Tettamanzi al suo primo discorso per S. Ambrogio

Decalogo per rifondare la città

 

di Vittorio Morero

L'appello del card. Tettamanzi alla coscienza, nel suo primo discorso alla città di Milano, è un evento formidabile: per il momento in cui avviene e per le implicanze concrete che da esso scaturiscono. Infatti l'appello a «risvegliare le coscienze» è un ricorso strategico alla fonte di ogni identità e quindi al profondo costitutivo di ciò che siamo e possiamo diventare. La coscienza non è solo lo specchio di un formalismo storico e anagrafico (chi sono io nella società), ma il segno tangibile di una vita, qualcosa che supera ogni altra conoscenza per collocarsi in una identità che ci trascende, ci sprona, ci rende capaci di costruire un avvenire; per noi credenti «il luogo umano nel quale l'uomo discerne il disegno di Dio», voce stessa di Dio marcata dentro di noi come evocazione creativa, capace di orientare, in grado di andare oltre e di superare ogni ostacolo. La coscienza ha accompagnato le grandi scelte de lla storia. Da quando i nomadi hanno iniziato a diventare stanziali fino al giorno cui la fede ha liberato l'uomo dalla sudditanza alla natura e al potere tirannico, non escludendo ogni altro progresso che abbia avuto come soggetto principe l'uomo nella sua persona e nella sua intangibilità di soggetto fornito di ragione e di trascendenza.
Perché questo messaggio è oggi formidabile come forza morale e istanza ineludibile? Perché noi oggi stiamo cercando un ancoraggio sicuro e fondato che molti indicano fuori da noi, in una contingenza che è effimera come il denaro, il successo, il potere sugli altri, mentre la coscienza ci indica un'ambizione interiore che è il riconoscimento di ciò che è vero e di ciò che è giusto. Il ricordo dei tempi di Ambrogio permette persino al cardinale Tettamanzi di ripetere quasi alla lettera - dinanzi alla società secolarizzata - il lamento del primo vescovo di Milano per un «impero apparentemente forte e splendido, che però non aveva più anima». Oggi troppi con la scusa dell'emancipazione non si chiedono se quello che fanno corrisponde a verità e giustizia (e la verità e la giustizia è l'uomo nella sua integrità), ma se ciò che fanno conviene, produce, guadagna, è soggetto ad applausi, a facili consensi. Non la coscienza illuminata è criterio e binario di vita, ma la rendita immediata. Prima di chiedersi se la scelta è giusta, vera, buona, troppi si chiedono se conviene, se rende, se accarezza gli istinti. Ebbene, non sempre ciò che ci conviene è vero e buono, non sempre il nostro interesse è giusto e coincide con l'interesse di tutti. Insomma, una moralità senza coscienza è sovente un pretesto, un inganno, un'oppressione e quindi è più un'amoralità che una moralità . La nostra - dice il cardinale di Milano - è una «coscienza aggredita», accecata, resa fragile da un soggettivismo che declina l'indifferenza, resa confusa e irresponsabile.
Senza dubbio il richiamo alla coscienza ha innumerevoli implicanze concrete, a cui il cardinale non sfugge così da proporre alla sua città una specie di decalogo «unico e stimolante», un vero itinerario di rifondazione e di rinnovamento.
Si parte dal servizio («l'uomo non è fatto per la menzogna») ci si inoltra sul sentiero dei doveri da compiere nella vigilanza, si riconosce la dignità di ogni persona, ci si apre alla trascendenza prestando attenzione alla dimensione religiosa dell'esistenza, instaurando un'alleanza feconda fra scienza e sapienza, vivendo un impegno di vita nella dedizione e nel servizio, si offre all'impegno individuale una dimensione politica e sociale al servizio del ben e comune, prestando da parte di tutti un vero culto alla legalità sposata alla moralità, per concludersi alla scuola illuminante della legge di Dio che è luce, conforto e speranza.
Un decalogo positivo che non viene ricordato per elencare i mali delle nostre città (la classifica dei loro mali è stata stilata di recente sotto l'aspetto della non vivibilità) ma per «onorare la nostra dignità» - come suggerisce l'arcivescovo - «per esaltare la nostra libertà e per assicurare la nostra piena felicità». Un grande dono che si salda con una ricca tradizione di spiritualità che nasce da Ambrogio e oggi si rinnova nel solco di quella ambrosianità che è sinonimo di alto impegno morale esemplare per tutti.
 

