"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"  -  Sezione "SPIRITUALITA' E FEDE"



  

Riflessione pubblicata su HOREB numero 52 – 1/2009.

                                      "Come forestieri e pellegrini nella storia. La laicità della vita cristiana" 


SOLO IL VANGELO

Laicità del credente, laicità della Chiesa*

di Gregorio Battaglia

 

Nell’affrontare il tema della laicità della chiesa sono ben consapevole che un tale accostamento possa suscitare confusione e fraintendimenti. Avendo alle spalle una lunga storia, in cui il termine “laicità” è stato usato per qualificare una marcata presa di distanza dal pensiero e dalle posizioni clericali, diventa quanto mai problematico usarlo adesso per caratterizzare lo stile della Chiesa e del credente nel suo modo di stare “nel mondo”. Il Concilio Vaticano II ha contribuito in gran parte a rimescolare le carte, riproponendo con forza l’immagine della Chiesa come realtà di “popolo pellegrinante nella storia”, popolo messianico, «che cammina alla ricerca della città futura e permanente» (Lumen Gentium, 9) e che intende abbracciare tutto il genere umano.

Questa Chiesa, contemplata dal Concilio come una realtà di popolo, porta con sé una identità ed una vocazione“laicale”, nel senso che essa è chiamata ad essere sempre più “popolo”, se vogliamo restare ben ancorati al senso originario del termine greco, tenendo ben presente che in greco laicos viene da laos, che vuol proprio dire “popolo”. In quanto tale la Chiesa non può lasciarsi condurre da tentazioni di tipo settario o elitario, perché è insito nella stessa nozione di popolo l’idea di abbracciare tutto e tutti, senza distinzione di genere, di razza, di generazioni, di cultura. Uomini e donne, vecchi e bambini, normodotati e disabili, peccatori e santi, tutti entrano a far parte a pieno titolo della realtà del popolo e tutti concorrono in vario modo a sostenere la vita di questo popolo, in quanto comunione di diversi.

 

La Chiesa, il mondo ed il Regno di Dio

 Dopo gli approfondimenti ed i pronunciamenti del Vaticano II ci saremmo aspettati una crescita spirituale e culturale tale per cui dovrebbe essere più difficile pensare alla Chiesa come ad una società appartata e diversa, che avanza per un proprio cammino, costruendo una propria storia e contrapponendosi frontalmente a tutte le istituzioni ostili che la circondano, ma non tutto sembra così ovvio. Molti segnali stanno oggi a dirci che non soltanto persiste in modo latente, ma che riaffiora con un certo vigore una mentalità, che concepisce la Chiesa come ultimo baluardo della verità, costretta a difendersi da un mondo che scivola sempre più verso il relativismo e la perdizione. Sono in tanti, in effetti, a cullare la nostalgia di un passato, dove la Chiesa si presentava come fattore di ordine e di produzione di valori, per cui diventa quanto mai logico contrapporre il mondo alla Chiesa, come se si trattasse di due realtà diametralmente opposte.

Le cose stanno davvero così, come se la Chiesa fosse una nuova arca di Noé che cerca di attraversare indenne i flutti della storia in attesa del futuro che Dio ha preparato in Cristo? Il mondo e la Chiesa sono di fatto due realtà irrimediabilmente inconciliabili tra loro? Per tentare di elaborare una risposta bisogna mettere in gioco un altro elemento, che è costituito dal Regno di Dio. Con questo termine, che ritroviamo sulla bocca di Gesù all’inizio della sua predicazione, veniamo rinviati all’opera che Dio ha giurato di portare a compimento nei confronti della storia umana e di tutto il creato e che Paolo sintetizza in questa frase: «perché Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,28). In altre lettere Paolo precisa che «il Regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17), lasciandoci intendere che il compimento della storia consiste nella realizzazione piena della pace e della giustizia tra gli uomini. Questo regno «di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace» [1] si è reso visibile nella carne umana di Gesù di Nazareth, ma adesso lo attendiamo non come frutto degli sforzi umani, ma come avvento e giudizio di Dio sulla Chiesa, sul mondo e su tutta la storia.   

