"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"  -  Sezione "SPIRITUALITA' E FEDE"



  

Riflessione pubblicata su HOREB numero 52 – 1/2009.

                                      "Come forestieri e pellegrini nella storia. La laicità della vita cristiana" 


“IL VELO DEL TEMPIO SI SQUARCIÒ”

La Laicità di Gesù*

di Maurilio Assenza

Ci sono dei temi che sembrano astratti, per addetti ai lavori. La gente vive le fatiche e le gioie di ogni giorno e a prima vista non gli interessa molto se nella chiesa ci sia un ritorno di clericalismo o meno; però, al tempo stesso, cerca di elaborare una sapienza (anche “provvisoria”) per illuminare l’esistenza e chiede alla chiesa, in modo più o meno consapevole, quell’autenticità che nasce dalla freschezza e dalla bellezza del vangelo. D’altra parte in troppi discorsi sulla vita cristiana si dà per scontato il riferimento a Gesù, sovrapponendovi tanto altro che spesso fa dimenticare ciò che ci è più proprio e che il “mondo” non ha.

Il tema allora lo trattiamo con questa tensione: cercando di “fissare lo sguardo su Gesù” oltre ogni ovvietà, vorremmo comprendere come nella sua vita (accomunata alla vita di tutti, fuori da ogni sacralità recintata) e in quel momento che la condensa con intensità e attualità unica (la sua ultima cena) si possano incontrare la rivelazione e la presenza di Dio. Senza troppo esplicitarlo, capiremo anche come questa percezione possa illuminare, riscaldare, rinfrancare, rendere più autentica la vita nostra e di molti.

Avviamo la ricerca a partire da un testo molto noto come la cacciata dei mercanti del Tempio, e dal commento che ne fa il biblista Romano Penna. Nell’episodio e nel detto che l’accompagna (soprattutto in Gv 2,19: «Distruggete questo Tempio e in tre giorni io lo farò risorgere») c’è molto di più rispetto a quello che appare a prima vista, e cioè la critica all’uso commerciale del sacro. C’è un gesto profetico e rivelativo. Come sottolinea Penna, «il gesto compiuto da Gesù nasconde la convinzione che ormai la misericordia di Dio è raggiungibile per altre vie che non sono più quelle di un culto puntigliosamente regolato e costoso. Dio ora si rende accessibile essenzialmente nella proposta-accettazione della sua regalità salvifica, di cui Gesù stesso è annunciatore e portatore […] Nel gesto quanto nel loghion manca ogni richiamo al tradizionale tema giudaico del pentimento e del conseguente ritorno alla Legge in vista del perdono divino: evidentemente per lui la restaurazione d’Israele non è legata a questi mezzi, ma si impone da sola in connessione con il suo personale intervento» [1].

                 Ci soffermeremo, allora, su alcuni tratti dello stile di Gesù che ci mostrano come Dio si faccia presente in una vita che si accomuna alla nostra, per passare a cogliere la portata del suo sacerdozio in cui si supera quella ritualità sacrale che separa e sottomette ad un “divino tremendo” e si annuncia la misericordia come il vero volto di Dio. «Sacerdozio nuovo, trono della grazia» – è detto nella Lettera agli Ebrei.

 

«Gesù era semplicemente un uomo»

 «Gesù — nota Bonhoeffer — certo a differenza di Giovanni Battista [“homo religiosus”], era semplicemente un uomo»[2]. Dobbiamo aggiungere: un ebreo. Un ebreo che non era di tribù sacerdotale. E nella sua formazione e nel suo linguaggio — come sottolinea Rossi De Gasperis — non sembra secondario l’ambiente fisico, quel paesaggio che verso il Nord della Galilea si presenta con una vegetazione ricca e varia, senza quel ruolo totalitario che in Egitto ha il Nilo. Possiamo immaginare (continuo a fare tesoro, sintetizzandole, di interessanti annotazioni del biblista gesuita) che Gesù abbia ringraziato con le parole dei salmi e che da qui abbia tratto gli esempi usati nella sua predicazione: la donna che fa il pane, la rete dei pesci, il seminatore, i bambini che giocano sulla piazza del villaggio senza mettersi d’accordo, il contatto con la terra.

