Visita al monastero ai piedi delle Alpi fondato nel 1965 da Enzo Bianchi. Un luogo di incontri tra le fedi del mondo e rifugio per anime inquiete dove si impara il compito primario della vita: seguire un canone di armonia
Fin dall’inizio mi guardo in giro: Enzo Bianchi, il Priore, dov’è? Intanto il monaco che mi è venuto a prendere alla stazione, e che poi corre veloce in auto tra le risaie per portarmi quassù, è lo stesso che rivedo in cucina a pulire i piatti, mentre più tardi sarà a pulire le aiuole e ancora dopo in chiesa a cantare e a pregare (letteralmente: pregare cantando) con gli altri.
Tutti fanno tutto a Bose. È la regola. Monaci e monache sono un’ottantina, e qualsiasi cosa facciano, e di cose ne fanno un sacco, la loro faccia, il loro sguardo non cambia. E’ una specie di concentrazione dinamica. La perfetta rotazione dei compiti e dei lavori fa di questo luogo una meraviglia. Tutto è luminoso e ordinatissimo. Il significato dell’espressione «prendersi cura» qui appare in un nitore di cristallo e svela la segreta connessione che (qualche volta!) c’è tra l’etico e l’estetico.
Nel 1965 Enzo Bianchi aveva 22 anni e questo posto, quasi ai piedi delle Alpi, era un mucchio di cascine in rovina. Nel 1973 ci furono le prime sette professioni monastiche. Oggi è un luogo bellissimo di incontri spirituali tra le fedi del mondo, un rifugio per gente inquieta, per i Boccadoro in cerca di un po’ di pace, circondato da giardini che diventano orti, orti che diventano campi e campi che diventano boschi, e poi di nuovo giardini. Tegole rosse, mura bianche, cespi di fiori qua e là, rumore di fontane. Dai campi, la sera, lo scampanìo delle mucche al pascolo, non so se rendo l’idea.
C’è uno stile Bose, non è così cara sorella? E’ un risultato collettivo vero? Senza uno che dica fai questo fai quello, senza regia... Mi risponde la monaca che a capotavola ha appena introdotto con una preghiera la cena: «Qui nel ’68 arrivarono i primi fratelli e le prime sorelle, solo che credevano che fosse proprio una comune, di quelle che c’erano allora, e Padre Enzo si sforzò di comunicare l’idea che invece si stava delineando una vera comunità monastica dove, insomma, si pregava. La bellezza che vedi qui intorno è il risultato di quello sforzo globale, e il regista di tutto c’è, eccome, è padre Enzo». Sì, ma dov’è? L’ho cercato con gli occhi nel primo giorno di convegno, perché sono stato invitato qui a parlare con direttori di musei europei, studiosi e dotti intellettuali della chiesa, anzi delle chiese cristiane (ascolto un anglicano, litigo un po’ e poi faccio pace con un polemico e simpaticissimo padre greco-ortodosso) del rapporto (complicato!) tra arte contemporanea e fede. Quand’è il mio turno parlo delle porte in bronzo che Igor Mitoraj ha fatto per la Basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma. (A proposito: andate a vederle, sono una meraviglia). Sollevo qualche tema: l’arte contemporanea magari non è sempre confessionalmente in linea ma è ad alto tasso di misticismo. Disegna liberi spazi sacri. Qualcuno mi dà ragione (e sono in netta maggioranza, al convegno c’è consapevolezza dei temi attuali) ma qualcuno no: vorrebbe tornare ai bei tempi andati, con gli angeli ritratti con le ali e casti, ieratici volti di Madonne, e questo, ovviamente, non si può. «Non te ne sei accorto - continua la sorella – ma Enzo era in sala. Non lo cercare davanti, a lui piace starsene sul fondo». La mattina dopo, si va in chiesa per la preghiera del mattino. La chiesa è semplice e spaziosa, legno e moquette, fiori, mormorio di acqua che scorre, l’eleganza è quasi zen. I monaci entrano alla spicciolata con la loro tonaca bianca (e infatti adesso sembrano proprio dei monaci, prima non l’avrei detto), ognuno si inginocchia calmo al suo posto. Sono davvero simili a uno stormo di grandi uccelli che si posi in un luogo, a quell’ora lì. Per ultimo entra padre Enzo: l’immagine, scusate lo stereotipo ma quando ci vuole ci vuole, è quella del pastore che vede senzaessere visto.
