"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano" -
IL SEME DEL DISAGIO
di Felice Scalia
Forse al peggio non c’è
mai fine, ma ricorderemo i primi mesi del 2009 come tra i più difficili e turpi
della nostra storia. Difficili per la crisi economica, turpi per il livello
morale ostentato da parte di tanto popolo e dai suoi governanti nell’affrontare
l’emergenza immigrati. Il montare dell’intolleranza, del razzismo, della
chiusura a riccio della “brava gente italica”, contro stranieri poveri e rom,
la superficialità nell’analisi di un fenomeno inarrestabile come il
mescolamento dei popoli, la tronfia ipocrisia di chi raccattava voti usando la
forza coi più deboli, coi disperati che scappano dall’Africa e da Paesi
asiatici in guerra, tutto questo è stato davvero uno spettacolo stomachevole.
Abbiamo riservato ai più poveri dei poveri del Pianeta, non si sa bene se il
trattamento degli “esuberi umani”, o quello dei “rifiuti tossici”. Una sorta di
trionfo della “linea dura” si è avuta quando all’inizio di maggio oltre 200
disgraziati, dopo essere stati raccolti in mare dalle motovedette italiane,
furono rispediti "nell'inferno libico", poco curandoci del destino
che aspettava quegli sventurati. Tra di loro anche 41 donne con gravi ustioni e
con sintomi di disidratazione. «Li hanno mandati al massacro. Li uccideranno,
uccideranno anche i loro bambini. Gli italiani non devono permettere tutto
questo. In Libia ci hanno torturate, picchiate, stuprate, trattate come schiave
per mesi. Meglio finire in fondo al mare. Morire nel deserto. Ma in Libia no».
Così gridavano in quei giorni, con le lacrime agli occhi, le donne nigeriane,
etiopi, somale, le "fortunate" che erano riuscite ad arrivare a
Lampedusa nelle settimane precedenti alla “rispedizione”, e quelle reduci dal
mercantile turco Pinar. Dopo quei fatti venne
il “pacchetto sicurezza”, il famigerato “pacchetto sicurezza”. Noi ingenui
fummo costernati, ma ci dissero che il legislatore deve “ascoltare la gente”, e
la gente ha paura, “ vive nella paura”. L’Italia — ci spiegarono — non può
permettersi buonismi, non può accogliere tutti, deve assicurare… sicurezza
prima di tutto ai “suoi”. Non si possono lasciare le persone oneste nella paura
di dovere consegnare al balordo il telefonino, di essere scippate della
pensione, di subire una aggressione in casa, di girare di sera “tra quelle
facce nere”, di perdere il lavoro… Fu così che il clandestino
diventò automaticamente un delinquente braccato dalle “ronde”. Oggi diventa “clandestino”
anche un immigrato con regolare permesso di soggiorno che, perdendo il lavoro,
non riesce a trovarne subito un altro. E così l’Italia fu additata al mondo,
anche dall’ONU, come un Paese di arruffoni, di fantasiosi paranoidi trasformati
in legislatori, di uomini di basso
profilo, piuttosto ignoranti ed inaffidabili, che fanno carta straccia dei
diritti umani. Il tutto frutto della paura della gente, del bisogno di
sicurezza. Barbari di
ritorno? Ma quale paura? Aprendo un qualsiasi testo
di psicologia si trova che la paura è una emozione primitiva di reazione ad una
minaccia, ad un pericolo, che spinge, con modificazioni anche fisiche, ad un
comportamento di fuga, di difesa, di nascondimento, in vista di una
preservazione della vita. A rigore di termini la paura è un istinto che
accompagna l’umanità ed è stata anche madre della vita, qualcosa di positivo
dunque. Forse se siamo vivi è perché abbiamo avuto paura di avventurarci da
soli per strada quando eravamo piccoli, oppure di mettere le dita nella presa
elettrica. Esistono però paure che
insorgono anche in mancanza di un pericolo reale, che persistono anche quando
la probabilità di un male concreto è pressoché nulla. In questo caso più che di
paura parliamo di “fobia”, di panico, di angoscia, e l’esito pare la
mortificazione della vita, un atteggiamento che può portare molto lontano, fino
a quella paura di vivere che conduce alla morte. La paura sana è null’altro
che un attaccamento all’esistenza che fiuta quanto alla vita si oppone, e ci fa
affrontare con saggezza i pericoli. È una paura benedetta. Sa di vita avere
paura di non amare più, di perdere la stima, di non essere bravi a sufficienza
per guidare una moto; ci fa attenti sui nostri sentimenti e sullo spostamento
dell’asse di ciò che veramente per noi conta. Ha anche il sapore della vita
avere paura che in noi si spenga la fede; potremmo diventare così più attenti
