QUELLI DELLA VIA
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Claudio Doglio
 
Lettera ai Filippesi
 cap.4 vv. 1-7




Perseveranza nella gioia (4,1-7)  

Cristo Gesù ha il potere di sottomettere a sé tutte le cose. Questo significa che è il Signore dell’universo, che controlla tutte le realtà del cielo e della terra, ma questa sottomissione riguarda soprattutto i nostri cuori. Sottomettere a sé non significa umiliare, schiacciare, distruggere, ma con–formare all’immagine divina. Quindi è una sottomissione benefica.  

Una benefica sottomissione  

Cristo Gesù ha il potere – e vuole esercitarlo – di sottometterci, ma non lo fa se noi non vogliamo; non ci costringe, non ci si schiavizza, ci invita a prendere il suo giogo sopra di noi, sottomettendo il nostro collo al suo giogo, piegando la nostra testa orgogliosa, lasciandoci formare. Significa che, concretamente, quello che non siamo ancora capaci di fare in bene, possiamo riceverlo come un dono. Essere sottomessi a Cristo vuol dire permettergli di fare in noi quello che noi non siamo capaci di fare.

Non sono capace di perdonare le offese, non sono capace di voler bene era una persona antipatica, non sono capace di sopportare con pazienza le difficoltà che mi capitano; tutto questo perché non sono sottomesso a Cristo. Egli ha il potere di fare in me quello che io non sono capace di fare, egli vuole fare in me ciò che manca alla mia perfezione. Se io voglio siamo a posto.  

4, 1 Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete saldi nel Signore così come avete imparato, carissimi!  

I destinatari questa lettera sono amati e desiderati. Paolo vuole bene a loro e desidera il loro bene, essi costituiscono la sua gioia e la sua corona, cioè il premio.

Io sono contento che voi siate credenti. Proprio la vostra vita di fede è la mia ricompensa; mi fate contento se rimanete saldi nel Signore, se rimanete in piedi, solidi, fondati nel Signore, cioè se vi lasciate sottomettere.

Ma come? Stare sotto o stare in piedi, piegarsi o essere diritti? Siamo sempre di fronte ai paradossi. Per essere veramente te stesso devi lasciarti occupare dal Signore, per essere veramente una persona diritta, retta, in piedi, devi piegarti, devi abbassare il capo e sottometterti.

Se rimanete così, come avete imparato, io sono proprio contento.  

Esortazioni per i discepoli  

Termina così questa grande parte esortativa con alcune note fortemente polemiche e ormai, al capitolo 4, lettera ai Filippesi volge alla conclusione. Ci sono le ultime raccomandazioni che non sono  semplicemente saluti e baci. È una parte ancora da notevolmente ricca di indicazioni di profonda spiritualità.

Il finale comincia facendo dei nomi concreti di persone:  

2 Esorto Evòdia ed esorto anche Sìntiche ad andare d’accordo nel Signore.  

Sono due nomi di donne che ci sembrano strani perché non li abbiamo mai adoperati.

Evodia e Sintiche, due signore della parrocchia di Corinto, due signore molto impegnate, addirittura – dice poco più avanti – che “Hanno combattuto per il vangelo insieme con me”. Quindi sono delle collaboratrici della prima ora, colleghe di Lidia; hanno combattuto per il vangelo, quindi sono donne impegnate, però non vanno d’accordo tra di loro. Evòdia non va d’accordo con Sìntiche.

Potete immaginare come rimasero male quando, per la prima volta, venne letta questa lettera nella comunità. Dopo tutti quei discorsi generici improvvisamente, arrivano questi due nomi propri. Tutti nella comunità le avranno guardate perché sono proprio quelle due lì.

Evodia vuol dire “buona strada” «Euvodi,an»(Eu–odían) mentre «Suntu,chn» (Syntýchen) indica la “comunanza di sorte” quindi “fortunata e insieme con gli altri”, “solidale”. Diventa un invito all’accordo comunitario; combattere per il vangelo non è sufficiente se la comunità è divisa. Una per una queste due donne sono brave cristiane, insieme non riescono a fare comunità. Paolo continua:  

3 E prego te pure, mio fedele collaboratore, di aiutarle, poiché hanno combattuto per il vangelo insieme con me, con Clemente e con gli altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita.  

Chi sia questo fedele collaboratore di Paolo non è detto, ma io un’idea la ho. Dal momento che, di quelli che conosciamo, l’unico che era rimasto a Filippi era Luca, probabilmente destinatario della lettera – insieme con gli altri Filippesi – è proprio il responsabile della comunità, che è quello che noi conosciamo come l’evangelista Luca.

