Un paese dove si vive sempre in salita
Presentato ieri il 36mo rapporto annuale del Censis sulla società italiana.
Una società «poco reattiva e poco competitiva, che ama vivere bene»
ma che è «chiusa su se stessa», non ha più grandi aspettative economiche
per il futuro e si ritrova delusa da cultura capitalistica e globalizzazione
di FRANCESCA PILLA
Piatta, stanca, alla deriva, senza direzioni. Così il 36° rapporto del Censis vede l'Italia del 2002. Descrivendo la situazione di un paese che riflette un modello di società pericoloso, incapace di guardare alla crescita, poco competitivo, per niente reattivo, dove si insinua una «ambigua curvatura concava della vita collettiva» e ci si appiattisce sulla qualità del vivere bene. Ma non allarmiamoci troppo: la colpa, secondo l'istituto, non sarebbe tutta nostra. Paghiamo, infatti, lo scotto della promessa mancata di un futuro roseo basato sulla finanziarizzazione e sui processi di privatizzazione. Delusi, quindi, dalla cultura capitalistica, dalla globalizazione, dalla stessa costituzione europea e soprattutto dalla scoperta che la new economy non è una pentola d'oro, oggi ci ritroviamo con le pile scariche. Colpevoli d'altra parte, e rei confessi, per aver perso la sfida sull'innovazione, per l'atavica mancanza di progettualità, per la poca attenzione rivolta alla ricerca, non ci resta che fare mea culpa.
Così, dopo le diverse immagini alle quali da tempo il Censis ci ha abituato per descrivere la vita di casa nostra - dal «Paese della Bevagna» che «non s'ingaggia» o l'«economia del cespuglio» o ancora dai passi di Giacomo Leopardi del 2000, al rapporto «incazzato» del `99 - questo è l'anno dei consigli.
Provocatoriamente, le considerazioni generali del rapporto si aprono con una frase: «Diamoci una calmata e manteniamo la testa fredda, perché i problemi veri del paese richiedono serietà e pazienza, evitando il più possibile le esasperazioni emotive oggi così correnti». Lo ha ribadito il segretario generale Giuseppe De Rita durante la presentazione a Roma, riferendosi ai toni usati per discutere le sorti del paese. Ed è scritto a chiare lettere nelle pagine del «librone» stilato dall'istituto, che riporta un'ampia ricerca divisa in quattro sezioni.
Moderazione, quindi, rispetto alle decisioni per affrontare le condizioni generali, ma anche consapevolezza degli sbagli compiuti: la sferzata va alle mancate riforme istituzionali, alla personalizzazione del potere «cresciuto senza portare frutto», alla riduzione del federalismo a stanca traslazione sul livello regionale dell'ormai vecchio paradigma statuale. Serve «calma», perché se la mancanza di aspettative economiche è generalizzata a tutto il mondo Occidentale, da noi potrebbe avere ripercussioni più pesanti. Non si tratta di «declino» economico, si affrettano a precisare dal Censis, ma di un generale appiattimento che potrebbe determinare la totale stagnazione, al contrario di quanto avvenuto nel periodo tra il `93-'94, quando grazie agli impulsi delle prospettive di lungo periodo ci fu una rapida ripresa.
Ogni anno - mostrano i dati - in Italia nascono 55.000 nuove imprese, segno che l'economia è in movimento, ma siccome gli imprenditori perseverano nei vecchi modelli sono destinati a entrare negli ingranaggi del sistema e a perire in questi. Ogni anno, poi, ci sono 530.000 lavoratori (di cui 280.000 a tempo determinato) che cambiano lavoro. E anche se con queste stime lo stesso segretario tenta di mitigare l'impatto che la crisi Fiat avrà nella vita del paese - «se fossero tutti disoccupati ci sarebbe una vera rivoluzione», dice - che qualche problema ci sia in ogni caso lo ammette anche il Censis.
Nel paragrafo dedicato a «Le nuove reti sociali» è riportato nero su bianco che nel periodo gennaio-settembre 2002, le ore di lavoro perse per scioperi relativi alla politica economica, e non originate da conflitti di lavoro, hanno toccato quota 23 milioni, contro le 70.000 dello scorso anno. Per non parlare del chiaro segnale che viene dal nuovo fenomeno del movimento dei movimenti, dalle giornate di Firenze o dalle proteste dei disoccupati, Lsu, studenti, cittadini mobilitati sui diritti. E sebbene si tenti di celare alcuni aspetti del conflitto in atto, che non ci sia più pace sociale lo si dice anche all'istituto; confermando d'altra parte che le proteste e le preoccupazioni dei cittadini si riflettono nella sfiducia verso i rappresentanti istituzionali.
La pratica politica è sempre più confinata in uno spazio marginale, mentre la fiducia nei partiti si erode definitivamente (i militanti passano dal già residuale 1,7% del `93 all'1,5%). Cresce, invece, la voglia di «comunità» e «collettivismo». Gli italiani fanno riferimento in primo luogo a organizzazioni di volontariato (21%), alla chiesa (16%), ai sindacati e alle associazioni di categoria (14,2%).
Un altro punto caldo riguarda poi la devolution che spacca in due il paese. Esempio ne è la divisione netta sulla regionalizzazione della sanità. Il 56,3% è infatti favorevole, a fronte di un 43,7% che si esprime negativamente. A preoccupare di più in campo sanitario, ad ogni modo, sono le liste d'attesa per interventi, visite, esami nei centri pubblici. Il problema è sentito come principale dal 62,8% degli intervistati.
Dal rapporto del Censis gli italiani, comunque, sono dipinti come persone che amano la vita comoda (le loro spese per generi «di lusso» sono cresciute del 6% negli ultimi tre anni) si rifugiano nei piccoli centri (tra i 5 e i 20mila abitanti) lasciando le grandi città, guardano la tv, usano il telefonino. Mentre i giovani amano la radio (l'ascolta costantemente il 75% dei ragazzi), i programmi d'intrattenimento, il computer e internet. Ma chi pensa alle nuove generazioni essenzialmente come a dei perdigiorno si sbaglia. Il 60% dei giovani attribuisce alla cultura un ruolo centrale, mentre tra questi il 61% la ritiene indispensabile per costruire la propria identità e visione del mondo
Siamo infine un popolo di risparmiatori: lontani dalle piazze finanziarie, preferiamo i beni immobiliari.
Insomma, come spiega lo stesso De Rita, il nostro è «un paese attento al vivere bene, ma ripiegato nel concavo, ovvero nella dimensione personale, familiare, anziché sprigionare una proiezione convessa verso la competitività internazionale». Un paese dunque incline all'«imborghesimento» che, sottolinea De Rita, «in 40 anni ha portato solo un po' di televisione».
testo integrale tratto da "IL MANIFESTO" - 7 DICEMBRE 2002