di perdere l’amore della mamma (persona di riferimento primario), che fa precipitare, anche a quell’età, in una vita senza senso, caotica. La paura può anche giungere a forme perniciose, mortali, al confine con la disperazione. Si possono toccare tali gradi di panico, di confusione, di rimpianti per un passato vissuto nella paura, e dunque non-vissuto, o vissuto non come ci si aspettava, si può arrivare a tale grado di disperazione, che in qualche modo può balenare un’idea di distruttività anche riguardo a quanto è stato bello, ma nella sua finitezza ha tradito i nostri ideali. Si capiscono così certi odi contro l’umanità e la stessa chiesa. La sindrome di chi butta l’acqua della vasca assieme al bambino. E non c’è per nulla bisogno di gesti clamorosi. Si distrugge ogni segno del passato, ogni testimonianza vivente di mete verso cui tendevamo ma che abbiamo mancato. Quanto ordinariamente consideravamo con orgoglio mal celato, frutto della nostra creatività, ciò di cui andavamo fieri (anche solo in cuor nostro) oggi ci pare orribile perché la verità delle verità ci si para dinnanzi: vince la sconfitta, essa è l’unica dea, il resto è solo illusione. Chi ha osato avere fede, chi ha scommesso tutto se stesso nel progetto del “regno” ed ora è costretto a ri-credersi, gettando al macero il suo cammino verso una sequela totalizzante del Cristo, sta in fondo uccidendo se stesso.

Quando la paura patologica diventa orizzonte di vita, non ci si meravigli se si ritorni a schemi arcaici che fanno pensare ad un vero e proprio imbarbarimento. Si abdica all’uso della ragione ed è come se si ripercorressero i meandri della filogenesi: non più uomini ma primati urlanti nella giungla.

 

Homo metuens?

 Nella sua forma odierna la paura è una realtà complessa e sfuggente che nasce insieme dall’incertezza e da minacce incombenti. Zygmunt Bauman parla di “paura liquida” in cui semplicemente si affonda. In troppi vediamo la vita come una lunga lotta contro poteri ostili ed invincibili; una guerra già persa in partenza[1]. La conseguenza è il diffondersi degli “attacchi di panico”, l’ansia nevrotica, la sindrome di assedio, sintomi preoccupanti di paranoia, di manie di persecuzione. Una bella stagione per le ditte farmaceutiche e gli studi di psichiatri e psicologi…

Rimane intatto però il nostro quesito iniziale: che razza di paura ci attanaglia? Coltiviamo “sane paure” o ci nutriamo di “angosce nevrotiche”? Difficile dirlo. Forse possiamo tranquillamente parlare di un diffuso “clima di paura”. Si tratta di una esperienza quotidiana che trova un riscontro in campi impensati, soprattutto tra le giovani vite. I giovani di oggi sembrano diventati cinici per nascondere a se stessi il volto della loro angoscia di fronte ad un mondo troppo complicato, atroce, inospitale anche per essi che sarebbero “il futuro della società”. Tremano questi ragazzi, giungono a rifiutare la vita anche appena adolescenti, sentono la necessità di “sballare” per non pensare, per ridere o stordirsi. Si fanno anche prendere dal panico al solo pensiero del loro futuro lavorativo o affettivo. Di chi fidarsi? È possibile oggi credere ancora all’amore tanto da progettare qualcosa “insieme” e “per sempre”? Molti giovani non si sposano e non vogliono figli per la paura di non reggere ad un impegno stabile o di non essere all’altezza del compito. Vivono così alla giornata, cioè di paura mascherata di menefreghismo.

Stiamo allora dicendo che in Italia si assiste alla diffusione di una sindrome fobica, al dilagare di una marea maleodorante di disperazione? Che cioè va diventando sempre più comune l’angoscia nevrotica? Pensiamo proprio questo a volte. Così ci viene difficile, di fronte a sintomi tanto eterogenei della paura, che la soluzione stia nel “pacchetto sicurezza”.