nel portare con noi, lungo le strade della vita e nella infinita pazienza per
vedere sorgere “il regno”, riserve di olio «in piccoli orci» (Mt 25,4). La paura patologica, al
contrario, ci blocca, tarpa le nostre ali e ci fa schiavi della legge più che creature
libere e figli amati dal Dio di Gesù. Si pensi a quanto sia devastante il
terrore infantile di perdere l’amore della mamma (persona di riferimento
primario), che fa precipitare, anche a quell’età, in una vita senza senso,
caotica. La paura può anche giungere a forme perniciose, mortali, al confine
con la disperazione. Si possono toccare tali gradi di panico, di confusione, di
rimpianti per un passato vissuto nella paura, e dunque non-vissuto, o vissuto
non come ci si aspettava, si può arrivare a tale grado di disperazione, che in
qualche modo può balenare un’idea di distruttività anche riguardo a quanto è
stato bello, ma nella sua finitezza ha tradito i nostri ideali. Si capiscono
così certi odi contro l’umanità e la stessa chiesa. La sindrome di chi butta
l’acqua della vasca assieme al bambino. E non c’è per nulla bisogno di gesti
clamorosi. Si distrugge ogni segno del passato, ogni testimonianza vivente di
mete verso cui tendevamo ma che abbiamo mancato. Quanto ordinariamente consideravamo
con orgoglio mal celato, frutto della nostra creatività, ciò di cui andavamo
fieri (anche solo in cuor nostro) oggi ci pare orribile perché la verità delle
verità ci si para dinnanzi: vince la sconfitta, essa è l’unica dea, il resto è
solo illusione. Chi ha osato avere fede, chi ha scommesso tutto se stesso nel
progetto del “regno” ed ora è costretto a ri-credersi, gettando al macero il
suo cammino verso una sequela totalizzante del Cristo, sta in fondo uccidendo
se stesso. Quando la paura patologica
diventa orizzonte di vita, non ci si meravigli se si ritorni a schemi arcaici
che fanno pensare ad un vero e proprio imbarbarimento. Si abdica all’uso della
ragione ed è come se si ripercorressero i meandri della filogenesi: non più
uomini ma primati urlanti nella giungla. Homo
metuens? Rimane intatto però il
nostro quesito iniziale: che razza di paura ci attanaglia? Coltiviamo “sane
paure” o ci nutriamo di “angosce nevrotiche”? Difficile dirlo. Forse possiamo
tranquillamente parlare di un diffuso “clima di paura”. Si tratta di una
esperienza quotidiana che trova un riscontro in campi impensati, soprattutto
tra le giovani vite. I giovani di oggi sembrano diventati cinici per nascondere
a se stessi il volto della loro angoscia di fronte ad un mondo troppo
complicato, atroce, inospitale anche per essi che sarebbero “il futuro della
società”. Tremano questi ragazzi, giungono a rifiutare la vita anche appena
adolescenti, sentono la necessità di “sballare” per non pensare, per ridere o
stordirsi. Si fanno anche prendere dal panico al solo pensiero del loro futuro
lavorativo o affettivo. Di chi fidarsi? È possibile oggi credere ancora
all’amore tanto da progettare qualcosa “insieme” e “per sempre”? Molti giovani
non si sposano e non vogliono figli per la paura di non reggere ad un impegno
stabile o di non essere all’altezza del compito. Vivono così alla giornata,
cioè di paura mascherata di menefreghismo. Stiamo allora dicendo
che in Italia si assiste alla diffusione di una sindrome fobica, al dilagare di
una marea maleodorante di disperazione? Che cioè va diventando sempre più
comune l’angoscia nevrotica? Pensiamo proprio questo a volte. Così ci viene
difficile, di fronte a sintomi tanto eterogenei della paura, che la soluzione stia
nel “pacchetto sicurezza”. Ma oggi ci investe un
dubbio. Se la paura patologica è da tempo un “affare”, in un mondo dove tutto è
business[2], c’è
qualcuno che può avere interesse a far nascere paure là dove non dovrebbero
sorgere? Come ipotesi non si può scartare. Per esempio, “qualcuno” (individuo,
lobby, partito politico…) può avere interesse a suscitare panico per vestire i
panni del “salvatore” ed ottenere consensi e guadagni. Oppure per impiantare
una industria della paura e ricavarne enormi vantaggi economici e militari. O
anche per dare una qualche copertura di bene pubblico ad una guerra che ha
finalità solo private. E ancora, per distogliere l’attenzione dai veri nodi del
vivere comune dirottandolo su “nemici” costruiti ad arte. Ci chiediamo insomma
se la nascita della paura patologica non sia diventata una sorta di strategia
politica. È esperienza di ogni
giorno: la gente — e noi con essa — è vittima di almeno tre tipi di paure.
