Nel discorso pronunciato al Quirinale il 24 giugno 2005, nella sua prima visita ufficiale, Benedetto XVI formulava un riconoscimento solenne della «sana laicità dello Stato, in virtù della quale le realtà temporali si reggono secondo le norme loro proprie». Ma il papa subito precisava che la laicità dello Stato è legittima «senza tuttavia escludere quei riferimenti etici che trovano il loro fondamento ultimo nella religione». E rafforzava questo paradigma aggiungendo che «l’autonomia della sfera temporale non esclude un’intima armonia con le esigenze superiori e complesse derivanti da una visione integrale dell’uomo e del suo eterno destino» (1).
Probabilmente non erano molti allora a notare che la rilettura ratzingeriana della laicità — come anche l’interpretazione massimalista sulla libertà religiosa nel discorso dell’11 gennaio scorso al Corpo Diplomatico - si proiettava, al di là della comunità cattolica, anche sullo Stato, invitato a riconoscere nel suo ordinamento i paradigmi propri dell’ordinamento della confessione maggioritaria in Italia. La visione etica della laicità veniva invocata cioè, insieme al classico principio della collaborazione tra Stato e Chiesa per il bene comune, per legittimare le esigenze della Chiesa, anche se nei modi di un potere di persuasione morale, per misure legislative forgiate secondo i suoi principi morali e i suoi interessi sui terreni critici del matrimonio e della famiglia, della legislazione del vivente e del finanziamento delle scuole private, malgrado la diversa direttiva formulata dalla Costituzione italiana.
Le ripercussioni concrete di questa piattaforma della politica ecclesiastica non cessano di sgomentare molti seguaci della fede nel Cristo dei Vangeli nel nostro avventurato Paese. In una lettera al nuovo arcivescovo paracadutato dall’alto a Torino, un leader cristiano ben conosciuto di quella comunità cristiana Enrico Peyretti lamentava che la Chiesa «appare come un partito, una forza sociale tra le altre, coi suoi interessi, addirittura interessi economici non puliti, forse peggiori delle offese sessuali, con le sue alleanze calcolate, non dirado impresentabili». E constatava con sofferenza che la gerarchia episcopale dava l’impressione di «vivere nel sogno di una società coincidente con la Chiesa, un matrimonio trono-altare». Al punto che non sembrava azzardato, con tutte le cautele storiografiche del caso, il parallelo tra «l’odierno catto-berlusconismo della gerarchia cattolica italiana e il catto-fascismo del ventennio violento che fu il fallimento dei pastori e l’abbandono dei fedeli al potere malvagio e falso, può accadere di peggio alla Chiesa? — si chiedeva Peyretti — Questo è peggio della persecuzione».
Non è da oggi che si accumulano segnali di una ristrutturazione più o meno raffinata del paradigma «costantiniano» nelle relazioni della Chiesa con gli Stati, e particolarmente con lo Stato italiano. All’avanzata di una società secolarizzata, che sembra insidiare l’egemonia del cattolicesimo nei paesi di antica cristianità e di fatto mette in crisi la riproduzione sociale della cristianità, il rischio crescente è la nostalgia dello Stato cattolico. L’esito di questa deriva è fra l’altro l’offuscamento delle direttive del Concilio Vaticano II il quale aveva affermato che la Chiesa «in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non si lega ad alcun sistema politico per essere segno e salvaguardia del carattere trascendente della persona umana... La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo... La Chiesa non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile, anzi rinuncerà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti ove constatasse che il loro uso potrebbe far dubitare della sincerità della sua testimonianza».
Catto-berlusconismo
L’insorgere di una tentazione neo-costantiniana è senza dubbio facilitato dalla deriva liberistica del governo Berlusconi che ha applicato la politica della privatizzazione anche ai rapporti con la Santa Sede e con la Cei, riducendoli ad un aberrante mercato di privilegi confessionali in cambio di consenso. Anche all’interno della coalizione governativa si nota con allarme che è invalsa una prassi per cui vengono sistematicamente saltati i canali diplomatici dello Stato per privilegiare comunicazioni dirette tra membri del governo e prelati romani e trattare a questo livello privatistico misure legislative di interesse ecclesiastico.
Una prassi del genere è andata incontro al neo-costantinianesimo di settori ecclesiastici, segnando la crisi dell’impianto conciliare della «Gaudium et Spes» sul quale si fondava l’aspettativa che la Chiesa seguisse altre strade, diverse da quella delle posizioni di potere, per farsi strada nel mondo delle anime.
