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E NELL’ORA PIU’ SOLENNE
IL PING PONG DEI BATTIMANI
di Gian Antonio Stella
Applauso, applausino, applausone... Destra, sinistra, destra, destra, sinistra... Sarà anche scoccata l'Ora Solenne della Storia, quella in cui per la prima volta un Papa ha messo piede con dolorante fatica nella sede del Parlamento Italiano dopo un secolo e mezzo, certo è che troppi onorevoli La Trippa e troppi senatori Pizzighettoni l'hanno vissuta come fosse la solita faccenda di bottega. Per carità: massimo rispetto formale, come si doveva a quello che l'infuocato Padre Lombardi, tantissimo tempo fa, salutava quale «l'altezza vertiginosa dell'Uomo Bianco che vive in Vaticano al di sopra degli spazi e dei millenni».
Irene Pivetti si è dunque messa una veletta, Gabriella Carlucci ha rinunciato alle minigonne da infarto per un castigato tailleur stile Frau Rottenmeier e anche i più spiritati dei nostri parlamentari si sono dati per un'oretta una regolata.
La passione bottegaia con cui è stato accompagnato il discorso del Pontefice, però, con il tifo che s'infiammava da una parte o dall'altra a seconda che le parole sembrassero «di sinistra» o «di destra», è stata imbarazzante.
C'era tutto, ieri, per sottolineare la straordinarietà della giornata. Quella che finalmente sanciva con il ritorno del Papa in uno dei «suoi» palazzi, quel Montecitorio un tempo sede della Curia apostolica e poi del governatorato di Roma e della Polizia Vaticana. C'era la banda dei carabinieri in alta uniforme chiamata a suonare quell'Inno Vaticano che con le parole «non prevarranno la forza ed il terrore / ma regneranno la Verità, l'Amore» fu composto nel solco dell'astio verso l'Italia. C'erano le più alte autorità, a partire da Carlo Azeglio Ciampi ben lieto di cedere la parte del protagonista all’ospite e niente affatto offeso dall'essere stato piazzato dal cerimoniale ai piedi del grande «altare» della presidenza che sembrerà irrispettoso ad Alessandra Mussolini secondo cui il capo dello Stato «stava troppo in basso».
C'erano i socialisti cresciuti sotto l'ala di quel Bettino Craxi che si richiamava al Garibaldi che voleva «spazzare via da Roma e dall'Italia la setta contagiosa e perversa dei preti». I figli di quei fascisti che, racconta Baron Beyens in Quatre ans à Rome , avevan convinto la Chiesa a conceder loro «un credito di qualche mese» rimettendo per ordine del Duce i crocefissi nelle scuole.
E i figli dei comunisti contro cui la Chiesa scatenò nel 1948 quella offensiva che invocava: «Italia di San Francesco, di Santa Caterina, di Santa Chiara, di San Bernardino, Italia di San Pio V, di don Bosco, del Cottolengo: ancora una volta drizzati in piedi!».
E soprattutto loro, i democristiani. I figli di quel partito che per Nino Andreatta era in realtà «il più ateo d'Italia» e che dopo la diaspora sono sparpagliati dappertutto. Dentro la Margherita come quel Ciriaco De Mita che tra i primi si è presentato in aula per guadagnare la sua postazione, e dentro Forza Italia come Claudio Scajola che finalmente riassapora il piacere di essere preso d'assedio dai questuanti; dentro An come Publio Fiori che si avvicina ossequioso a ogni porporato per baciargli l'anello facendo vibrare d'emozione la matassa di composti capelli, e dentro il Cdu come Rocco Buttiglione, che avendo vantato per anni di essere l'unico in grado di discorrere col Papa in polacco, si gode la giornata fingendo di essere così occupato da accorgersi a malapena dell'arrivo di Franco Frattini, collocato da Berlusconi su quella poltrona alla Farnesina che proprio lui aveva a lungo rivendicato.
C'erano tutte le condizioni perché la giornata fosse davvero diversa. Unica. Estranea alle logiche delle scaramucce, dei battibecchi, dei dispetti quotidiani. Prima fra tutte, lui. Il Papa. Forse incerto nelle gambe, che gli consentivano pochi anni fa dure camminate sul Civetta e oggi lo sorreggono appena mentre scala la presidenza, ma fermissimo nella scelta fatta. Quella di dire tutto ciò che ritiene giusto senza però prestarsi all'accusa di plateali ingerenze.