Alcune giustificate, altre amplificate, altre create ad arte, appunto per
rendere governabile un mondo sempre più complicato e contraddittorio. L’esito è paradossale (per
avere un mondo in pace si fanno guerre, e per combattere la paura si fa vivere
in un perpetuo terrore il mondo intero) ma il meccanismo purtroppo è efficace.
Quando un popolo è veramente alle strette con i problemi quotidiani della vita,
quando la sicurezza sociale è messa in dubbio dalla rabbia della gente che deve
assistere a vessazioni e sfruttamenti senza numero, proprio da parte di chi
dovrebbe gestire il bene comune, allora il ricorso ad un sentimento primitivo
come la paura può essere la carta risolutiva, certo per evitare disastri
maggiori, probabilmente per controllare efficacemente il consenso. Perché il meccanismo
scatti c’è bisogno che la paura sia creata ad arte, esasperata. Se il livello si
alza e da qualche parte si solleva il grido “Si salvi chi può!” allora è certo
che nessuno andrà a cercare i responsabili dei disastri (militari, economici,
finanziari…); questi supermanager o questi uomini politici che hanno creato la
disfatta, sono al sicuro. La gente ha altro da fare: salvare il salvabile
relegando la ricerca di giustizia a tempi migliori, se mai verranno. Così si
rivela tristemente vero: la paura (come la bugia, il silenzio imposto,
l’occultamento della verità) eretta a sistema di governo. Razzismo
dei cristiani? Come mai siamo arrivati
a tanto? Colpa della
globalizzazione si dice, della “deregulation” economica, della “finanza
creativa”, dell’avidità di gente spietata e potente. Non saremo noi a dire che
tutto questo non c’entra, ma forse dobbiamo chiederci, prima di tutto, qual è
lo schema mentale che soggiace a chi provoca l’anarchia ed a chi la subisce, ai
carnefici ed alle vittime. Se è vero che, sotto
varie forme, il “bellum omnium contra
omnes” percorre il pianeta, è plausibile pensare che a dirigere i nostri
rapporti interumani sia non più la ricerca del bene comune (che sottintende una
qualche uguaglianza e fraternità) da parte di uomini saggi, ma la percezione
dell’altro come “nemico”[4]. In modo piuttosto esplicito
e colorito, questa convinzione è stata espressa da J. P. Sartre con la celebre
affermazione “l’uomo è l’inferno di ogni altro uomo”. Riedizione del “homo
homini lupus” di hobbesiana memoria. Ma forse la teorizzazione lucida e
micidiale — fino a portare l’autore sul banco dei processati nazisti a
Norimberga — è di Carl Schmitt. L’altro
è il mio nemico La fraternità così è in
frantumi. Fino alla teorizzazione della sua fine. Convinciamoci — scrive
Schmitt — che l’altro è essenzialmente un “estraneo”, dunque un tuo“hostis”, forse non attuale, ma certo
potenziale. Discendiamo da Caino, da un fratricida, e questa se non è storia, è
certamente racconto di un archetipo umano con cui fare i conti. L’altro è, per
il fatto che esiste, la fonte della tua paura. L’amicizia, la prossimità, sono
solo illusorie tregue tra due “ostilità”. Ed io, che sono “l’altro degli altri”,
sono nemico di chi mi è estraneo, fonte inconsapevole della paura di
sconosciuti, anche quando mi pare di trovarmi nella cerchia di amici. Detto con chiarezza: se
in superficie noi umani ci dimeniamo tra ospitalità ed ostilità, tra amici e
nemici, tra servi e padroni, tra vinti e vincitori, tra ricerca di sicurezza e
bisogno profondo di fiducia e di abbandono, in profondità lo sappiamo tutti che
essenziale è la “certezza” arcaica che “l’altro” è per natura sua uno che vive
“sugli altri”, e “degli altri”, uno che fondamentalmente mi è “estraneo”,
“straniero”, fuori di me, dunque una creatura da osservare con sospetto e da
sottomettere, anche quando – all’occorrenza – si ostentano modi civili e
perfino “amorevoli”. Possiamo forse dire che
“l’altro”, in quanto “straniero”, è sempre in bilico tra l’accoglienza come “hospes” o la negazione come “hostis”. Si trova ad un “confine” che
l’io deve sempre sorvegliare. Qualsiasi “io”; sia quello del servo che quello