Ma oggi ci investe un dubbio. Se la paura patologica è da tempo un “affare”, in un mondo dove tutto è business[2], c’è qualcuno che può avere interesse a far nascere paure là dove non dovrebbero sorgere? Come ipotesi non si può scartare. Per esempio, “qualcuno” (individuo, lobby, partito politico…) può avere interesse a suscitare panico per vestire i panni del “salvatore” ed ottenere consensi e guadagni. Oppure per impiantare una industria della paura e ricavarne enormi vantaggi economici e militari. O anche per dare una qualche copertura di bene pubblico ad una guerra che ha finalità solo private. E ancora, per distogliere l’attenzione dai veri nodi del vivere comune dirottandolo su “nemici” costruiti ad arte. Ci chiediamo insomma se la nascita della paura patologica non sia diventata una sorta di strategia politica.

È esperienza di ogni giorno: la gente — e noi con essa — è vittima di almeno tre tipi di paure. Alcune giustificate, altre amplificate, altre create ad arte, appunto per rendere governabile un mondo sempre più complicato e contraddittorio.

L’esito è paradossale (per avere un mondo in pace si fanno guerre, e per combattere la paura si fa vivere in un perpetuo terrore il mondo intero) ma il meccanismo purtroppo è efficace. Quando un popolo è veramente alle strette con i problemi quotidiani della vita, quando la sicurezza sociale è messa in dubbio dalla rabbia della gente che deve assistere a vessazioni e sfruttamenti senza numero, proprio da parte di chi dovrebbe gestire il bene comune, allora il ricorso ad un sentimento primitivo come la paura può essere la carta risolutiva, certo per evitare disastri maggiori, probabilmente per controllare efficacemente il consenso.

Perché il meccanismo scatti c’è bisogno che la paura sia creata ad arte, esasperata. Se il livello si alza e da qualche parte si solleva il grido “Si salvi chi può!” allora è certo che nessuno andrà a cercare i responsabili dei disastri (militari, economici, finanziari…); questi supermanager o questi uomini politici che hanno creato la disfatta, sono al sicuro. La gente ha altro da fare: salvare il salvabile relegando la ricerca di giustizia a tempi migliori, se mai verranno. Così si rivela tristemente vero: la paura (come la bugia, il silenzio imposto, l’occultamento della verità) eretta a sistema di governo. 

 

Razzismo dei cristiani?

 Purtroppo non abbiamo finito coi nostri dubbi. Da anni vediamo nascere proprio in questa nostra Italia (un giorno nelle stive di “vapori” maleodoranti sull’oceano in cerca di fortuna nel nuovo mondo, e poi tra binari di tutta Europa con valigie legate con lo spago) qualcosa di disgustoso. In questa “culla della civiltà” vediamo serpeggiare — anche tra sedicenti cristiani, anche tra preti — una xenofobia sempre più chiara, un razzismo, perfino una voglia di schiavizzare che ci fa paura[3]. Se siamo giunti al “pacchetto sicurezza” della primavera 2009 è perché i cristiani furono ciechi, e neppure la CEI ebbe nulla da dire sulla nefasta legge Bossi-Fini che aprì ufficialmente la pista della vergogna.

Come mai siamo arrivati a tanto?

Colpa della globalizzazione si dice, della “deregulation” economica, della “finanza creativa”, dell’avidità di gente spietata e potente. Non saremo noi a dire che tutto questo non c’entra, ma forse dobbiamo chiederci, prima di tutto, qual è lo schema mentale che soggiace a chi provoca l’anarchia ed a chi la subisce, ai carnefici ed alle vittime.

Se è vero che, sotto varie forme, il “bellum omnium contra omnes” percorre il pianeta, è plausibile pensare che a dirigere i nostri rapporti interumani sia non più la ricerca del bene comune (che sottintende una qualche uguaglianza e fraternità) da parte di uomini saggi, ma la percezione dell’altro come “nemico”[4].