«Mio fedele collaboratore». Se qualcuno nella sua Bibbia ha un’altra traduzione, è possibile che trovi una specie di nome proprio, perché “collaboratore” è «su,zuge» (sýzyge) e Sizighio potrebbe essere anche un nome proprio. Insieme a Evodia e Sintiche ci potrebbe essere questo Sizighio a cui Paolo si rivolge come mediatore. Secondo me non è nome proprio, ma termine comune per indicare “colui che porta lo stesso giogo” ed è il responsabile della comunità a cui l’apostolo si rivolge dicendo “fa da mediatore”, aiutale ad andare d’accordo.  

Collaboratori  

Questo è un altro esempio anche per noi. Da una parte dobbiamo verificare le nostre relazioni e impegnarci a costruire comunità cordiali e solidali, che siano un buon profumo e una testimonianza di solidarietà; d’altra parte può essere compito nostro aiutare quelle persone che non riescono a collaborare, diventando cioè mediatori, costruttori di ponti, che non esasperano i contrasti, non seminano zizzania, ma creano pace, dicono la parola buona, parlano bene all’una dell’altra in modo tale da creare comunione e mai divisione.

Questo Clemente non lo conosciamo in altro modo; qualcuno ha pensato di riconoscervi colui che da vecchio diventerà papa, il terzo successore di san Pietro, Lino, Cleto, Clemente. Doveva essere uno giovane, collaboratore di Paolo, che poi, trasferitosi a Roma, divenne responsabile della comunità; forse è lui o forse è un altro. I loro nomi, comunque, sono nel libro della vita.

Questa è una espressione che viene dal linguaggio apocalittico, come se in cielo esistesse un registro dove sono segnati i nomi di quelli che sono destinati alla vita eterna. Il libro della vita è il registro dei viventi, delle persone che hanno la vita; è un modo di dire per indicarne l’elogio: queste persone sono conosciute da Dio. È la stessa immagine che adopera Gesù quando invita i discepoli ad essere contenti “Perché i loro nomi sono scritti nei cieli” (Lc 10,20); vuol dire che sono conosciuti. La tua contentezza deve essere legata al fatto che Dio ti conosce e ti vuole bene; se anche altri non ti conoscono e non ti riconoscono, pazienza, sii contento dell’essere conosciuto dal Signore.

Sulla portone principale del Santuario della Misericordia a Savona c’è una scritta in latino, per di più abbreviata, che non viene letta quasi da nessuno; contiene una frase molto significativa che dovrebbe esprimere l’atteggiamento del pellegrino che arriva al Santuario ed entra nella comunione con il Signore. C’è scritto: Omnes lateam dum tibi notus, cioè “Possa essere nascosto a tutti, purché conosciuto da te”. È una frase bellissima che dice una spiritualità di nascondimento e di fiducia; non interessa che gli altri mi vedano, non sono venuto al santuario per farmi vedere, non lo sa nessuno che sono venuto, mi interessa che mi conosca tu, voglio essere “tibi notus”, “a te conosciuto”; voglio che il mio nome sia scritto nel tuo libro. Il Signore ci conosce in profondità e ci conosce proprio come siamo, quindi desiderare di essere conosciuti da lui significa essere come lui ci vuole.  

Ga udete in Domino semper  

4 Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi.  

Questo versetto è utilizzato dalla liturgia nella terza domenica di Avvento.

Celebrando in latino si diceva: Gaudete in Domino semper: iterum dico gaudete. Per questo la terza domenica di Avvento è conosciuta come domenica “Gaudete”, in forza di questo versetto della Lettera ai Filippesi. In greco c’è «Cai,rete» (Cháirete) che è il plurale di «cai/re» (cháire), il saluto che l’angelo rivolge a Maria: «cai/re kecaritwme,nh» (cháire kecharitoméne) “rallegrati, piena di grazia”; non semplicemente “Ave”, “Salve”, ma “rallegrati”, “gioisci”, “esulta”, come suonano tanti testi profetici rivolti alla figlia di Sion. È l’invito alla gioia profonda, sincera, al gaudium spirituale: “Rallegratevi nel Signore”.