Gesù, soprattutto, è un uomo sfuggito al fanatismo degli “spirituali”, dei chassidim di Gerusalemme che non coltivano la terra e studiano sui libri facendo della religione una professione. D’altra parte Gesù sfugge anche al fanatismo di coloro che si occupano solo degli affari, del guadagno, della politica, che pensano che fede e religione rappresentino un’alienazione dell’uomo-nel-mondo. Gesù non si presenta neppure come un rivoluzionario o un innovatore. Egli non spezza la canna incrinata, non spegne il lucignolo che ancora arde, ma reintegra e serve tutti (cf. Is 42,1-9). Cura, non le anime, ma gli uomini nella loro interezza di corpo-anima-spirito e vive in un rapporto di accettazione della realtà così com’è: creazione di Dio. Gesù non è servo del “cielo”, di un’entità noumenica tremenda e impenetrabile, ma figlio del Padre creatore[3].  

Entro questo sfondo si colloca il modo di comunicare di Gesù, fatto non solo di parole ma anche di segni, di silenzi, di sguardi. Ogni cosa con un preciso stile. Così i miracoli non sono fatti per esibire potenza, ma per rivelare. Il silenzio non è genericamente reattivo, ma comporta l’interruzione di facili illusioni sul Messia potente e ritorna davanti agli arroganti e ai potenti (cf. gli episodi dell’adultera perdonata e di Gesù davanti a Pilato). Il suo sguardo sulla realtà è poetico e religioso; quando incontra l’altro diventa uno sguardo amante, a volte anche triste (pensiamo all’incontro con il giovane ricco), ma sempre per amore. Quanto alla sua parola, essa è concreta e intelligente, va al cuore delle questioni, sfugge ai tranelli, nelle parabole interpella lasciando liberi ma anche liberando. Proprio le parabole sono «la punta più alta e geniale, più rifinita del suo linguaggio. La comunicazione parabolica non avviene attraverso una luce che acceca, ma attraverso un’intuizione, un lampo, che insieme mostra e nasconde. Questo non semplicemente perché ciò che si intende comunicare è un mistero grande che non può essere detto diversamente, ma perché la sua accoglienza possa appartenere veramente all’uomo, essere risposta e non sopraffazione» [4].

Entro questo sentire di Gesù [5] emerge una tensione morale situata e aperta al tempo stesso, centrata sull’amore, tesa a superare ogni separazione, ad iniziare dal codice del puro e dell’impuro (cf. Mt 23, 25-26) [6], riportando nel cuore dell’uomo la radice della grande lotta tra bene e male, vita e morte, creatività e distruttività.

Gesù va anche ai nodi della vita, come il potere e il sacro, trattandoli in modo non ideologico o moralistico ma rilevando cosa è in gioco in profondità, con sapienza “spirituale” (viene spontaneo auspicare che essa possa diventare il timbro prevalente anche nel nostro parlare ecclesiale odierno).

Quanto alla questione del potere il passo più noto è il detto che ha ispirato tutta una tradizione di sana distinzione nel rapporto tra fede e politica: «Restituite a Cesare quel che è di Cesare, ma quello che è di Dio restituitelo a Dio». In un pronunciamento doppio come questo — sottolinea Giuseppe Barbaglio —, l'accento cade sul secondo. Si tratta, allora, non solo di distinguere due sfere — evitando ogni forma di commistione a cui spingono le diverse elaborazioni di integralismo religioso o di religione civile, presenti al tempo di Gesù come nel nostro — ma, più in profondità, si tratta di ritrovare la vera libertà generata da una relazione filiale con Dio vissuta come Gesù: relazione di affidamento che libera da ogni servilismo e permette di vincere il “deserto”, di far rifiorire la terra come giardino di Dio in cui si intrecciano relazioni vere, buone e belle, liberanti e non asserventi.Tra “piccoli” che si riconosco fratelli, con amore di tenerezza e di perdono come quello testimoniato dal Piccolo e dal Figlio per eccellenza che è Gesù. Per questo occorre alla radice superare la sottomissione, non solo al potere dell’uomo, ma in primis all’immagine sacrale (che un po’ tutti ci portiamo dentro) di una divinità tremenda perché sconosciuta, di una divinità che si cerca di placare con dei sacrifici corrispondenti anche al desiderio dell’uomo di far “parlare” in qualche modo quest’entità sovrastante. [7]