In modo piuttosto esplicito e colorito, questa convinzione è stata espressa da J. P. Sartre con la celebre affermazione “l’uomo è l’inferno di ogni altro uomo”. Riedizione del “homo homini lupus” di hobbesiana memoria. Ma forse la teorizzazione lucida e micidiale — fino a portare l’autore sul banco dei processati nazisti a Norimberga — è di Carl Schmitt.

 

L’altro è il mio nemico

 Da anni si va lamentando il tramonto di quella triade che, dalla rivoluzione francese in poi, sembrava un dato acquisito per l’umanità intera: “libertà, uguaglianza, fraternità”. A fare crollare il castello è stata una interpretazione di “libertà” in senso meramente individualistico e… “muscolare”: si doveva lasciare al “forte” tutta la libertà di cui aveva bisogno per affermarsi. La vittoria del forte avrebbe finito per essere una vittoria per tutti. In quest’ottica — è ovvio — niente uguaglianza e niente di niente giustizia unica per tutti, solidarietà, civiltà. Figurarsi se ci possa essere posto per il cristianesimo.

La fraternità così è in frantumi. Fino alla teorizzazione della sua fine. Convinciamoci — scrive Schmitt — che l’altro è essenzialmente un “estraneo”, dunque un tuo“hostis”, forse non attuale, ma certo potenziale. Discendiamo da Caino, da un fratricida, e questa se non è storia, è certamente racconto di un archetipo umano con cui fare i conti. L’altro è, per il fatto che esiste, la fonte della tua paura. L’amicizia, la prossimità, sono solo illusorie tregue tra due “ostilità”. Ed io, che sono “l’altro degli altri”, sono nemico di chi mi è estraneo, fonte inconsapevole della paura di sconosciuti, anche quando mi pare di trovarmi nella cerchia di amici.

Detto con chiarezza: se in superficie noi umani ci dimeniamo tra ospitalità ed ostilità, tra amici e nemici, tra servi e padroni, tra vinti e vincitori, tra ricerca di sicurezza e bisogno profondo di fiducia e di abbandono, in profondità lo sappiamo tutti che essenziale è la “certezza” arcaica che “l’altro” è per natura sua uno che vive “sugli altri”, e “degli altri”, uno che fondamentalmente mi è “estraneo”, “straniero”, fuori di me, dunque una creatura da osservare con sospetto e da sottomettere, anche quando – all’occorrenza – si ostentano modi civili e perfino “amorevoli”.

Possiamo forse dire che “l’altro”, in quanto “straniero”, è sempre in bilico tra l’accoglienza come “hospes” o la negazione come “hostis”. Si trova ad un “confine” che l’io deve sempre sorvegliare. Qualsiasi “io”; sia quello del servo che quello del padrone, dell’amico accolto o del nemico rifiutato. La diffidenza, la non-fiducia dunque dell’uomo nell’uomo, è essenziale nel rapporto interumano fino a far dire all’Autore che “l’opposizione escludente” costituisce l’essenza stessa del concetto di “politico”.[5] Che è quanto dire che essa costituisce l’essenza stessa dell’atteggiamento dell’uomo quando entra in società o quando si accosta a qualcuno che è fuori di lui, cioè “estraneo”. Ciò spiega molta politica del mondo occidentale centrata sul bisogno di sicurezza del cittadino o di una nazione. Bisogno alimentato giorno dopo giorno con l’indicazione del nemico da cui ci può giungere un attacco e con la conseguente paura nevrotica che la possibilità della sola minaccia è in grado di produrre[6]. Bisogno soddisfatto da leggi che prevedono anche l’annientamento definitivo dell’”altro”[7].

