PAX ARMATA
Dal Golfo al Golfo, guerra continua
Forme e formule.


Lo scenario del conflitto permanente nell'ordine politico a comando globale, la necessità di uno spazio europeo in grado di sottrarsi all'egemonia americana. Parlano Alain Joxe, sociologo e specialista di questioni strategiche all'Ecole des Hautes Etudes di Parigi, e Didier Bigo, direttore della rivista di politica internazionale «Culture & Conflicts»

 

di FEDERICO RAHOLA


«Guerra permanente»: la formula banalizza ma individua una dimensione pervasiva, continuamente protratta nel tempo e nello spazio. Proprio come il tempo «che resta» prima che venga ratificata la guerra all'Iraq. Un tempo che è già di guerra, segnato com'è dall'intensificarsi delle operazioni militari anglo-americane che - come un basso continuo - hanno del resto scandito gli ultimi dodici anni in Iraq: da quel gennaio del 1991 che il presente sembra ora riproiettare ingigantito. E di «Guerra permanente» abbiamo parlato con Alain Joxe e Didier Bigo, ospiti di un convegno tenutosi di recente a Savona e risultato di una ricerca che ha visto coinvolte, con l'università di Genova, anche quelle di Bologna, Lecce e Padova. Sociologo e specialista di questioni strategiche all'Ecole des Hautes Etudes, Joxe ha accumulato un'enorme esperienza - anche militante (era con Allende prima di un altro nefasto 11 settembre, quello del 1973) - sull'interazione tra il sapere strategico militare e le «rappresentazioni del mondo» che quel sapere informano e di cui sono anche il prodotto. Per La Decouverte ha appena pubblicato L'Empire du chaos.

Differente il campo di indagine di Bigo che - oltre a dirigere la rivista trimestrale di politica internazionale Culture & Conflits e a dividere il suo tempo tra la London School of International Relations e l'Institute d'Etudes Politique di Parigi - si occupa essenzialmente degli effetti sociali e politici dei conflitti contemporanei e delle nuove politiche di sicurezza.

Le loro posizioni sul presente della guerra, sebbene vicine, non sempre coincidono. Per questo è sembrato opportuno farli dialogare direttamente riducendo le domande a tre questioni di fondo: la guerra e le sue forme, l'ordine politico in cui si inscrive (quell'Impero che Joxe, restringendo l'ipotesi di Negri e Hardt, interpreta come inevitabilmente americano) e le possibilità di «resistenza» che entrambi collocano in uno spazio politico europeo alternativo. Uno spazio che appare lontano, forse improbabile, ma non per questo impossibile: «anche grazie a Firenze», sottolineano concordi.

Partiamo dal presente. La guerra all'Iraq - voi dite - non è l'effetto dell'11 settembre ma va piuttosto collocata all'interno delle continuità e delle rotture che hanno segnato la politica americana degli ultimi dodici anni: siamo già in guerra o dobbiamo aspettarci un atto formale, ipocrita ma decisivo?

Alain Joxe. Siamo già in guerra e si tratta di una guerra americana: una guerra che si annuncia come localmente circoscrivibile, contro un dittatore esangue e allo stremo e con - alle spalle - l'evidente questione strategica del petrolio; una guerra già dichiarata che ancora non sappiamo da chi verrà effettivamente combattuta. Ulteriore tappa di una strategia imperiale in cui la pax americana non è certo in agenda. Del resto, dal 1989 - con gli Stati uniti rimasti l'unica «superpotenza» - le guerre sono state ininterrotte. Con la fine della pace nucleare, la politica americana non ha fatto altro che alimentare disordini per poi gestirne le conseguenze. Un disordine che ha assunto infinite forme e svariati esiti di guerra: gruppi armati professionali o semi-professionali che agiscono su teatri circoscritti anche se impossibili da isolare (Colombia, Israele) accanto a situazioni teoricamente più polarizzate (Iraq, Serbia, Afghanistan). Conviene, tuttavia, ragionare sulle continuità, dare un senso al divenire della guerra che non è una nozione metafisica: per farla ci vogliono pur sempre truppe organizzate e comandate, interessi determinati, un sapere specifico e specifiche rappresentazioni del mondo. Elementi che negli ultimi anni hanno subito trasformazioni e che non sono immuni da contraddizioni. Anche se, lo ripeto, è assolutamente necessario ricondurre la guerra a un continuum: quello che va dal controllo urbano alle operazioni di polizia internazionale, dall'aggressione militare di uno stato alla rappresentazione teologica di scontri di civiltà.

Didier Bigo. Sulle «forme della guerra», è anche possibile aggiungere ulteriori dettagli al quadro già delineato da Alain, soprattutto per quel che riguarda le trasformazioni del sapere militare: ciò che emerge è un concetto di guerra molto recente, non più legato a una dimensione interstatuale da guerra fredda ma eterogeneo e nel quale confini e i soggetti si moltiplicano esponenzialmente.

E' il caso, per esempio, della cosiddetta «guerra al terrorismo»?

B. Con l'espressione guerra al terrorismo, di fatto, siamo già fuori da ogni definizione tradizionale di guerra. Non servono più né Clausewitz né Carl Schmitt, perché l'asse amico/nemico si ridistribuisce al di là di ogni dimensione stabile. Più specificamente, sta saltando la connessione tra guerra e mestiere militare. Oggi l'apparato militare si chiede cosa fare: una guerra tradizionale o il mantenimento/ripristino dell'ordine?