Gesù, a questa paura, oppone la rivelazione (e quindi la conoscibilità e l’offerta gratuita) del vero volto di Dio che è misericordia. Nota Roberto Mancini (autore che riprendo per questo aspetto, sintetizzando anche in questo caso alcune sue riflessioni) come Gesù parli di sacrificio ma per escluderlo, invitando chi assume come propria la sua volontà e quindi quella del Padre suo, a scegliere di essere misericordioso (Mt 9,13 e 12,17). Così, alla domanda dei farisei ai discepoli — «Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?» —, Gesù risponde: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: “Misericordia io voglio e non sacrificio”. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori». Gesù interviene direttamente, perché solo lui può illuminare la novità di un amore totalmente generoso e misericordioso di cui i discepoli non avrebbero saputo dar conto, possibilità che viene aperta anche per i farisei, invitati ad imparare [8].

Non è facile. La presenza della logica sacrificale, infatti, è vasta e radicata più o meno consapevolmente nel nostro cuore per la plausibilità con cui si presenta: i pesi del negativo dell’esistenza devono essere portati da qualcuno. E tuttavia bisogna sempre ricordare che accogliere la logica sacrificale significa accogliere la logica della distruzione che essa porta con sé, i pesi della colpa e dell’autopunizione che ne derivano. Il che è inaccettabile: «le forze di guarigione dal male sono la fedeltà e la fiducia, la speranza e il perdono, la compassione e la misericordia, il coraggio e la condivisione, ossia le virtù di un amore che mai si fa distruttivo. Di un amore che porta il negativo, ma senza riprodurlo e diffonderlo»[9]. Accettare la logica sacrificale significherebbe soprattutto tradire la volontà di Dio e travisare la croce di Cristo, che non è semplicisticamente sofferenza salvifica ma è anzitutto l’esperienza di un amore che va fino in fondo e che, per questa sua fedeltà, porta su di sé gli effetti di sofferenza, morte e delirio di quanti, accecati, respingono questo amore incondizionato, offrendo il perdono di Dio all’umanità tutta e così rigenerandola alla vita [10].

 

«Una via nuova e vivente» per la comunicazione tra Dio e gli uomini

 Per cogliere il senso autentico della croce di Gesù, che la Lettera agli Ebrei interpreta come un «nuovo sacrificio», seguo i testi  molto belli e illuminanti del card. Albert Vanhoye. Il sacrificio di Cristo — chiarisce — non è tale nel senso ordinario del termine (sacrificio di privazione) ma è invece una santificazione (un «rendere sacro») attraverso la lode, la purificazione, la liberazione, l’alleanza. Un sacrificio di lode, allora, anzitutto. Nell’Antico Testamento era previsto tale tipo di sacrificio per uno scampato pericolo. Il fatto straordinario è che Gesù lo pone invece all’inizio e non solo alla fine dei suoi gesti fondamentali (così nei racconti dell’ultima cena e della moltiplicazione dei pani, prima della resurrezione di Lazzaro…). Si esprime in questo modo il senso che ha per Gesù la lode: un continuo ricevere tutto dal Padre. L’amore filiale è necessariamente un amore riconoscente. «Se invece di lamentarci — sottolinea Vanhoye — di ciò che non abbiamo, ringraziassimo per ciò che abbiamo, la nostra situazione sarebbe trasformata: le anime che ringraziano fanno cose meravigliose» [11].

C’è di più: Gesù morto e risorto per noi ci assicura il perdono di Dio. Il risultato dei sacrifici antichi, secondo la Lettera agli Ebrei, era solo quello di rinnovare ogni anno il ricordo dei peccati, anche perché non si vede come un sacrificio di animali possa influire sull’animo umano; Cristo, invece, offrì se stesso: la sua offerta non è stata un sacrificio nel senso antico del termine, ma è stata un «obbedire» (cf. Sal 40) che ha trasformato la morte in sorgente di vita nuova attraverso la perfetta adesione alla volontà di Dio, la quale è una volontà di amore, e attraverso la completa solidarietà con la situazione drammatica degli uomini peccatori (cf. Eb 4,15-16; 5,1-10). Si tratta allora di un «sacrificio nuovo», certo di purificazione, ma anche e soprattutto di liberazione, di una liberazione intesa come un nuovo esodo, sottrazione al dominio del peccato e conseguente capacità di resistenza nella tentazione. Per una vera libertà in cui «si è schiavi gli uni degli altri» nell’amore; amore reso possibile dallo Spirito nella misura in cui – sull’esempio di Gesù – si obbedisce con docilità alla sua azione, senza stare troppo sulle difensive. Il sacrificio di Gesù diventa così il sacrificio della «nuova alleanza»: essa non sarà più qualcosa di esteriore, ma sarà una relazione di perfetta unione reciproca, unione personale, fondata sul perdono generoso di Dio.