Né la Chiesa, né il mondo possono avanzare pretese di incarnare in modo definitivo questo Regno di Dio, perché sia l’uno che l’altra sono relativi all’avvento di questa nuova umanità, che costituisce l’oggetto della nostra speranza e che, oltretutto, si presenta come “altro” rispetto ad ogni realizzazione umana. L’attesa vigile ed operosa di «cieli nuovi e terra nuova» (Is 65,17) serve a sfuggire ad ogni tentativo di voler assolutizzare l’esercizio del potere o il conseguimento di determinati traguardi ed allo stesso tempo essa resta alla radice di una visione laica del mondo, in quanto relativizzazione di ogni realtà che presume di presentarsi come l’unico assoluto.

 

La storicità: condizione comune della Chiesa e del mondo

 La Chiesa è, sì, frutto della gratuita iniziativa di Dio, ma essa condivide con il mondo lo statuto della mutevolezza e della precarietà. Vivendo ed operando nella storia essa sa di non potersi considerare una realtà definitiva ed immobile, ma di essere soggetta al divenire storico e quindi alle necessarie modificazioni. La stessa presenza santificante dello Spirito in seno alla Chiesa non la pone al riparo dalla fatica della storia e da quel continuo discernimento che le mutate condizioni storiche richiedono.

Per il Concilio la legge della storicità riguarda la stessa comprensione della Parola di Dio e del suo disegno di salvezza: «Questa tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali la meditano in cuor loro, sia con l’esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. La Chiesa, cioè, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio» (Dei Verbum, 8).

Non diversamente dal mondo anche la Chiesa, pur avendo ben presente il mistero che la abita e la rende distinta dal mondo, scopre di dover condividere con esso la fatica del cammino attraverso la storia, che è il luogo della libertà e della responsabilità. Se la storia è costruzione progressiva di un significato, la Chiesa, in quanto popolo di Dio, si ritrova ad avanzare nel cammino della storia umana cercando di comprendere nell’oggi il disegno di Dio.

Dio stesso nella sua condiscendenza ha accettato di “farsi uomo” nel volto concreto di Gesù di Nazareth, facendo propria la peculiarità dell’avventura umana caratterizzata, soprattutto, dalla chiamata a vivere nel segno della libertà e della responsabilità; a motivo di tutto ciò la stessa Chiesa non può fare a meno di riscoprire che la legge dell’incarnazione la riguarda profondamente. In questo senso si può ben parlare di laicità della Chiesa, in quanto anch’essa impegnata a ricercare la volontà di Dio all’interno di una congerie di fatti e di avvenimenti, che se da una parte rendono faticoso il discernimento, dall’altra costituiscono l’oggi della risposta alla Parola di Dio. «Alla Chiesa — scrive Barbaglio — è stato affidato il Vangelo […], nelle sue mani tiene la S. Scrittura. Ma l’assolutezza di Cristo, del Vangelo e della Bibbia non vuol dire l’assolutezza delle posizioni che la Chiesa ha preso ispirandovisi. Queste ultime, infatti, non sfuggono alla legge della storicità e quindi sono soggette alla provvisorietà, mutabilità, perfettibilità. L’assolutezza della Parola di Dio va di pari passo con la storicità dell’ascolto e della lettura interpretativa, propria della Chiesa»[2]. 