testo intregrale tratto da "Avvenire" - 7 dicembre 2002

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Casella di testo: Tettamanzi al suo primo discorso per S. Ambrogio
Decalogo per rifondare la città

di Vittorio Morero 
L'appello del card. Tettamanzi alla coscienza, nel suo primo discorso alla città di Milano, è un evento formidabile: per il momento in cui avviene e per le implicanze concrete che da esso scaturiscono. Infatti l'appello a «risvegliare le coscienze» è un ricorso strategico alla fonte di ogni identità e quindi al profondo costitutivo di ciò che siamo e possiamo diventare. La coscienza non è solo lo specchio di un formalismo storico e anagrafico (chi sono io nella società), ma il segno tangibile di una vita, qualcosa che supera ogni altra conoscenza per collocarsi in una identità che ci trascende, ci sprona, ci rende capaci di costruire un avvenire; per noi credenti «il luogo umano nel quale l'uomo discerne il disegno di Dio», voce stessa di Dio marcata dentro di noi come evocazione creativa, capace di orientare, in grado di andare oltre e di superare ogni ostacolo. La coscienza ha accompagnato le grandi scelte de lla storia. Da quando i nomadi hanno iniziato a diventare stanziali fino al giorno cui la fede ha liberato l'uomo dalla sudditanza alla natura e al potere tirannico, non escludendo ogni altro progresso che abbia avuto come soggetto principe l'uomo nella sua persona e nella sua intangibilità di soggetto fornito di ragione e di trascendenza. 
Perché questo messaggio è oggi formidabile come forza morale e istanza ineludibile? Perché noi oggi stiamo cercando un ancoraggio sicuro e fondato che molti indicano fuori da noi, in una contingenza che è effimera come il denaro, il successo, il potere sugli altri, mentre la coscienza ci indica un'ambizione interiore che è il riconoscimento di ciò che è vero e di ciò che è giusto. Il ricordo dei tempi di Ambrogio permette persino al cardinale Tettamanzi di ripetere quasi alla lettera - dinanzi alla società secolarizzata - il lamento del primo vescovo di Milano per un «impero apparentemente forte e splendido, che però non aveva più anima». Oggi troppi con la scusa dell'emancipazione non si chiedono se quello che fanno corrisponde a verità e giustizia (e la verità e la giustizia è l'uomo nella sua integrità), ma se ciò che fanno conviene, produce, guadagna, è soggetto ad applausi, a facili consensi. Non la coscienza illuminata è criterio e binario di vita, ma la rendita immediata. Prima di chiedersi se la scelta è giusta, vera, buona, troppi si chiedono se conviene, se rende, se accarezza gli istinti. Ebbene, non sempre ciò che ci conviene è vero e buono, non sempre il nostro interesse è giusto e coincide con l'interesse di tutti. Insomma, una moralità senza coscienza è sovente un pretesto, un inganno, un'oppressione e quindi è più un'amoralità che una moralità . La nostra - dice il cardinale di Milano - è una «coscienza aggredita», accecata, resa fragile da un soggettivismo che declina l'indifferenza, resa confusa e irresponsabile. 
Senza dubbio il richiamo alla coscienza ha innumerevoli implicanze concrete, a cui il cardinale non sfugge così da proporre alla sua città una specie di decalogo «unico e stimolante», un vero itinerario di rifondazione e di rinnovamento. 
Si parte dal servizio («l'uomo non è fatto per la menzogna») ci si inoltra sul sentiero dei doveri da compiere nella vigilanza, si riconosce la dignità di ogni persona, ci si apre alla trascendenza prestando attenzione alla dimensione religiosa dell'esistenza, instaurando un'alleanza feconda fra scienza e sapienza, vivendo un impegno di vita nella dedizione e nel servizio, si offre all'impegno individuale una dimensione politica e sociale al servizio del ben e comune, prestando da parte di tutti un vero culto alla legalità sposata alla moralità, per concludersi alla scuola illuminante della legge di Dio che è luce, conforto e speranza. 
Un decalogo positivo che non viene ricordato per elencare i mali delle nostre città (la classifica dei loro mali è stata stilata di recente sotto l'aspetto della non vivibilità) ma per «onorare la nostra dignità» - come suggerisce l'arcivescovo - «per esaltare la nostra libertà e per assicurare la nostra piena felicità». Un grande dono che si salda con una ricca tradizione di spiritualità che nasce da Ambrogio e oggi si rinnova nel solco di quella ambrosianità che è sinonimo di alto impegno morale esemplare per tutti. 

testo intregrale tratto da "Avvenire" - 7 dicembre 2002