La situazione appare nella sua intrinseca contraddizione. Per certi versi l’uomo  non può non entrare in società, non può non accostarsi all’altro. Per altri versi se ne deve distaccare perché nemico. Come se nel cuore umano ci fosse una scissione: io sono amico ed io nemico di me. Io amico di me stesso che cerca gli altri, ed io nemico di me stesso che va a cercare nemici. Non ci si meraviglia se da questa lacerazione interiore nasca il fenomeno così comune della “proiezione”: attribuisco agli altri quelle parti di me che non condivido e che non accetto anche se mi costituiscono. Il mio “io attivo” ne conosce uno “passivo” che rigetta; così il meridionale diventa “per natura” il fannullone da me aborrito. Il mio io ufficiale (così altruista e amorevole…) conosce le inclinazioni vergognose delle chiusure a riccio nella idolatria di me stesso e del più cinico egoismo. Così il povero “estraneo” del Terzo Mondo diventa l’inguaribile invidioso del mio benessere e l’attentatore della mia serenità. La sua presenza, anche inerme, può essere presentata da loschi individui interessati all’operazione, come una trappola mortale per la nostra sicurezza, può farci sentire “estranei” a casa nostra, seminando spaesamento ed angoscia. In casi simili l’orrore da parte dei “buoni” è sempre in agguato, e si possono approvare i raid di balordi perfino ai campi nomadi.

Una simile visione può sembrare pessimista, tale da doverci portare alla criminalizzazione di ogni estraneo ed all’annientamento di ogni nemico. Certo tutto il ‘900 è stato percorso dall’idea di un “nemico assoluto”, dalla ricerca di “Imperi del male” o di “assi del male”, fino appena ad ieri, all’epoca Bush[8]. Non ci sembra che tutto questo sia ineluttabile perché, a determinate condizioni, posso accogliere l’estraneo come “ospite” e rendermi conto che la linea di confine oltre la quale c’era il nemico da escludere, può essere modificata fino ad includere tra gli “amici” il nemico di ieri[9].

Non ci addentriamo ulteriormente in tali meandri. Questo è il mondo in cui viviamo. Questo sottofondo concettuale dobbiamo sempre averlo presente quando affrontiamo qualsiasi aspetto contingente della nostra realtà: dalla crisi economica a quella occupazionale, dalla crisi della famiglia al crollo dell’economia mondiale. Ci sembra comunque importante notare che concetti come amico, nemico, esclusione, inclusione, guerra, pace, sottomissione, collaborazione, possono essere declinati in molti modi, a volte anche molto ambigui, fino a far apparire benefica ed includente una misura che in realtà è di esclusione. Si pensi all’ambiguità della funzione del Fondo Monetario Internazionale, o a quello della Banca Mondiale. Si pensi che si può restare nel colonialismo pur essendone usciti. E che si può impiantare una guerra con la scusa di portare la democrazia o la vera religione[10].

 

Se questa è civiltà

 L’altro come “inferno”, come “nemico”, come “lupo” assassino…

Dopo 2000 anni e passa di cristianesimo, non pare ci si sia allontanati troppo dall’”uomo della clava”, dal pitecantropo delle caverne o delle selve. Sarebbe da catalogare tra le parole fiabesche ed inattuabili di quell’illuso che fu Gesù Cristo, uno dei punti cardine del suo messaggio: «Vos autem fratres estis!».