Poco dopo, col supporto di Frate Goffredo che coordina tutta ‘sta roba, gli parlo. E’ massiccio, l’occhione buono e azzurro, il riconoscibile timbro alto della voce. Padre Enzo, mi dicono che tutta questa diffusa ricerca della bellezza che vedo qui, questo gusto Bose, sia ispirato da lei, ho davanti a me il suo autore. Sorride e poi fa: «Io davvero credo che senza la bellezza l’uomo non possa vivere. E’ una scelta che noi facciamo nella vita. Non basta la bellezza della natura, la dobbiamo creare anche noi. Soprattutto per rendere più abitabile la terra, per esserle fedeli. Rendere più bello il mondo in cui viviamo, trasfigurare la realtà sono azioni che ci umanizzano. Alle grandi domande esistenziali risponde l’arte, ma avere cura delle cose, anche di una sola pianta, organizzare lo spazio seguendo un canone di armonia credo che sia un compito primario». Altra questione fondamentale, o quantomeno un mio pallino: la natura. Quand’è che la chiesa parlerà senza remore di Madre Terra? «Il problema è questo: il cristianesimo occidentale ha avuto paura del panteismo. In reazione a una divinizzazione della natura che era l’eredità del mondo greco e romano ha reso la fede a-cosmica, e questo ha rappresentato un impoverimento terribile. La natura deve entrare negli spazi della fede. Nella nostra chiesa ho voluto che entrassero l’acqua, la luce, i fiori, lo ha visto no? Questa è una zona piena di rocce, di sassi, siamo sulla Serra, la collina morenica, e questi sassi sono una presenza. Si dice natura inanimata, ma non è vero! La pietra non ha la vita animale ma un’altra vita dentro di sé che va ascoltata. Un cristianesimo senza la dimensione della natura è una religione impoverita. Non lo posso nemmeno chiamare cristianesimo. Per noi di Bose la più grande festa dell’anno la sa qual è? Quella del 6 agosto: festeggiamo la trasfigurazione di tutto l’universo, delle più piccole cose della natura, delle piante, degli animali. Quel pezzo di vita che facciamo diventa così dimora del regno».
Ascoltate alte gerarchie della chiesa, non ha forse ragione lui? Però questo me lo dico tra me e me mentre raggiungo Frate Lino che mi aspetta con una gran boccia di vino rosso, a lui piace parlare di pittura.
La comunità
Un’ottantina tra monaci e monache. La Comunità monastica di Bose è una comunità religiosa formata da monaci di entrambii sessi, provenienti da chiese cristiane diverse. Sin dalla fondazione - avvenuta nel 1965, e nel giorno in cui si chiude il Concilio Vaticano II - quando Enzo Bianchi decide di iniziare a vivere da solo in una casa presso le cascine di Bose, la Comunità promuove un intenso dialogo ecumenico fra le differenti chiese cristiane. Inizialmente interdetta dalla Chiesa per la presenza di non cattolici nella comunità, è stata poi autorizzata. Tutti i membri della comunità lavorano, guadagnandosi da vivere con le proprie mani, come contadini, falegnami, ceramisti, tipografi e pittori di icone.
Il priore
Il priore anche scrittore. Chi è Enzo Bianchi Ha 68 anni, per tutti a Bose «il priore», è anche un prolifico autore di libri. Il suo libro «Ogni cosa alla sua stagione» (pagine 130, euro 17,00, Einaudi), pubblicato l’anno scorso, ha venduto in poche settimane oltre 130mila copie. Parla di ricordi, di terra, di spiritualità nascosta nelle persone semplici, di vecchiaia, di vita monastica e di ascesi. Ne ha scritti molti altri, tra i quali segnaliamo: «Per un’etica condivisa» (Einaudi, 2009), «Ero straniero e mi avete ospitato» (BUR, 2009), «Il pane di ieri» (Einaudi, 2010), «L’altro siamo noi» (Einaudi, 2010).