«Noi cristiani,in fuga dal Sudan che ci perseguita»
Parla Kuong, 27 anni, studente in Italia: da noi
i musulmani perpetrano un genocidio di cui non si parla
Di Lucia Bellaspiga
Un "cane infedele": è con lui che abbiamo appuntamento in stazione Centrale, a Milano. Perché questo è per la legge sudanese Kuong Daxi, un cane infedele. Di etnia Nuer, 27 anni, fa parte di quel popolo in fuga che sono i cristiani del Sudan meridionale, 5 milioni tra cattolici e protestanti (il 16% della popolazione) in un mare di islamici votati al jihad, la guerra santa. «Nel mio Paese è in corso la più grande strage del secolo, ma nessuno ne parla - dice già mentre ci stringe la mano -: sono 2 milioni le vittime del genocidio con cui il nord islamico, sta sistematicamente annientando il sud, ma Europa e America tacciono». Due milioni di persone trucidate nella più generale indifferenza.
Sono tanti in stazione i neri d'Africa, ma Kuong, alto e fiero, è l'unico Nuer: «Vede? Questo segno ci distingue: sei lunghi tagli incisi sulla fronte col coltello quando compiamo 15 anni». Un rigo musicale che Kuong porta con dignità, come una corona. E spiega: il Sudan è il Paese più grande di tutta l'Africa e la guerra che vi si combatte è la più lunga del Novecento, ma nessuno se ne accorge. «Eppure è rumorosa, fatta di bombardamenti quotidiani, deportazioni in massa, torture, stupri, compravendita di schiavi». E di bambini rapiti e mandati a combattere la loro stessa gente: «Il regime di Karthoum ha deciso la scientifica eliminazione di tutti gli abitanti del sud, colpevoli di due "crimini": siamo cristiani e abitiamo una regione ricca di petrolio. Bisogna fare piazza pulita e ogni mezzo è valido». È per questo che i suoi due nipotini, 10 e 12 anni, figli dei suoi fratelli, lo scorso aprile sono spariti nel nulla, portati via in piena notte dai soldati del nord. Oggi mancano all'appello, come altri 200mila: con la complicità di locali capi corrotti i bambini e le bambine vengono venduti alle ricche famiglie arabe, o addestrati a combattere. «Le bambine sono violentate e fatte schiave. I bambini mandati alle armi. Ed entrambi sono costretti a studiare il Corano». Solo i missionari e i volontari delle organizzazioni umanitarie si oppongono, a rischio della vita: «Ricomprano migliaia di bambini e li restituiscono alle famiglie. Anche i miei fratelli vorrebbero pagare il riscatto per i loro figli ma io penso che non sia giusto: finché staremo al ricatto non saremo mai liberi.
Invece conosciamo il generale corrotto che li ha venduti ed è su di lui che dobbiamo agire per avere giustizia».
Anche tra gli adulti la mattanza crea il vuoto. «C'è una sola speranza di scampare alla strage: convertirsi alla fede di Allah». È per questo che Kuong, iscritto alla facoltà di Farmacia a Pavia, dal 1994 si trova in Italia: «Non per ragioni di studio, per laurearmi bastava Karthoum, ma perché sono nato cattolico e tale voglio restare». Era infatti iscritto all'università di Karthoum, finché la dittatura si è fatta più feroce: «Le autorità hanno convocato 50 studenti, tutti cristiani, e ci hanno comunicato che, per continuare l'università, dovevamo abbracciare l'islam. Tutti abbiamo rifiutato e ne abbiamo pagato le conseguenze: io sono stato arrestato dalla polizia segreta e tenuto in isolamento per quattro giorni. Mi accusavano di avere legami con persone straniere, visto che ero cattolico, volevano i nomi di chi ci aiutava. "Parla o ti ammazziamo", mi dissero. Risposi di uccidermi senza chiedermi nulla. Dovettero lasciarmi andare».
Kuong scrisse al consiglio di facoltà una lettera, che lui stesso ci traduce: «Siamo cristiani, non possiamo patire che ci priviate del nostro credo. Nella vita la cosa più importante è la fede in Dio. Noi non siamo nemici dell'islam, rispettiamo la fede di tutti, ma chiediamo che anche voi rispettiate la nostra». Seguì la feroce reazione della polizia segreta, la sospensione dall'università, il rastrellamento di casa in casa. «Per il loro bene consigliavo ai miei amici, alcuni anche islamici, di non farsi vedere in giro con me - racconta Kuong -: uno di loro non mi diede retta e si fece 8 mesi di galera». Normale in un Paese in cui la Corte Suprema di recente ha stabilito che la crocefissione per chi si converte al cristianesimo è costituzionale. E la galera di Karthoum è di quelle che lasciano il segno, nella carne e nell'anima. «Mi ha salvato un frate italiano, di cui non farò il nome per non metterne in pericolo la vita - continua il giovane -: ha scritto all'ambasciata italiana di Karthoum e il vostro governo - era il 1994 - accolse tredici di noi. Gli altri lasciarono gli studi o accettarono di farsi islamici. Oggi siamo rimasti in cinque, gli altri non hanno passato gli esami e hanno perso la borsa di studio. Io a dicembre sarò laureato e tornerò in Sudan». A curare la sua gente o a imbracciare le armi, dipende: «Odio la violenza, non ho mai fatto male a nessuno, ma la nostra è una lotta per la libertà: la libertà di sopravvivere, di riavere i nostri bambini, di pregare Dio».
testo integrale tratto da "Avvenire" - 14 novembre 2002
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