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La strage di innocenti nel Corno d'Africa


di Joaquín Navarro Valls



Ormai da alcuni giorni, ben oltre le questioni europee dei mercati finanziari, tutto il mondo è stato sconvolto dalla grande carestia che sta attraversando il Corno d'Africa. Sicuramente non è facile confrontarsi con una tragedia umana di così vasta portata, specialmente in un contesto culturale come il nostro. Eppure, sebbene non si tratti purtroppo di una novità, è quanto mai fondamentale arrestarsi un momento a osservare cosa stia accadendo laggiù.
In una zona del continente nero già provata da profonde carestie stagionali, giudicate normali dagli esperti solo perché producono ogni anno qualche milione di morti, è esplosa un'eccezionale emergenza umanitaria. Rapidamente si è giunti ad un flagello impietoso. È sufficiente pensare, come ha reso noto l'Unicef, che nella sola Somalia la metà della popolazione non potrà sussistere senza urgenti – immediati - aiuti esterni. Questo fa comprendere quanto sia grave la condizione di bambini, malati e anziani. L'infanzia è colpita con oltre 2 milioni di neonati costretti a una condizione disperata. Le Nazioni Unite, il 2 agosto, hanno diffuso un bollettino raccapricciante, molto simile agli effetti che provocava nel Medioevo la peste nera o in epoca moderna il colera.
Recita il dispaccio: «La siccità nel Corno d'Africa ha devastato vaste aree del Kenia, Etiopia, Somalia e Gibuti, lasciando circa 12,4 milioni di persone nella carestia, in mancanza di cibo e acqua».
Sarebbe ingiusto, d'altronde, non riconoscere i molti segnali di risposta provenuti dalle varie organizzazioni umanitarie: Onu, singoli governi e molteplici istituzioni laiche e religiose di tutto il mondo. Tanto per stare all'Italia, la Cei si è mossa da subito con una rapida e ingente raccolta di fondi, e lo stesso sta facendo il ministero degli Esteri.
Dato, però, che la catastrofe appare incontenibile, è essenziale non liberarsi la coscienza troppo alla svelta, cercando, piuttosto, di avviare una seria riflessione sul significato d'insieme che una sciagura umanitaria di questo tipo dovrebbe avere sulla nostra condotta di vita. Intanto, guardando dietro i numeri e le cifre per vedere la dura realtà che si nasconde. La tendenza psicologica istintiva, invero, è commuoversi per il vicino di casa che è improvvisamente mancato o il malcapitato che ha un incidente sotto i nostri occhi, lasciando sullo sfondo, come se si trattasse di un'innocua finzione, situazioni che sembrano non riguardarci soltanto perché sono lontane geograficamente.
Anzi, il peso senza spettacolarità di questo disastro richiede un'azione diretta, magari silenziosa, da parte di tutti. Sì, perché questi milioni di persone prive del minimo indispensabile contraddicono duramente lo sfarzo consumistico di idolatrare le risorse che hanno le società opulente. Ed è perciò inevitabile sentirsi direttamente interpellati nel proprio amor di sé, e, cosa che conta ancora di più, nel tipo di logica utilizzata personalmente per regolare l'economia.
In linea teorica tutti i grandi Paesi hanno la buona intenzione di rivolgersi con umanità verso la miseria. Ma poi devono resistere, per non dire soccombere, davanti al proprio debito pubblico, davanti al credito maturato verso gli Stati, oppure davanti alla crisi del sistema bancario e della finanza globale che obbligano all'oculatezza nei risparmi. Tutti fattori di grande importanza, dal punto di vista della considerazione macroeconomica e monetaristica, ma assolutamente marginali se paragonati al valore incommensurabile che ha la vita anche solo di una persona costretta a morire di fame.
Nel modo comune di parlare si dice che, di fronte a certi obiettivi, «non si deve guardare in faccia a nessuno». Ora, purtroppo, la reazione che provoca lo sguardo disgraziato di un innocente involontariamente condannato a perire di stenti è o quello di «guardare in faccia qualcuno», oppure distrarsi senza umanità in "qualcosa" che non vale niente di niente. Si può decidere, però, pacificamente di disinteressarsi ai bisogni dell'altro solo fin quando questi non sono essenziali per la sua sopravvivenza. Dopodiché, la distrazione diventa omissione, l'ignoranza disprezzo e la parsimonia cinica crudeltà. Certo, nessuno ha in mano le ricette per combattere drammi universali di questa entità. Ma ognuno potrebbe affrontare il proprio individualismo di petto, rendendo socialmente indispensabile un generoso impegno economico per arginare diseguaglianze insopportabili. La soluzione, mi sembra, è contenuta in una frase: sperperare l'inutile per far sopravvivere l'utile. E prendo quest'espressione da La Pira, scritta quaranta anni fa. Ma Ghandi aveva anche scritto qualcosa di simile.
Non è importante sapere quali saranno le ripercussioni nei bilanci pubblici, e neanche quali effetti deriveranno per i risparmi di domani. Audacemente e con intelligenza è primario impegnarsi subito a salvare la pelle di coloro che sono ancora in vita. Anche perché, nonostante gli accurati studi dei premi nobel sul Prodotto Interno Lordo, né l'Europa né l'America hanno sciolto la crisi, mentre la salvezza anche di una sola persona è un capitale economico, produttivo e umano di evidente valore oggettivo, oltretutto a portata di mano.
La vicenda del Corno d'Africa ci offre, insomma, un'occasione sul male dell'Occidente, che è, alla fine, riassumibile in una sola e unica parola: egoismo.
Quando saremo pronti a spenderci per le altrui difficoltà, allora avremo imboccato la strada risanatrice per conquistare quei mercati che non possono nascere senza che esistano prima delle persone vive, in grado di svilupparsi, crescere e prosperare.



(Fonte: “la Repubblica” del 9 agosto 2011)



 

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