Mondo e Chiesa, in realtà, sono strettamente accomunati dalla stessa condizione di provvisorietà, di parzialità, di apertura al nuovo e all’inedito, perché Dio ha scelto di portare a compimento il suo Regno rischiando sulla libertà delle creature umane. «La libertà divina — scrive Congar — si muove con sicurezza nella dinamica delle libertà umane, delle loro svolte e dei loro conflitti»[3]. Il problema della libertà riguarda il mondo, che ogni giorno deve fare i conti con scelte e visioni diverse, ma riguarda anche la Chiesa nella sua realtà di popolo, impegnato a crescere e a rispettare il valore di ogni coscienza umana. Nel quotidiano “farsi” del mondo tra conflitti, cadute e parziali conquiste, la Chiesa è chiamata ad essere a sua volta l’umile segno di un’umanità, che si pone in sincero ascolto di un Dio che chiama tutti gli uomini ad entrare nel suo Regno, nell’esperienza di una comunione che non mortifica, ma che esalta il valore di ogni creatura umana.

 

Nella compagnia degli uomini

 Il documento conciliare Gaudium et Spes costituisce certamente una pietra miliare, in quanto ha inaugurato un modo nuovo di concepire la presenza della Chiesa nella storia degli uomini. Il mondo non è soltanto il luogo della perdizione, ma lo spazio in cui gli uomini lavorano, amano, soffrono, progettano, confliggono, ricercano un senso al loro quotidiano agitarsi. Nel vangelo di Giovanni è gridato a chiare lettere che questo mondo è considerato da Dio come un “soggetto”, come un “Tu” con cui intrecciare una relazione di amore: «Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16). Nella carne del Figlio tutta la realtà mondana è visitata in tutti i suoi possibili inferni per essere abbracciata, amata, salvata.

La Chiesa, in quanto porzione di questo mondo che ha preso coscienza di essere gratuitamente amata, scopre a sua volta di essere coinvolta nello stesso abbraccio del Figlio. Essa impara, cioè, ad abitare la storia degli uomini non in atteggiamento di giudizio e di condanna, ma nell’umile condivisione della fatica umana, lasciando che il lieto annunzio del Vangelo squarci le tenebre di un cuore umano, rinchiuso nella propria cecità e presunzione. Nel documento conciliare possiamo leggere queste parole: «Perciò la Chiesa, che è insieme società visibile e comunità spirituale, cammina insieme con l’umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena ed è come il fermento e quasi l’anima della società umana, destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio» (Gaudium et Spes, 40). Il “camminare insieme” dice chiaramente che la storia è unica, tutta protesa verso quella terra nuova, che è data dall’umanità del Cristo, il nuovo Adamo, il primogenito dei risorti.

Nella lettera ai Romani l’apostolo Paolo mette sullo stesso piano la condizione dei credenti e quella di tutto il creato. I primi si riscoprono arricchiti, anche se nella modalità della caparra, del dono dello Spirito del Signore, che dinamizza dal di dentro la loro vita e fa affiorare in loro la coscienza di essere figli del Padre. Il creato a sua volta sente dentro sé la pressione dello Spirito che lo impegna in un faticoso parto, finché non venga alla luce il mondo nuovo: «Sappiamo bene, infatti, che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Rm 8,22-23). La “compagnia”, che la Chiesa è chiamata ad esprimere nei confronti del mondo, si concretizza soprattutto in questo saper fare proprio il “gemito”che sale da tutti i sotterranei della storia. Non c’è dolore, non c’è emarginazione, non c’è rifiuto o negazione di ogni genere che non interpelli il cuore della Chiesa, perché sia pronta a testimoniare nelle strade di questo mondo la speranza che la abita.

Se il Concilio invita tutta la Chiesa a saper “camminare insieme” a questa umanità di oggi, tutto questo non può tradursi in una presunzione di saper gestire le cose del mondo o di aver diritto a dover esercitare una fetta di potere per dare un’accelerazione al cammino della storia, perché è proprio lo stesso Concilio a ricordare ai credenti in Cristo che il posto della Chiesa è ben altro: «Essa non rivendica a se stessa altra sfera di competenza se non quella di servire amorevolmente e fedelmente, con l’aiuto di Dio, gli uomini. I discepoli di Cristo, mantenendosi in stretto contatto con gli uomini nella vita e nell’attività, si ripromettono così di offrire loro un’autentica testimonianza cristiana e di lavorare alla loro salvezza anche là dove non possono annunciare pienamente il Cristo» (Ad Gentes, 12).

