Domenica 25 settembre mi sono trovato a partecipare, in una grande città italiana, ad un convegno di studio sul tema della laicità. Nel gruppo di studio su “laicità e Chiesa” era emerso lo sconcerto di molti cattolici per il silenzio dell’episcopato italiano sul degrado della politica e sul comportamento deplorevole di politici che amano professarsi cristiani. Tanto che, rientrando in sede la mattina seguente, mi era venuto di buttar giù, in treno, una lettera aperta al presidente del Consiglio Berlusconi, sollecitato in particolare dal fatto di essere un vescovo emerito, più libero quindi dai condizionamenti dei confratelli ancora in servizio, esposti ad essere contestati dalla parte dei loro fedeli particolarmente legati al premier; ed in più quasi autorizzato dal fatto che nella mia storia di vescovo ha inciso l’uso delle lettere aperte, soprattutto lo scambio di lettere con Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano (v. Adista nn. del 10/7/1976 e 17/10/1977, ndr), per cui venne affibbiata anche a me l’etichetta di “cattocomunista”, dimenticando sia che avevo scritto in antecedenza al democristiano Zaccagnini e continuato con il socialista Craxi, sia che la mia riflessione andava commisurata come reazione al mondo – se si può dire – “cattofascista” in cui ero cresciuto.
Partivo, nella lettera, da una valutazione della situazione sociale attuale e mi facevo interprete del sentimento di tanti fedeli che – proprio per la sua ribadita professione cristiana – aspettavano da lui una testimonianza di coerenza.
Di fronte all’affermazione di aver sempre fatto di tutto per aiutare le richieste del mondo cattolico nelle sue iniziative, osservavo che troppi fedeli ormai, consapevoli che l’ideale specifico del Vangelo nella vita sociale (e questo è il fondamentale principio “non negoziabile”) è quello della solidarietà, del rendersi vicini ed efficaci nel sostegno ai più poveri ed ai più disagiati, chiedevano di tradurre laicamente questo ideale in norme politiche. Essi osservavano come le leggi di quegli anni, fino all’ultima finanziaria, si riversassero pesantemente sugli anelli più deboli della società, sulla vita delle famiglie normali, sui giovani precari, salvaguardando il benessere di chi ha raggiunto livelli sociali e finanziari elevati, e si rendevano conto che il comprensivo programma di “non mettere le mani in tasca ai cittadini” veniva vanificato dalle tante altre mani che finiscono col compiere quell’azione, così che quando i singoli si mettono le mani nelle proprie tasche le trovino vuote! Esprimevo altresì la speranza che si manifestasse la coerenza cristiana in leggi che favorissero un maggiore equilibrio e che venissero incontro alla maggioranza delle nostre famiglie, ai tanti giovani che guardano con incertezza al loro avvenire, che devono ritardare il progetto di una famiglia in attesa di un lavoro stabile e di allocazioni possibili. Perché in realtà diventa ipocrita sbandierare anche la difesa della famiglia (magari dopo essere passati da una a un’altra) e non far niente per aiutare le famiglie nel loro inizio e nel loro sviluppo (l’Italia oggi è tra i minimi mondiali di natalità!).
Poi, avendo saputo che nel pomeriggio di quel lunedì, 26 settembre, avrebbe avuto inizio a Roma il Consiglio Permanente dei vescovi italiani, ho atteso di ascoltare cosa avrebbe detto il card. Bagnasco, presidente della Cei, introducendo il Consiglio. E questa volta il card. Bagnasco ha parlato, senza far nomi (tanto che i governativi hanno spiegato che il cardinale parlava in generale), ma chiaramente alludendo al presidente del Consiglio ed al suo stile di vita, privato ma non troppo, come succede per chiunque abbia dei compiti elevati.