E tuttavia stiamo male. Siamo tutti “fuori luogo”, estranei al nostro mondo. Niente è più nostro, neppure la terra che abitiamo, la casa che abbiamo costruito per i nostri figli, i luoghi dove pensiamo di incontrare Dio. Se di fronte a questo sentirci minacciati abbiamo inventato la naturalità della minaccia e del conflitto anche armato, fino alla distruzione “preventiva” del nemico, se il destino di benessere della nostra Italia lo abbiamo legato alla pulizia etnica di poche migliaia di Rom e dei disperati che giungono dalla Libia, qualcosa ci dice che questa non è la verità, e che forse va presa sul serio una qualche parola che ci giunge da lontano, proprio da un “estraneo”, da quel Gesù che ci sembra voce di un silenzio assordante e anche minaccioso, ma che forse indica le uniche strade di salvezza: accoglienza, ospitalità condivisione. Parole dure per l’Occidente, inammissibili, proibite, eppure, chi sa, vere. Perché per gli individui come per i popoli nulla è più odiato di quanto potrebbe finalmente guarirci. Queste parole del Cristo, almeno ascoltate con qualche attenzione, non sarebbero la soluzione, l’uscita dalla paura, ma rappresenterebbero quel condurci sulla soglia del buon senso, se non della ragionevolezza, per prendere in considerazione anche “altro” dopo le inutili voci del  panico coltivato ad arte e così generoso di frutti a favore di quei macellai della storia che sempre ci hanno tenuto a farsi considerare “Grandi”.

Nessuno contesta la necessità di affrontare il problema con un sano realismo, con la forza della ragione, sapendo che il flusso migratorio ha ragioni storiche ed esige una giustizia che vede l’Occidente sul banco degli imputati e l’unico obbligato a restituire il mal tolto. Similmente non si contesta che con i delinquenti mascherati da “richiedenti asilo” bisogna usare la repressione e dunque la forza. Vogliamo sottolineare la necessità di riconoscere che troppo spesso ci siamo fatti scudo della ragionevolezza dell’uso della forza per scadere in abuso, e che il delirio del nostro potere militare ci ha fatto credere onnipotenti e padroni di diritto del mondo e di tutti i suoi inermi abitanti.

A volte ci vengono idee strane in testa: il migrante è colui che ci sta facendo tornare alla nostra “casa” umana dopo che ce ne eravamo abbondantemente allontanati; il migrante è colui che ritorna lui sì a casa, nel mondo che è casa sua, dopo che noi, veri clandestini e predatori, abituati a “vincere senza avere ragione”, avevamo reso inabitabile ed assassina la sua terra. È proprio così strano che gli spaesati, i “senza patria”  cerchino “una pietra su cui poggiare il capo”? Meritano per questo di essere “colati a picco” per salvaguardare la serenità degli italiani “brava gente”?

 

Tentiamo di concludere

 Secondo alcuni la storia dell’umanità (quella di prima era “preistoria”) comincia così: «Adamo ed Eva ebbero due figli, Caino ed Abele. Erano fratelli ma si rivelarono nemici. Abele non ebbe futuro, Caino, sì, e noi siamo suoi figli». Così la storia rivelerebbe la nostra natura: siamo fratricidi.

Non è la prima volta che si legge a comodo la Bibbia. Perché non leggere il seguito? Dopo avere ucciso il fratello, Dio non lascia in pace Caino. Non accetta l’accaduto come un fatto ovvio, come è ovvio che la pecora mangi l’erba. Al contrario Dio incalza Caino con una domanda ed esige una risposta: «Dov’è Abele, tuo fratello, che ne hai fatto?» La natura viene richiamata come fatto originario: siete fratelli, non nemici. Come se Dio dicesse: «Tu, Caino, eri responsabile, custode di tuo fratello, tu dovevi rispondere  della sua vita come lui della tua, perché eravate fratelli. Poiché hai rifiutato questa responsabilità, di te non posso dire bene, tu sei maledetto».

Ma c’è ancora di più. Non diventa affatto “naturale” quel gesto fratricida che potrebbe provocare altro sangue. Dio interrompe quella deriva imponendo su Caino un segno indelebile che lo sottrae alla vendetta: «Nessuno uccida Caino!».

Ritornare a quella assunzione di responsabilità che è prima di ogni libertà, prima di ogni soggetto che si illude di potersi rinchiudere in se stesso, ri-accogliere l’altro come fratello perché tale primariamente è, riscoprire che la fraternità umana naturale precede l’inimicizia culturale, è l’inizio necessario per un riscatto di questo nostro tempo già abbastanza segnato dal sangue degli innocenti e dalla paura eretta ad assurdo sistema di vita.