La fiducia certa di essere una realtà immersa nella vita del Cristo permette alla Chiesa di superare i codici della separatezza tra sacro e profano, di sentirsi libera da qualsiasi tentazione di integrismo o di possesso esclusivo della verità nella piena convinzione che il cammino dell’umanità è anche il suo, perché in questo cammino è presente l’opera dello Spirito, che tutto riconduce all’unità del Cristo.

 

Una comunità “debole” in dialogo con il mondo

 La Chiesa che si scopre “compagna di viaggio” dell’umanità è anche una Chiesa chiamata continuamente a riscoprire il valore del dialogo, perché essa sa di non avere con sé nient’altro di suo che il Vangelo del suo Signore e di non sapere e di non poter annunziare nient’altro che la venuta tra noi del Verbo di Dio, la sua passione, morte e resurrezione. Scrive Congar che «questo popolo di Dio è oggi chiamato a quella forma di povertà spirituale, che consiste nel’accettare l’insicurezza dell’inatteso. […] Il dialogo in quanto apertura all’altro è accettazione del nuovo e dell’inatteso. Non significa rinunziare alle proprie certezze, ma significa accettare di superare sé mediante l’altro, accettare che l’altro abbia qualcosa da rivelarci»[4].

L’apertura al dialogo da parte della Chiesa trova il suo fondamento nella convinzione profonda che il Cristo glorioso «opera nel cuore degli uomini con la virtù del suo Spirito» (Gaudium et Spes, 38), per cui la Chiesa nei confronti del mondo non ha soltanto qualcosa da dire, ma molto da ascoltare, accogliendo tutti quei valori di bontà e verità che sono testimoniati fuori dagli angusti confini della confessione religiosa. Il Concilio nella Gaudium et Spes ricorda il debito che la Chiesa ha verso la comunità degli uomini, perché essa «non ignora quanto abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano» (n. 44).

Questo passaggio della Gaudium et Spes è davvero molto importante perché dice con chiarezza che tutte le ricchezze delle varie culture, i risultati delle ricerche umane nel corso del tempo, tutto il cumulo delle varie esperienze umane, da qualunque parte provengano, possono costituire un valido aiuto per la Chiesa nel suo impegno di ricerca sulla verità dell’uomo. Essendo essa sempre in ricerca nei confronti della verità non può fare a meno di ascoltare: «È dovere di tutto il Popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, di ascoltare attentamente, capire ed interpretare i vari modi di parlare del nostro tempo e di saperli giudicare alla luce della Parola di Dio, perché la Verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta» (n. 44). L’ascolto delle voci del nostro tempo e anche di voci non cristiane, da qualunque parte provengano, aiuta, secondo le parole del Concilio, la Chiesa nel suo cammino di comprensione della Verità rivelata e della natura dell’uomo e ad interpretare meglio il progetto di Dio nell’oggi della storia umana.

Così facendo il Concilio richiama la Chiesa alla sua identità “laicale”, di popolo, cioè, impegnato a camminare per i sentieri della storia alla ricerca e alla comprensione della verità dell’uomo, della sua vera natura, ma soprattutto impegnato ad ascoltare quanto di buono e di nuovo emerge dalle culture e dalle scienze umane. Tra la comunità dei credenti ed il mondo della non-fede esiste uno spazio comune, che è dato dalla ricerca e dal dubbio e che consente la possibilità di dialogare. Un cristiano come Pietro Scoppola arriva a dire che in tutte e due le posizioni «comune è il rifiuto dell’integralismo, di ogni integralismo religioso o laico; dell’atteggiamento spirituale, che nasce dalla pretesa di un possesso della verità come cosa propria e che perciò stesso nega la trascendenza. Non c’è fede senza il senso del mistero»[5]. In realtà siamo tutti coinvolti in un comune cammino, che richiede disponibilità al cambiamento e alla conversione verso una verità che trascende sempre le nostre possibili comprensioni.