del padrone, dell’amico accolto o del nemico rifiutato. La diffidenza, la non-fiducia
dunque dell’uomo nell’uomo, è essenziale nel rapporto interumano fino a far
dire all’Autore che “l’opposizione escludente” costituisce l’essenza stessa del
concetto di “politico”.[5] Che è
quanto dire che essa costituisce l’essenza stessa dell’atteggiamento dell’uomo
quando entra in società o quando si accosta a qualcuno che è fuori di lui, cioè
“estraneo”. Ciò spiega molta politica del mondo occidentale centrata sul
bisogno di sicurezza del cittadino o di una nazione. Bisogno alimentato giorno
dopo giorno con l’indicazione del nemico da cui ci può giungere un attacco e
con la conseguente paura nevrotica che la possibilità della sola minaccia è in
grado di produrre[6].
Bisogno soddisfatto da leggi che prevedono anche l’annientamento definitivo
dell’”altro”[7]. La situazione appare
nella sua intrinseca contraddizione. Per certi versi l’uomo non può non entrare in società, non può non
accostarsi all’altro. Per altri versi se ne deve distaccare perché nemico. Come
se nel cuore umano ci fosse una scissione: io sono amico ed io nemico di me. Io
amico di me stesso che cerca gli altri, ed io nemico di me stesso che va a cercare
nemici. Non ci si meraviglia se da questa lacerazione interiore nasca il
fenomeno così comune della “proiezione”: attribuisco agli altri quelle parti di
me che non condivido e che non accetto anche se mi costituiscono. Il mio “io attivo”
ne conosce uno “passivo” che rigetta; così il meridionale diventa “per natura”
il fannullone da me aborrito. Il mio io ufficiale (così altruista e amorevole…)
conosce le inclinazioni vergognose delle chiusure a riccio nella idolatria di
me stesso e del più cinico egoismo. Così il povero “estraneo” del Terzo Mondo
diventa l’inguaribile invidioso del mio benessere e l’attentatore della mia
serenità. La sua presenza, anche inerme, può essere presentata da loschi
individui interessati all’operazione, come una trappola mortale per la nostra
sicurezza, può farci sentire “estranei” a casa nostra, seminando spaesamento ed
angoscia. In casi simili l’orrore da parte dei “buoni” è sempre in agguato, e
si possono approvare i raid di balordi perfino ai campi nomadi. Una simile visione può
sembrare pessimista, tale da doverci portare alla criminalizzazione di ogni
estraneo ed all’annientamento di ogni nemico. Certo tutto il ‘900 è stato
percorso dall’idea di un “nemico assoluto”, dalla ricerca di “Imperi del male”
o di “assi del male”, fino appena ad ieri, all’epoca Bush[8]. Non ci
sembra che tutto questo sia ineluttabile perché, a determinate condizioni,
posso accogliere l’estraneo come “ospite” e rendermi conto che la linea di
confine oltre la quale c’era il nemico da escludere, può essere modificata fino
ad includere tra gli “amici” il nemico di ieri[9]. Non ci addentriamo
ulteriormente in tali meandri. Questo è il mondo in cui viviamo. Questo
sottofondo concettuale dobbiamo sempre averlo presente quando affrontiamo
qualsiasi aspetto contingente della nostra realtà: dalla crisi economica a
quella occupazionale, dalla crisi della famiglia al crollo dell’economia
mondiale. Ci sembra comunque importante notare che concetti come amico, nemico,
esclusione, inclusione, guerra, pace, sottomissione, collaborazione, possono
essere declinati in molti modi, a volte anche molto ambigui, fino a far
apparire benefica ed includente una misura che in realtà è di esclusione. Si
pensi all’ambiguità della funzione del Fondo Monetario Internazionale, o a
quello della Banca Mondiale. Si pensi che si può restare nel colonialismo pur
essendone usciti. E che si può impiantare una guerra con la scusa di portare la
democrazia o la vera religione[10]. Se
questa è civiltà Dopo 2000 anni e passa
di cristianesimo, non pare ci si sia allontanati troppo dall’”uomo della
clava”, dal pitecantropo delle caverne o delle selve. Sarebbe da catalogare tra
le parole fiabesche ed inattuabili di quell’illuso che fu Gesù Cristo, uno dei
punti cardine del suo messaggio: «Vos
autem fratres estis!». E tuttavia stiamo male.