Di fatto, la Chiesa reale ha ceduto alla facilità di una Chiesa «di Stato» esorbitando dal proprio campo con interventi invasivi nei campi in cui, in una società pluralista, lo Stato può e deve legiferare, cioè sulle coppie di fatto, sul trattamento di fine vita, sulla «pillola abortiva» eccetera: altrettanti campi sui quali lo Stato ha competenza ed è tenuto a intervenire con attente mediazioni fra l’ordine dei valori e la complessa realtà sociale in rapida trasformazione. Si tratta di situazioni che di fatto sono presenti nella nostra società, e sui quali il potere civile è pienamente legittimato a legiferare per in quadrarle in un minimo di normativa civile, ad evitare mali maggiori.
Le derive citate rendono attuale il monito dell’abate Rosmini: «quando la Chiesa si fa arbitra delle sorti umane, allora solo è impotente, quello è il tempo del suo decadimento».
Strategie interventiste
Le sortite di alcuni vescovi di regime ne hanno dato una corposa convalida, nella congiuntura delle notti orgiastiche del premier. Tra le scorciatoie assolutorie escogitate, nessun discepolo laicista di Machiavelli avrebbe saputo toccare le altezze cognitive raggiunte da Giampaolo Crepaldi, il vescovo che sta dividendo la comunità cristiana di Trieste. In un volume “Il cattolico in politica. Ma nuale per la ripresa» (Cantagalli, 2011), Crepaldi afferma: «Tra un partito che contemplasse nel suo programma la difesa della famiglia fondata sul matrimonio e il cui segretario fosse separato dalla moglie, e un partito che contemplasse nel programma il riconoscimento delle coppie di fatto e il cui segretario fosse regolarmente sposato, la preferenza andrebbe al primo partito». E aggiungeva: «È più grave la presenza di principi non accettabili nel programma che non nella pratica di qualche militante, in quanto il programma è strategico ed ha un chiaro valore di cambiamento politico della realtà più che le incoerenze personali».
Il suo confratello Luigi Negri, vescovo di San Marino e Montefeltro, non esitava a schierarsi a difesa di Berlusconi, adducendo (in un articolo al settimanale Tempi, poi in una intervista a La Stampa) l’appoggio assicurato da questo governo ai «principi non negoziabili», quali la difesa della vita dal suo inizio al suo termine naturale, ai valori della famiglia, avvalorando questi vantaggi come sufficienti a giustificare la mancanza di «indignazione» verso le condotte personali del premier (in realtà, verso le presunte sue violazioni di leggi dello Stato sulla concussione e la prostituzione minorile, contestategli dalla Procura di Milano).
Lo spettacolo di vescovi che si prodigavano ad affondare alcuni principi fondamentali dell’ordine cristiano tradizionale per tenere a galla Berlusconi non poteva lasciare indifferenti. Già al Consiglio Permanente della Cei, aperto il 24 gennaio ad Ancona dalla prolusione del Cardinale Bagnasco, si erano manifestate le inquietudini di alcuni vescovi secondo i quali la Chiesa con il suo atteggiamento ancillare nei confronti del regime avrebbe assunto «la responsabilità di intrattenere questo governo». «Un conto è pazientare, tutt’altro sostenere» era stato osservato da chi avvertiva dei gravi danni che una sostanziale collusione col regime avrebbe procurato alla missione pastorale, chiamata a rivolgersi a tutti, al di là di opzioni politiche settarie.
A Crepaldi hanno risposto alcuni gruppi cristiani di Verona (in «Segni dei tempi», anno 11, n. 10) indicando il pericolo dell’immoralismo berlusconiano, dei suoi fiancheggiatori e della vasta pletora dei tolleranti per il suo potere destrutturante dal punto di vista civile e politico. Essi contestavano «la pretesa di scindere vita privata e vita pubblica» come uno dei fattori (accanto all’eventuale responsabilità per atti penalmente rilevanti) che «inquinano alla radice la possibilità della costruzione di una vita sociale in cui si possa riconoscere». E parlando della strategia interventista dei vescovi, sottolineava la decadenza dell’autonomia politica del laicato cattolico, costretta — contrariamente alle direttive esplicite del Vaticano II (messo da parte dal Crepaldi) - a rifluire entro i quadri clericali dell’obbedienza agli indirizzi dei vescovi, considerata «tratto distintivo della loro azione politica».