 

Felice Scalia

via Ignatianum, 23

98121 Messina



[1] «Il credo di troppa gente non ebbe fin qui che due articoli: “Non vi è nulla da fare” –  “Tutto ciò che si fa non serve a nulla”»; scriveva così 65 anni fa una vittima designata di Dachau. Pare che la schiera di questi sfiduciati/disperati sia enormemente cresciuta.

[2] Si pensi a quanto circola di “sistemi di sicurezza familiare”, antifurti, sistemi antirapina, fino alla lotta al terrorismo, alla nuova crociata dei “civili” che fanno e disfanno liste di nazioni “canaglia-terroriste”, fino alla caccia al rom, alle “ronde” contro l’immigrato, ai pattugliamenti militari contro i disgraziati che le guerre fomentate da noi in Africa spingono verso le nostre coste.

 

[3] Il 15 maggio 2009, sulle prime pagine dei quotidiani italiani, l’allarme del pericolo razzista lanciato dal Presidente Giorgio Napolitano. Pericolo mai scomparso, come si constata ogni giorno sfogliando la cronaca di città e paesi nostrani. E per quanto riguarda il fenomeno dei “nuovi schiavi” , si pensi alle centinaia di “desaparecidos” anche polacchi, tra i lavoratori stagionali in Puglia, o alla condizione (ritenuta “normale”) di moltissimi camionisti costretti a condizioni di lavoro disumane.

[4] Da ciò la convinzione che la guerra non è mai la soluzione — come ordinariamente si fa credere al popolo — ma il problema stesso dell’umanità. In questa prospettiva sono interessanti le riflessioni di Eugen Drewermann soprattutto in Guerra e cristianesimo: la spirale dell’angoscia, Edizioni Raetia, Trento 1999.

[5] Cf. C. Resta, L’estraneo, Il Melangolo, Genova 2008, 14 ss.

[6] La “sicurezza” è devastante dal punto di vista individuale. Freud scrive che “l’uomo civile ha barattato una parte della sua felicità con un po’ di sicurezza. Essa tuttavia è una vera industria con un fatturato in costante crescita sia per i fabbricanti ed i commercianti di armi che per i venditori di sistemi di sicurezza ad uso di abitazioni e complessi privati.

[7] Questo faceva scrivere a Guenther Anders quell’amaro libretto della Giuntina (Firenze, 1995) Noi, figli di Eichmann: La cultura occidentale segue passo passo, con modi subdoli,quello che Hitler operò in modo vistoso e radicale.

[8] Perfino Giovanni Paolo II vedeva nell’Est “l’impero del male”. Così in un infelice passo dell’enciclica sullo Spirito Santo.

[9] Cf. L. Boff, Spiritualità per un altro mondo possibile. Ospitalità, Convivenza, Convivialità, Queriniana, Brescia 2009, si addentra in questi problemi di ospitalità ed esclusione da un punto di vista teologico-spirituale.

[10] Il papa, da cardinale, esclude il concetto di esportabilità di democrazia e fede (cf. M Politi, La chiesa del no, Mondadori, Milano 2009, 92), ma da papa va a festeggiare un suo compleanno in casa Bush, come un amico di famiglia. Con questo gesto ha dato ad alcuni l’impressione di avallare un delitto come la guerra “ingiusta e gratuita” contro l’Iraq  del Presidente americano, oppure la coincidenza di politica americana col cristianesimo secondo la mentalità tipica di Georg Bush. Non condividiamo questa lettura delle cose. Anche il papa può avere una sua vita privata. Per noi contano molto di più i pronunziamenti pubblici, i discorsi tenuti in Africa, le linee annunziate della sua prossima enciclica sociale; cose tutte che sottolineano la distanza tra la santa sede e l’Impero.




 
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