Siamo tutti “fuori luogo”, estranei al nostro mondo. Niente è più nostro,
neppure la terra che abitiamo, la casa che abbiamo costruito per i nostri
figli, i luoghi dove pensiamo di incontrare Dio. Se di fronte a questo sentirci
minacciati abbiamo inventato la naturalità della minaccia e del conflitto anche
armato, fino alla distruzione “preventiva” del nemico, se il destino di
benessere della nostra Italia lo abbiamo legato alla pulizia etnica di poche
migliaia di Rom e dei disperati che giungono dalla Libia, qualcosa ci dice che
questa non è la verità, e che forse va presa sul serio una qualche parola che
ci giunge da lontano, proprio da un “estraneo”, da quel Gesù che ci sembra voce
di un silenzio assordante e anche minaccioso, ma che forse indica le uniche
strade di salvezza: accoglienza, ospitalità condivisione. Parole dure per
l’Occidente, inammissibili, proibite, eppure, chi sa, vere. Perché per gli
individui come per i popoli nulla è più odiato di quanto potrebbe finalmente
guarirci. Queste parole del Cristo, almeno ascoltate con qualche attenzione,
non sarebbero la soluzione, l’uscita dalla paura, ma rappresenterebbero quel
condurci sulla soglia del buon senso, se non della ragionevolezza, per prendere
in considerazione anche “altro” dopo le inutili voci del panico coltivato ad arte e così generoso di
frutti a favore di quei macellai della storia che sempre ci hanno tenuto a
farsi considerare “Grandi”. Nessuno contesta la
necessità di affrontare il problema con un sano realismo, con la forza della
ragione, sapendo che il flusso migratorio ha ragioni storiche ed esige una
giustizia che vede l’Occidente sul banco degli imputati e l’unico obbligato a
restituire il mal tolto. Similmente non si contesta che con i delinquenti
mascherati da “richiedenti asilo” bisogna usare la repressione e dunque la
forza. Vogliamo sottolineare la necessità di riconoscere che troppo spesso ci
siamo fatti scudo della ragionevolezza dell’uso della forza per scadere in
abuso, e che il delirio del nostro potere militare ci ha fatto credere
onnipotenti e padroni di diritto del mondo e di tutti i suoi inermi abitanti. A volte ci vengono idee
strane in testa: il migrante è colui che ci sta facendo tornare alla nostra “casa”
umana dopo che ce ne eravamo abbondantemente allontanati; il migrante è colui
che ritorna lui sì a casa, nel mondo che è casa sua, dopo che noi, veri
clandestini e predatori, abituati a “vincere senza avere ragione”, avevamo reso
inabitabile ed assassina la sua terra. È proprio così strano che gli spaesati,
i “senza patria” cerchino “una pietra su cui poggiare il capo”?
Meritano per questo di essere “colati a picco” per salvaguardare la serenità
degli italiani “brava gente”? Tentiamo
di concludere Non è la prima volta
che si legge a comodo la Bibbia. Perché non leggere il seguito? Dopo avere
ucciso il fratello, Dio non lascia in pace Caino. Non accetta l’accaduto come
un fatto ovvio, come è ovvio che la pecora mangi l’erba. Al contrario Dio incalza
Caino con una domanda ed esige una risposta: «Dov’è Abele, tuo fratello, che ne
hai fatto?» La natura viene richiamata come fatto originario: siete fratelli,
non nemici. Come se Dio dicesse: «Tu, Caino, eri responsabile, custode di tuo
fratello, tu dovevi rispondere della sua
vita come lui della tua, perché eravate fratelli. Poiché hai rifiutato questa
responsabilità, di te non posso dire bene, tu sei maledetto». Ma c’è ancora di più.