La laicità, in questo senso, assume i tratti di un vero abito mentale, di un modo di essere e di pensare le relazioni umane, un vero e proprio stile di vita, che è quello di chi in ogni ricerca di senso, con autonomia e indipendenza, parte da domande cui sa già di poter dare risposte provvisorie, raggiunte con il dubbio, la riflessione e il dialogo.

 

La laicità della Chiesa: profezia per il mondo

 La Chiesa, nel suo umile convincimento di essere una realtà in cammino, non soltanto mostra una capacità di “aggiornamento”, unita ad un atteggiamento di conversione e di riforma, ma allo stesso tempo essa può essere in mezzo all’umanità un segno di vera profezia. Più essa fa suo uno stile contraddistinto dalla laicità, più essa si confermerà in «uno sguardo sempre più penetrante, che scopre ovunque la presenza dello Spirito, nella buona volontà di ciascuno ed anche sotto le macerie causate dal peccato»[6]. È uno sguardo che impegna la Chiesa, in quanto Popolo di Dio, nell’unico abbraccio del Cristo nei confronti di un mondo da Lui redento e che la spinge a saper riconoscere nella confusione della storia degli uomini i segni della storia salvifica, frutto dell’opera dello Spirito che muove il mondo intero verso la terra promessa, verso l’approdo Trinitario.

Ciò a cui la Chiesa ed i singoli cristiani sono chiamati, è soprattutto il discernimento spirituale, cioè l’intelligenza degli eventi compresi alla luce della Parola e del mistero pasquale di Cristo. Si tratta di un “conoscere”, di un rendersi conto del dolore dell’altro, diventando “memoria passionis”, ascolto di un grido che sale da un’umanità ferita, fatta di uomini, donne, bambini, vittime spesso di una quotidianità divenuta per tanti insopportabile: relazioni infrante, lutti, abbandoni, infermità, handicap, droga, abusi di ogni tipo con il conseguente effetto di disagi, sofferenze o malattie psichiche. Più la Chiesa-popolo di Dio si lascia totalmente guidare dallo Spirito nella comprensione del progetto di Dio nell’ascolto della sua Parola e più essa si ritrova a porre come criterio fondamentale del proprio operare la sofferenza dell’altro.

Una Chiesa siffatta, che si riscopre quotidianamente come realtà amata gratuitamente da Dio, è davvero capace di dire una parola, che sia davvero frutto di quest’amore sperimentato e che si traduce soprattutto in disponibilità ad accogliere il volto dell’altro, per costruire con lui percorsi di vera fraternità. Lasciandosi conformare sempre più al suo Signore e Sposo, questa comunità di credenti cammina con tutti gli uomini lasciando trasparire dai suoi gesti e dalle sue parole la possibilità di crescere in umanità. Essa si presenta come «segno dei segni e quindi profezia dell’amore che conosce e che annunzia non come mero futuro sperato e intravisto, ma anche come presente amante che anticipa nelle mani umane il futuro che sa di abitare nelle mani divine; anzi conosce le proprie mani come divine avendo incontrato l’operare umano di Dio»[7].

[1] Prefazio della Messa nella Solennità di Gesù Cristo, Re dell’Universo. 

[2] G. Barbaglio, La laicità del credente, Cittadella Editrice, Assisi (PG) 1987, 123. 

[3] Y. M.-J. Congar, La chiamata di Dio, in Aa.Vv. Il popolo di Dio nel cammino dell’umanità, Ed. AVE, Roma 1970, 53.

Ivi, 51.

[4] P. Scoppola, Un cattolico a modo suo, Morcelliana, Brescia 2008, 98.  

[5] B. Forte, La Chiesa della Trinità, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1995, 343. 

[6] G. Trabucco, La Chiesa, signum humanitatis, in Servitium, 49 (1990) 54.

 

Gregorio Battaglia

Fraternità Carmelitana

98051 Pozzo di Gotto (ME)

 


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