La vera alternativa a Dio
Sulle tesi neo-costantiiane di Negri interveniva poi, uscendo da un prolungato silenzio, l’emerito vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi. In una «Lettera aperta» egli difendeva lo statuto originalmente evangelico dell’«indignazione» e rammentava che tra i principi «non negoziabili» è presente, quello fondamentale della solidarietà, in forza del quale ci si deve impegnare non solo in difesa delle vite più deboli ma anche di tutte le vite «minacciate», «come sono quelle di quanti sfuggono la miseria insopportabile o la persecuzione politica, che sono invece fortemente condizionate dal nostro Governo». Del resto, anche sotto il profilo delle «consonanze cristiane», «non si è fatto nulla per favorire la vita nascente con leggi che incoraggino il matrimonio e la procreazione come ha fatto la ‘laica’ Francia». Infine, a contraddire la tesi che il politico va giudicato solo per la politica, Bettazzi ricordava che «chi sta in alto deve dare il buon esempio perché egli — tanto più in quest’era mediatica, influisce sull’opinione pubblica. Ed è questo che dovrebbe preoccupare noi vescovi, cioè il diffondersi, soprattutto fra i giovani, dell’opinione che quello che conta è ‘fare i furbi’, è riuscire in ogni modo a conquistare e difendere il proprio interesse, il bene particolare, anche a costo di compromessi, come abbiamo visto nei genitori e nei fratelli che suggerivano alle ragazze di casa di vendersi ad alto prezzo». Così si diffonde l’idolatria del fare soldi, del fare ciò che si vuole, concludeva Bettazzi. Si instaura nella società «la vera alternativa a Dio» («o Dio o mammona»), si ignorano le raccomandazioni della Cei sul bene comune come impegno specifico dei cristiani.
La potente armata morale di Ruini
Tuttavia non erano in questione soltanto le propensioni politiche di questo o quel vescovo, o il grado più o meno profetico delle trepidazioni gerarchiche dinanzi all’immoralismo politico. In realtà a trovarsi implicata era un’intera politica ecclesiastica, troppo esposta all’obiezione di perseguire vantaggi materiali mediante uno spericolato compromesso con il regime al comando. E questa situazione rinviava all’opzione decisa fin dagli inizi dell’«era Ruini», nello scenario del pontificato spettacolare di Wojtyla, quando si era adottato per l’avvenire della Chiesa cattolica in Italia il paradigma di un cattolicesimo dimostrativo, presente nella mischia politica e nel frastuono mediatico, ma anche desideroso di allargare il deposito dell’8 per mille concordatario, dei privilegi confessionali, delle leggi conformi al suo credo, in una società pluralista.
Si profilavano fin da allora i presupposti di fenomeni di involuzione, caratterizzati dal ritorno ad una pretesa di autosufficienza della Chiesa verso la società moderna, dal tentativo di costituire nella Chiesa, favorita dai nuovi privilegi concordatari, la base organizzativa di una potente armata morale, quasi a rincorrere il sogno di una nuova cristianità clericale per tamponare le crepe della cristianità sociologica, serrando le fila per far fronte al mondo.
Nel vuoto lasciato dal Partito cattolico dopo la disfatta della Dc era chiaro che la Chiesa cercava di assumere un nuovo potere di supplenza politica nel Paese, come agenzia di valori e lobby di pressione, pronta a scendere in campo direttamente come minoranza attiva, per ottenere per via parlamentare, col favore di governi compiacenti, ciò che evidentemente disperava dì raggiungere per le vie lunghe della testimonianza e delle convinzioni.
Una volta constatata la perdita di influsso dei suoi modelli morali sulla vita privata degli individui, la Chiesa operava un completo cambiamento di strategia: senza abbandonare del tutto le vie consuete della sua pastorale delle coscienze, cominciava a dirottare l’investimento principale sul pubblico, cercando di far leva sulla potenza della comunicazione mediatica, sulla legislazione favorevole dello Stato, sugli strumenti concordatari (specialmente nel campo della scuola e in quello del matrimonio) per di fendere e promuovere nell’ordine politico statuti di vita privata che possano riprodurre il più fedelmente possibile le sue visioni antropologiche e sociali.
Una prospettiva tale da permettere alla Chiesa istituzionale, al meglio dell’ipotesi, di rimanere una forza sociale consistente e centrale nella società italiana ed europea, valorizzando quel fondo di eredità cristiana che viene considerato un dato strutturale, ben radicato e insostituibile della cultura diffusa del Paese. Di qui la piega neo-costantiniana e mondanizzante di una Chiesa che preferisce negoziare spazi per i suoi modelli morali con i poteri politici del momento piuttosto che concentrarsi sulle proprie vie religiose per la formazione degli spiriti liberi.
Con pericoli per lo sviluppo delle dinamiche democratiche (altro che puritanesimo moralistico!), ma anzitutto pericoli «per l’anima della Chiesa stessa, per la sua mistica» ammoniva Achille Ardigò poco prima di morire. «Vedo il pericolo — sottolineava il discepolo di Giuseppe Dossetti — nella volontà ormai esplicita della gerarchia di scendere direttamente, in prima persona, sul terreno politico più operativo, quello dell’organizzazione, delle scelte tattiche, delle valutazioni di convenienza e opportunità, del fine che giustifica i mezzi (...). La Chiesa non può farsi partito politico senza rischiare di dissolvere il proprio fondamento mistico» (2).
Note
(1) Il testo in Osservatore Romano, 25 giugno 2005.
(2) «L’attacco al Concilio e l’interventismo dei vescovi: intervista con Achille Ardigò», La Re pubblica, 7 luglio 2005.