Non diventa affatto “naturale” quel gesto fratricida che potrebbe provocare
altro sangue. Dio interrompe quella deriva imponendo su Caino un segno
indelebile che lo sottrae alla vendetta: «Nessuno uccida Caino!». Ritornare a quella
assunzione di responsabilità che è prima di ogni libertà, prima di ogni
soggetto che si illude di potersi rinchiudere in se stesso, ri-accogliere
l’altro come fratello perché tale primariamente è, riscoprire che la fraternità
umana naturale precede l’inimicizia culturale, è l’inizio necessario per un
riscatto di questo nostro tempo già abbastanza segnato dal sangue degli
innocenti e dalla paura eretta ad assurdo sistema di vita. Felice
Scalia via
Ignatianum, 23 98121
Messina [1] «Il credo di troppa gente non ebbe
fin qui che due articoli: “Non vi è nulla da fare” – “Tutto ciò che si fa non serve a nulla”»; scriveva
così 65 anni fa una vittima designata di Dachau. Pare che la schiera di questi
sfiduciati/disperati sia enormemente cresciuta. [2] Si pensi a
quanto circola di “sistemi di sicurezza familiare”, antifurti, sistemi
antirapina, fino alla lotta al terrorismo, alla nuova crociata dei “civili” che
fanno e disfanno liste di nazioni “canaglia-terroriste”, fino alla caccia al
rom, alle “ronde” contro l’immigrato, ai pattugliamenti militari contro i
disgraziati che le guerre fomentate da noi in Africa spingono verso le nostre
coste. [3] Il 15 maggio 2009, sulle prime
pagine dei quotidiani italiani, l’allarme del pericolo razzista lanciato dal
Presidente Giorgio Napolitano. Pericolo mai scomparso, come si constata ogni
giorno sfogliando la cronaca di città e paesi nostrani. E per quanto riguarda
il fenomeno dei “nuovi schiavi” , si pensi alle centinaia di “desaparecidos”
anche polacchi, tra i lavoratori stagionali in Puglia, o alla condizione
(ritenuta “normale”) di moltissimi camionisti costretti a condizioni di lavoro
disumane. [4] Da ciò la convinzione che la
guerra non è mai la soluzione — come ordinariamente si fa credere al popolo —
ma il problema stesso dell’umanità. In questa prospettiva sono interessanti le
riflessioni di Eugen Drewermann soprattutto in Guerra e cristianesimo: la spirale dell’angoscia, Edizioni Raetia,
Trento 1999. [5] Cf. C. Resta, L’estraneo,
Il Melangolo, Genova 2008, 14 ss. [6] La “sicurezza” è devastante dal
punto di vista individuale. Freud scrive che “l’uomo civile ha barattato una
parte della sua felicità con un po’ di sicurezza. Essa tuttavia è una vera
industria con un fatturato in costante crescita sia per i fabbricanti ed i
commercianti di armi che per i venditori di sistemi di sicurezza ad uso di
abitazioni e complessi privati. [7] Questo faceva scrivere a
Guenther Anders quell’amaro libretto della Giuntina (Firenze, 1995) Noi, figli di Eichmann: La cultura
occidentale segue passo passo, con modi subdoli,quello che Hitler operò in modo
vistoso e radicale. [8] Perfino Giovanni Paolo II vedeva
nell’Est “l’impero del male”. Così in un infelice passo dell’enciclica sullo
Spirito Santo. [9] Cf. L. Boff, Spiritualità
per un altro mondo possibile. Ospitalità,
Convivenza, Convivialità, Queriniana, Brescia 2009, si addentra in questi
problemi di ospitalità ed esclusione da un punto di vista teologico-spirituale. [10] Il papa, da cardinale, esclude
il concetto di esportabilità di democrazia e fede (cf. M Politi, La chiesa del no, Mondadori, Milano 2009, 92), ma da papa va a
festeggiare un suo compleanno in casa Bush, come un amico di famiglia. Con
questo gesto ha dato ad alcuni l’impressione di avallare un delitto come la
guerra “ingiusta e gratuita” contro l’Iraq
del Presidente americano, oppure la coincidenza di politica americana
col cristianesimo secondo la mentalità tipica di Georg Bush. Non condividiamo
questa lettura delle cose. Anche il papa può avere una sua vita privata. Per
noi contano molto di più i pronunziamenti pubblici, i discorsi tenuti in
Africa, le linee annunziate della sua prossima enciclica sociale; cose tutte
che sottolineano la distanza tra la santa sede e l’Impero.
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