Certo, nel momento in cui comincia a parlare, dopo un saluto affettuoso ed ecumenicamente laico di Pier Ferdinando Casini e un secondo forse meno ecumenico di Marcello Pera (che fa ribollire il sangue all'opposizione dicendo che il Parlamento reduce dalla contestatissima Cirami legifera «per il bene comune» e senza tener conto dei «nostri interessi soggettivi e contingenti»), tutti sanno che questo Papa ha già preso di petto molte volte i temi che gli stanno a cuore. E' vero che non ha mai sostenuto come Leone XIII che «quando si comandano cose apertamente contrarie alla divina volontà allora il non obbedire è giusto e bello». Ma è stato lui a dire che «la droga non si combatte con la droga». Lui ha bacchettato una certa visione della politica dicendo che «non può giustificarsi un pragmatismo che riduca la politica a pura mediazione degli interessi». Lui, infine, ha ribadito in un decreto vaticano di due anni fa, indifferente agli imbarazzi che avrebbe dato ai primi e più battaglieri sostenitori della sacralità della famiglia, quei Berlusconi e Fini e Casini e Bossi che hanno alle spalle un fallimento matrimoniale, che «i divorziati risposati non devono essere ammessi alla sacra comunione».
Via via che il Santo Padre va avanti nel suo saluto ai parlamentari, tuttavia, emerge con assoluta chiarezza che no, oggi non ha alcuna intenzione di creare disagi politici, diplomatici, religiosi con moniti o appelli che possano essere letti come una intromissione. Ed è a quel punto che accade una cosa per un verso divertente, per un altro sconcertante. Una cosa che fa fremere le basette di Oscar Luigi Scalfaro, l'unico che tre anni fa ebbe l'ardire di precisare: «La laicità dello Stato è sacra e non accetto facilmente delle scene di contaminazione che, su piazza San Pietro, sono capitate qualche settimana fa».
A mano a mano che procede, il Papa viene interrotto da applausi sempre più frequenti. Che scattano dai banchi di qua o di là a seconda che le parole dette sembrino portar acqua all'uno o all'altro mulino. Parla dell'Europa ricordando «la linfa vitale che è costituita dal cristianesimo»? Applausi da destra. Ricorda l'obbligo del «rispetto per l'uomo, per la sua dignità e i suoi inalienabili diritti»? Applausi da sinistra. Invita alla «solidarietà e alla coesione interna»? Un attimo di incertezza, poi applausi da sinistra. Ricorda «il rischio dell'alleanza tra democrazia e relativismo etico»? Da destra. Accenna alla necessità dello «sviluppo della scuola in un sano clima di libertà»? Ancora da destra. Chiede «un segno di clemenza» verso i detenuti? Da sinistra.
E tutto va a finire come doveva finire. Negli omaggi talvolta un po' ipocriti di decine di parlamentari in fila per baciare l'anello papale. Nelle rivendicazioni di autonomia laicista dei pochi figlioli sopravvissuti ad Ernesto Rossi. Negli ammiccamenti divertiti di Francesco Cossiga («me la sono cavata applaudendo sempre») che non ha voluto mischiarsi con le autorità più alte preferendo inabissarsi nell'anonimato dell'Aula. Nelle confidenze di Letizia Moratti che dice di essersi «commossa per la carezza del Papa». Nei distinguo di Roberto Castelli e dei leghisti sull’appello alla clemenza.
Mica facile, per quelli del Carroccio, ricucire col Papa. Basti ricordare quanto disse, non molto tempo fa, Bossi: «I serpenti comunisti, fascisti e teocratici, cioè quelli di Santa Romana Chiesa, si sono aggrovigliati insieme per non essere eliminati attraverso il water della storia. Vorrà dire che la Lega sarà costretta a prendere la ventosa». Francesco Speroni, come la mettiamo? Sorrisetto: «Beh, le opinioni si possono cambiare...».
Gian Antonio Stella
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testo integrale tratto da "Il Corriere della Sera" - 15 novembre 2002
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