Bagnasco non è entrato in valutazioni politiche – come a me era capitato, sia pure opinativamente, chiudendo la lettera – ma il suo intervento è stato determinante, perché ha smentito l’accusa di un silenzio che sembrava la contropartita di professioni di principi cristiani e di sovvenzioni consistenti alle attività di organismi confessionali. In realtà quello che emergeva dall’intervento pur misuratodel presidente della Cei era che la Chiesa deve stare dalla parte dei poveri, tanto più in tempo di difficoltà diffuse, in cui sembra che i governi – di tutto il mondo, ma in particolare dell’Italia – stiano dalla parte dei ricchi e dei privilegiati, facendo pagare alla maggioranza della gente il prezzo di una crisi che è stata provocata dall’avidità e dall’egoismo di chi già godeva di benessere e di privilegi.
Quanto poi ai comportamenti privati (che nel mondo odierno non possono rimanere tali) rilevavo – nel discorso del card. Bagnasco –, come l’esempio di chi approfitta dei propri mezzi e di leggi appropriate per soddisfare i propri interessi e le proprie voglie, non può non influire sul modo di pensare e di agire soprattutto dei giovani, indotti a pensare che quello possa costituire l’ideale di vita a cui tendere con ogni mezzo. Tanto più nella Chiesa italiana, che si è proposta per dieci anni il tema dell’evangelizzazione, credo debba tenersi presente che la prima, fondamentale evangelizzazione è realizzata dall’esempio – di coerenza, di onestà, di adempimento dei propri compiti – dato da chi si professa cristiano, soprattutto se si trova in posizione di rilievo. Le vicende personali – non solo nell’ambito sessuale, ma anche in quello della legalità – di persone molto in vista influiscono in realtà sullo sviluppo dell’opinione pubblica, diffondendo la convinzione che con i soldi (quelli che il Vangelo chiamava con preoccupazione “mammona”) si può ottenere tutto, e che quello che conta è “farla franca”, che tutto cioè si può fare se si riesce a garantirsene la possibilità e la insindacabilità. Come facciamo a contestare i giovani nel loro atteggiamento, da una parte di disinteressarsi della vita politica, dall’altra di voler emergere con ogni mezzo, se non diamo certezze di onorare la legalità, o se non diamo loro il chiaro modello che la vita, il lavoro, l’amore vanno perseguiti con impegno, perseveranza, fiducia?
Anche da parte delle Chiese – dalle più piccole comunità alle Chiese nazionali o alla Chiesa universale – la prima evangelizzazione è il chiaro esempio di non cercare la ricchezza ed il potere: meglio rinunciare a qualche privilegio che dare il sospetto che, sia pure a fin di bene, anche la Chiesa è serva di mammona, cioè dei soldi e del prestigio. Purtroppo non siamo riusciti, nel Concilio, a far proclamare apertamente che la Chiesa – come aveva anticipato Giovanni XXIII –, che è sempre stata la Chiesa “per” i poveri, deve rivelarsi sempre più la Chiesa “dei” poveri.
Nella lettera che ho scritto chiedevo scusa all’onorevole presidente della lettera aperta, che sembrava una predica fuori luogo (o fuori persona) mentre voleva esprimere l’attesa da parte del mondo cristiano (soprattutto da quello che l’appoggia), che gli ideali cristiani, ricevuti nella sua formazione salesiana e sempre proclamati, si trasformassero – certo laicamente – in atteggiamenti sia personali, sia sociali e politici rivolti alla grande maggioranza di una popolazione che soffre, anche mentre politicamente lo sostiene, e che spera in un avvenire di maggiore equità e di più larga fraternità.
Concludevo (e questa era un’intrusione politica, che il cardinale ha saggiamente omesso) ipotizzando che, per non esporsi ad un pubblico confronto con la sua professione cristiana, il presidente non volesse sottrarsi ad ogni contestazione lasciando il suo incarico. E che comunque avremmo pregato per lui e per le sue decisioni così importanti per la nostra Italia.
Ma il card. Bagnasco ha parlato chiaramente (i toscani dicono «a buon intenditore poche parole»), e la lettera aperta è rimasta “lettera chiusa”.