Nella festa di san Filippo Neri, il 26 maggio, il breviario propone un testo di sant’Agostino che commenta proprio questo imperativo: “Gaudete in Domino”, perché san Filippo Neri è un santo caratterizzato dalla gioia, un uomo simpatico, cordiale, che è vissuto contento e ha seminato contentezza intorno a sé. Allora, nella sua memoria, meditiamo un padre della Chiesa che ci spiega che il nostro compito è “gaudere”,

“godere”, essere contenti. La vita cristiana non è tristezza, serietà, rigore. “Siamo nati per soffrire” lo diceva Petrolini, invece “Siamo nati per essere felici” lo dice il Signore: “Gaudete – godetevi la vita – in Domino”. Rallegratevi, sì, ma “in Domino”, nel Signore. Trovate la vostra gioia nel Signore, non nelle cose del mondo; non siate continuamente intenti alle cose della terra: trovare gioia in queste cose è effimero, dura una giornata, passa e nulla resta.

Il male produce piacere, ma il piacere passa e il male resta; il bene costa fatica, ma la fatica passa e il bene resta e, se hai una gioia, è proprio il ricordo del bene che hai fatto.

Invece qualche volta, quando ti sei tolto una soddisfazione, quando gliele hai dette, poi ti resta dentro l’amaro, il male. Quella soddisfazione che ti sei presa non è gioia autentica, non resta il gaudium.

Rallegratevi nel Signore, sempre, continuamente, cercate la vostra gioia nel Signore; se non lo avete capito, ve lo ripeto ancora: l’obiettivo è rallegrarsi nel Signore, siate contenti.

Che cos’è la gioia, la contentezza, la felicità?

San Tommaso ci insegna che è la “presentia boni amati”, cioè “la presenza del bene amato”. Quando si ama qualcosa o qualcuno la sua presenza è gioia. “Rallegrarsi nel Signore” vuol dire vivere la compagnia del Signore, l’essere con lui; la presenza del Sommo Bene, sommamente amato, è gaudium, è la gioia. Siamo contenti quando siamo con il Signore, quando siamo come lui, quando gli assomigliamo.

La contentezza del paradiso sarà l’essere conformi al suo corpo di gloria. Quando saremo pienamente trasformati, e saremo simili a lui, quando saremo pienamente sottomessi a lui, allora saremmo contenti, sarà la gioia eterna, la felicità del paradiso, essere come lui, essere con lui; ma – in parte – già adesso possiamo godere di questa presenza. Più viviamo questa presenza e più siamo contenti.  

Una bella capacità di relazione  

5 La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!  

La traduzione del termine greco con affabilità non è sicura e non è facile. Il latino diceva “modestia”, “la vostra modestia sia nota a tutti”; neanche quella parola però rende bene.

Il concetto è la vostra “capacità di relazione”, quindi affabilità va bene, siate delle persone affabili, delle persone di comunione e di compagnia, persone che sanno creare buoni rapporti. Rallegratevi nel Signore e tutti si rendano conto che siete delle persone serene, luminose, capaci di colloquio, capaci di accoglienza, capaci di dialogo.

Tutti sperimentino dall’incontro con voi che voi state con il Signore; questa è una profonda della testimonianza cristiana. Il termine greco dice «evpieike.j»a (epieikès) un termine difficile da intendere, tanto è vero che è entrato nel nostro linguaggio giuridico con il termine «epichèia».

Quelli che studiano di diritto canonico sono specialisti di questa idea; la epichèia è la capacità di derogare alla norma: la legge dice di fare questo, però nella mia concreta situazione è meglio fare diversamente. Se ci fosse il superiore qui presente e io gli chiedessi il permesso, me lo darebbe? In coscienza sono sicuro di sì e allora lo faccio.

Esco di qui e vedo delle caramelle, non sono mie, non c’è nessuno, se ci fosse qualcuno e chiedessi se posso prenderne una, mi direbbe certamente di sì – ne sono scurissimo – e allora me la prendo. In coscienza questa è una epichèia, cioè è una capacità di relazionarsi in modo libero, con la buona coscienza, ma non con scrupoli, con chiusure bigotte, bensì con una affabilità, come quando uno si sente a casa e si comporta come se fosse a casa propria. È un mettere a proprio agio: mi sento proprio a mio agio e ti metto a tuo agio. Questa è la affabilità.

Quando un estraneo entra nei nostri ambienti sente subito se è accolto o no. Non tutte le comunità sono uguali: si entra in certi ambienti e si ha un’impressione, in altri ambienti si ha un’impressione diversa. Ci si può sentire accolti o no; ci può essere un atteggiamento formale, di accoglienza, senza la cordialità, senza la relazione del cuore.

La comunità cristiana di Filippi viene esortata a essere affabile e questo vale per tutte le comunità del mondo e di tutti tempi. Come gruppi cristiani dobbiamo far conoscere la nostra affabilità, la nostra serena disponibilità all’accoglienza e al dialogo, perché il Signore è vicino.