Nell’eucaristia, che rinnova e attualizza il dono grandissimo che Gesù fa di se stesso nell’ultima cena e sulla croce, ci è data allora la possibilità di vincere tutti gli ostacoli all’amore, di sostenere con fiducia le pene subite, di lottare con speranza le situazioni ingiuste: «Accogliendo in noi questo cuore nuovo, per mezzo, in particolare, della comunione eucaristica, diventiamo capaci di vivere sempre più pienamente nella nuova alleanza con le sue dimensioni inseparabili di docilità filiale verso Dio e di solidarietà fraterna con tutte le persone umane. Non c’è niente di più bello e di più utile al nostro mondo»[12]. Al cuore della laicità allora, illuminata dalla vita di Gesù e dal nuovo sacerdozio da lui inaugurato, c’è, non più la sacralità che impaurisce e nemmeno quell’indifferenza verso Dio di persone sazie che si chiudono al dono o non lo ricercano, ma quella circolarità di amore senza misura che unisce il cielo e la terra e permette agli uomini di vivere e consolidare tensioni costruttive. «Tutte le separazioni antiche sono state abolite. Una “via nuova e vivente” esiste ormai per la comunicazione tra gli uomini e Dio (cf. Eb 10,20). Questa via è Cristo stesso, sacerdote perfetto, che nell’eucaristia mette a nostra disposizione le sue stupende capacità di relazione, acquisite a caro prezzo, affinché propaghiamo nel mondo la comunione nell’amore»[13]. Ci è data la  possibilità di entrare nel “riposo” di Dio, senza per questo nasconderci fatiche e prove, ma sempre tutto vivendo da figli con fiducia e amore, e così trasmettere a tutti il dono del vangelo nello stile stesso del vangelo, come auspicato dagli orientamenti pastorali dell’ episcopato italiano  al n. 10 di Comunicare il vangelo in un mondo che cambia.

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[1] R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. 1. Gli inizi, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1996, 73-74.

[2] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1988, 455.

[3] Cf. F. Rossi De Gasperis, La roccia che ci ha generato, Ed. ADP, Roma 1997, 21-22.

[4] B. Maggioni, Era veramente uomo, Ancora, Milano 2001, 6-7.

[5] Cf. G. Barbaglio, Gesù di Nazaret e Paolo di Tarso, EDB, Bologna 2006, 250.

[6] Cf. Id., La laicità del credente,  Cittadella Editrice, Assisi (PG) 1987, 81.

[7] «L’essere umano, a suo modo e tra mille equivoci, ama Dio, lo cerca come creatore, origine, salvatore, confida in lui, lo invoca. Ma non lo vede mai. L’angoscia di questa assenza permanente è profonda, suscita ancestrali sensi di colpa e di abbandono, nonché la credenza in una ovvia e abissale differenza ontologica tra il divino e umano, che è appunto il contrario esatto della figliolanza […] Quindi il sacrificio può essere anche letto, oltre che nei significati ricordati, come il tentativo umano di indurre la divinità a mostrare il suo volto, o a darci segni di benevolenza»: R. Mancini, Dal sacrificio alla misericordia: la parola inaudita di Gesù, in Parola Spirito e Vita, 54 (2006) 250.

[8] Cf. ivi, 241-242.

[9] Ivi, 254.

[10] Cf. ivi, 256-257.. 

[11] A. Vahnoye, Dio ha tanto amato il mondo. Lectio divina sul sacrificio di Cristo, Paoline, Milano 2007, 14..

[12] Ivi, 82.

[13] Id., La novità del sacerdozio di Cristo, in A. Vanhoye,-F. Manzi-U. Vanni, Il sacerdozio della nuova alleanza, Ancora, Milano 1999, 63

Maurilio Assenza

Viale Medaglie d’oro 87

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