Accogliere lo straniero non solo come un simile o un fratello, ma come un
eguale con cui costruire la casa comune dei nostri progetti. Tre buone ragioni
per rilanciare l’appello di Jacques Derrida È lo straniero a dare a noi una
lezione di universalità e umanità, non noi a lui. Sta qui il nocciolo della
democrazia e della politica futura
Nel momento in cui scrivo queste righe, le immagini imbarazzanti,
insopportabili, delle barche che approdano sulle spiagge di Lampedusa con il
loro carico di boat people che arrivano dalla Tunisia, dalla Libia e da ancor
più lontano occupano gli schermi della televisione senza che se ne possa
prevedere la fine. Giorni fa, dopo Marine Le Pen, Silvio Berlusconi si è recato
a sua volta sul posto, promettendo la deportazione ai rifugiati e il premio
Nobel agli abitanti, che non chiedevano tanto. I governi europei, che avevano
subappaltato alle dittature dell’Africa del nord la «regolazione» brutale di
questi flussi, stanno a guardare in un silenzio di piombo. Italiani,
sbrogliatevela da soli. Africani, morite oppure tornate a casa con un fucile
puntato alle spalle.
Un po’ di onestà intellettuale
proibisce di fare dei discorsi da benpensante. Posso avventurarmi allora a fare
l’elogio dell’ospitalità, di quell’ospitalità senza condizioni che il mio
maestro e amico, il filosofo Jacques Derrida, in saggi ormai famosi, aveva
definito come la forma stessa della democrazia, e quindi della politica futura?
Questa ospitalità che ci chiede di accogliere lo straniero non soltanto come un
«simile» o un «fratello», ma come un eguale con il quale costruire la «casa
comune» dei nostri diritti e dei nostri progetti? Lo farò, malgrado grandi
difficoltà, di cui sono consapevole. Per tre ragioni.
In primo luogo, un
appello a un’ospitalità incondizionata deve esercitare un’influenza sugli stati,
o addirittura imporre loro un vincolo. Ma non si rivolge soltanto ad essi. Dagli
stati che gestiscono (molto male) i flussi di popolazioni, i parametri della
nazionalità, le polizie di frontiera, non ci aspettiamo nulla di tutto ciò. Non
soltanto perché non ne sono capaci, ma anche perché questa non è la loro
funzione. Il che non vuol dire però che gli stati debbano scaricarsi della
propria responsabilità nello scatenamento di una inospitalità generalizzata che
lede ormai la circolazione e la condizione degli uomini nel mondo, soprattutto
dei più poveri. Al contrario, in nome del principio di ospitalità e
dell’assolutezza che esso comporta, esigiamo dagli stati che creino le
condizioni, al meglio possibile, per una circolazione degli abitanti della
terra, correttamente «regolamentata» o meglio organizzata, con il concorso di
tutti coloro che sono interessati, ma che sia essenzialmente libera. Per fare
questo, bisogna che cessi la strumentalizzazione delle paure e delle xenofobie,
e che si sviluppi una discussione aperta sulle vere dimensioni economiche,
culturali o demografiche delle migrazioni, sui cambiamenti che comporta, i
problemi che pone e i mutui vantaggi che procura.
In secondo luogo, questo
appello non si rivolge neppure alle persone che ci circondano, ma per una
ragione opposta: queste persone non hanno bisogno di essere esortate a fare ciò
che già fanno, e di cui ci insegnano l’urgenza, il valore e la difficoltà.
L’ospitalità senza condizioni significa la solidarietà, l’accoglienza sotto un
tetto, il soccorso, l’ascolto, la conoscenza, tutti elementi che spezzano
l’isolamento degli stranieri sul territorio nazionale, in particolare di coloro
che si trovano in una situazione di precarietà, di illegalità o di esclusione, a
causa della violenta contraddizione tra i bisogni della loro esistenza e il
potere degli interessi dominanti. È ciò che fanno ogni giorno i militanti
dell’associazionismo – per esempio, in Francia, quelli della Rete istruzione
senza frontiere o della Cimade e dell’Anafe, ma ne esistono altri, che sovente
possono contare sull’aiuto dei sindacati, delle chiese, dei comuni o delle
scuole. Queste persone, con la loro attività, ci mostrano che l’ospitalità (a
differenza delle procedure amministrative o di polizia) non puo’ essere
impersonale: viene da qualcuno, si rivolge a qualcuno. Ma, al tempo stesso, non
esige dall’altro che si adegui a questa o quella definizione, che rivesta questa
o quella «figura» o «abito» d’accettabilità (cosa che finisce sempre con la
purificazione razziale, etnica o religiosa). Come ha spiegato Derrida, questa
ospitalità riceve dall’altro una lezione di umanità e di universalità, più di
quanto non la impartisca. In un mondo dove nessuno sarà mai più assolutamente
«diverso» da un altro, senza per questo fondersi in una sola ed unica
«identità», si tratta di ritrovare un’antica tradizione di rispetto di sé e
degli altri e di attualizzarla. Ma molti di noi occidentali abbiamo dimenticato
a questo riguardo gli insegnamenti della nostra storia e dei testi fondamentali:
l’Odissea, la Bibbia o la Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Siamo decaduti,
rispetto ad altre civiltà alle quali, pero’, pretendiamo di dare delle
lezioni.
In ultimo, la resistenza all’inospitalità riguarda la nostra
cittadinanza: intendo riferirmi alla cittadinanza attiva, istituita
collettivamente, che non si riduce mai all’obbedienza ai governi, ma al tempo
stesso non si rifugia nell’irresponsabilità politica. In mancanza di ospitalità,
gli stranieri (o alcuni tra loro, in un certo senso i «più stranieri» degli
altri) vengono trattati come nemici temibili, indesiderabili, da odiare. Questa
perversione dell’appartenenza non rafforza gli stati né preserva le nazioni. Al
contrario, li delegittima e li destabilizza. Instaura uno stato d’emergenza
permanente che si apparenta a una guerra civile mondializzata. Annuncia
catastrofi che non saranno più soltanto «umanitarie». In mancanza di ospitalità,
i cittadini di qui e quelli di altrove (per esempio, gli europei e gli
africani), tra i quali si eleva un muro di segregazione e di pregiudizi, non
possono più pensare ai loro interessi comuni (lavoro, occupazione, creatività,
ambiente, scuola…) e risolvere i loro conflitti (sia che risalgano al passato o
siano attuali). Nessuno crede che gli interessi si armonizzino spontaneamente,
ma nessuno deve pretendere, d’altra parte, che siano inconciliabili. In mancanza
di ospitalità, le popolazioni vengono ridotte a delle «variabli di
aggiustamento» per l’economia di mercato oppure a delle «razze» trasformate in
capro espiatorio in periodo di crisi (come dimostra oggi la stigmatizzazione dei
Rom): non sono dei popoli, nel senso storico, culturale e democratico del
termine. Fare l’elogio dell’ospitalità, e metterla in atto malgrado tutto, non
significa quindi rifugiarsi nel moralismo o, come alcuni dicono, nell’
«angelismo», ma vuol dire al contrario lavorare senza sosta, in quanto cittadini
di un certo stato e del mondo, a fare in modo che l’incondizionato, che è
semplicemente l’umano, entri nella realtà. Significa fare politica, e ricreare
la politica.
(Testo richiesto dalla rivista Télérama e pubblicato il 27 aprile sul numero speciale intitolato Stranieri, un'ossessione italiana)