Quando leggiamo questo versetto alla terza domenica di Avvento abbiamo l’impressione che voglia dire che è quasi Natale, ma non è quello che intende san Paolo.

Il Signore è vicino sempre, non significa che sta per venire, significa che è venuto, ed è qui; il Signore è vicino, è presente, è con te, per questo tu puoi essere affabile. Se godi la compagnia del Signore presente sei anche una persona di compagnia umana; naturalmente con il tuo carattere, non il compagnone che diverte. Se sei in grado di vivere l’amicizia con il Signore diventi una persona capace di vivere l’amicizia con le altre persone.  

La pace scaccia l’angustia  

Quindi, se il Signore è vicino,  

Non angustiatevi per nulla,  

Non preoccupatevi: questa è una parola evangelica. Nel discorso della montagna Gesù insiste usando proprio questo concetto: “Non preoccupatevi di quel che mangerete, di quel che vestirete, non preoccupatevi del domani. Di queste cose si preoccupano i pagani, quelli che non credono, ma voi siete figli, voi avete la fiducia, non angustiatevi per nulla”.

È il difetto di Marta; Gesù la rimprovera non perché lavora, ma perché si preoccupa di troppe cose e non fa quel lavoro in modo sereno, ma con la preoccupazione; ne è dominata. Troppe cose ti occupano, sei dissipata, dispersa; c’è bisogno di una cosa sola.

Se unifichi la tua vita, poi il lavoro viene di conseguenza e lo fai serenamente, lo fai meglio, ne fai di più. È possibile, certe volte, fare tante cose per un ospite: piatti, tovaglie, bicchieri, fiori, al punto che poi non c’è più tempo per l’ospite; sarebbe meglio un piatto solo e stare a parlare con l’ospite. Preoccupati però di trattarlo bene, dovendo tirare fuori tutto l’addobbo, dovendo pulirlo, dovendo servirlo, si lascia l’ospite lì e si continua ad andare avanti e indietro e a fare dell’altro, con l’agitazione per trattarlo bene. Alla fine lo si è trattato male.

Le persone contano più delle cose, più dei piatti. È certamente possibile anche usare tanti piatti, se ti fa piacere, ma se ti accorgi che troppi piatti rovinano il rapporto con le persone, lascia perdere, perché contano di più le persone, conta di più la serenità, il tempo del dialogo. L’avere tempo per stare con una persona è meglio che fare tante cose.  

Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti;  

È lo stesso invito che offre Gesù; il Padre vostro sa ciò di cui avete bisogno, prima ancora che glielo chiediate; allora chiedeteglielo con sincerità, con fiducia. Voi non dovete convincerlo, non dovete spiegargli che cosa deve fare, non lo piegate a forza di parole, fidatevi, non pre–occupatevi, non occupatevi troppo, non angustiatevi, non sentitevi allo stretto, ma affidatevi a lui. In ogni necessità, quando cioè ci sono delle situazioni difficili, ma anche semplici, qualunque esse siano, affidatevi al Signore: preghiera, supplica ed “eucaristia” – dice Paolo – cioè ringraziamento. Ringraziate ancora prima di aver ricevuto. Mettetevi nelle mani del Signore con questo atteggiamento di lode…  

e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù.  

Se vi fidate e vi affidate, la pace di Cristo custodirà i vostri cuori. Altra immagine splendida: la pace di Dio, la sua pienezza di serenità, invade il vostro cuore, la pace vi custodisce.

Sapete che cosa vuol dire essere in pace? È proprio il contrario dell’essere agitato, dell’essere preso dai fatti. Dobbiamo affrontare i problemi, vedere quelli che ci sono, cercare le soluzioni, ma con l’atteggiamento della pace, custoditi da questa pace divina che supera ogni intelligenza.

Non riusciamo a immaginare tutto quello che il Signore può compiere, non riusciamo a spiegarlo come funziona, se però abbiamo provato, sappiamo che funziona.

Allora questa pace non ha bisogno di essere capita e spiegata, ha bisogno di essere accolta, perché il Signore ci custodisca cuore e pensieri, sentimenti e idee: tutto, tutta la nostra persona.

Il fare e il pensare deve essere custodito dalla sua pace. E allora potete rallegratevi nel Signore, potete essere contenti; già adesso avete tutto quello che vi serve per essere persone contente, non domani, ma adesso, ce l’avete già; accorgetevene e rallegratevi nel Signore.



(Fonte: http://www.atma-o-jibon.org)

 

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