E' un modo come un altro, secondo voi, per alimentare l'enorme mercato internazionale della sicurezza?

B. Sì, non c'è dubbio. E si tratta di un «mercato» che si avvantaggia della proliferazione di «agenzia miste» guidate da personaggi che rivestono alternativamente ruoli pubblici di difesa e funzioni private di sicurezza. L'effetto è sciagurato: la pratica della violenza sta saldamente nelle mani di strutture paramilitari dietro cui agiscono soggetti privati e statali e che operano su scala internazionale.

J. Il fenomeno diventa più comprensibile se si guarda al mercato delle armi, dove la privatizzazione è solo apparente, perché la produzione ha ancora un'origine statale. E' in mano agli stati: nel circuito del traffico si innestano poi soggetti privati, mediatori, agenzie, mafie...e tutto ciò all'insegna di un riciclaggio continuo, su cui i militari giocano un ruolo decisivo perché «originario». E questo è solo il sintomo più evidente e diretto di un rapporto, quello tra sfera economica e militare, attraversato da profondi sommovimenti. Suggerirei di riprendere Gramsci quando, in uno dei Quaderni precisa: la sfera economico-finanziaria è determinante nella sua portata strutturale e globale, quella militare è invece decisiva (e si inscrive) in contesti, decisioni e ricadute che sono locali; è questo il rapporto tra due momenti che sono complementari, quello della produzione globale e quello della distruzione locale.

Intende dire che le forze armate stanno perdendo quel monopolio finora considerato «legittimo» perché statale?

J. La distruzione è già in atto: restano solo piccoli monopoli locali, una nuova morfologia della concentrazione del potere militare basata su logiche locali e irregolari. In questo senso, mi sento di poter parlare di una regressione al Medioevo. Certo, le forme di sovranità non sono sparite ma si organizzano su meccanismi di delega sempre più irregolari. Questa struttura, naturalmente, non è incompatibile con strategie imperiali di mantenimento dell'ordine, strategie che non gestiscono direttamente l'insieme dei conflitti ma lasciano o attizzano focolai locali. Insomma, tanti conflitti «libanizzati».

Voi sembrata suggerire una dimensione imperiale inevitabilmente americana, individuando una continuità di fondo nel disegno strategico degli Usa dopo l'89.

J. Dopo l'89 il sistema strategico americano si è evoluto secondo la logica di una leadership mondiale assoluta ma con passaggi, evidentemente, diversi. Clinton ha cercato di rafforzare un potere più economico che militare con l'enlargement delle condizioni ottimali per il libero mercato. Allo stesso tempo, però, anche il settore militare si è evoluto, dotandosi di un armamentario più dettagliato, di precisione e soprattutto di portata globale. Con Bush e lo shock delle due torri, l'impegno militare è diventato la colonna vertebrale della visione autoritaria Usa. Questo passaggio sembra apparentemente una rottura ma può anche essere letto sul piano di una continuità che salda Bush Sr., Clinton e Bush Jr. Certo, la «cricca di Bush» appare impresentabile, poco credibile, lui stesso sembra un personaggio della commedia dell'arte, un «guerriero fanfarone». Ma dietro di lui ci sono ancora gli Usa: il Dipartimento di Stato, il Congresso, il Pentagono, tutti elementi del potere americano tradizionale, un potere che si pensa in termini di forza mondiale assoluta, dall'89 a oggi, e che oggi appare una caricatura populista della democrazia.

B. Forse occorrerebbe anche domandarsi quali sono i margini reali di autonomia di questi attori «democratici», soprattutto negli Usa, e in generale dello Stato. Io lavoro molto sulla transnazionalizzazione delle politiche di sicurezza e dei suoi attori (polizia, eserciti, forze che lavorano sui confini): è un contesto in cui si creano reti molto potenti che solo apparentemente agiscono in competizione tra loro. In realtà - al loro interno - circola una forma di solidarietà professionale attraverso cui si arriva persino a bloccare decisioni politiche. E' giusto parlare della potenza americana, ma è necessario tener presente che dietro esistono logiche di frammentazione e di ricomposizione su scala transnazionale. Non è necessariamente una logica imperiale quella che si sta realizzando, nel senso dialettico-teleologico di Hardt e Negri: piuttosto siamo di fronte a forme sconnesse e disgiuntive, eterogenee e non lineari. E questo ci obbliga a pensare dove sia davvero la politica.

Veniamo alle resistenze. Voi sembrate moderatamente fiduciosi sulle chances di una «Repubblica sociale» europea che si opponga alla caotica deriva imperiale di una guerra permanente. I sintomi, però, sembrano andare in direzione opposta, e ci restituiscono un'Europa sempre più inconfondibile dagli Usa e sempre più «fortezza», dove i diritti si restringono, riappaiono i campi di internamento per «non-cittadini», e la stessa nozione di cittadinanza appare in coma...

J. Il concetto di cittadinanza è antico e non credo che scomparirà. Certo, i sintomi sono di segno opposto. Ma l'Europa deve per forza seguire la deriva populista, autoritaria e deregolamentata che l'impero americano ha imposto globalmente? Attualmente l'Europa non è uno spazio democratico ma solo perché non esiste una costituzione europea. L'Europa di Schengen, delle zones d'attente e di Sangatte è il presente, ma è un presente che non è né legittimo né legittimato: non è democrazia, non è Europa. La definizione di una cittadinanza europea che non rifletta appartenenze nazionali, che riconosca come cittadino europeo chiunque vive in Europa è probabilmente il primo passaggio del processo di costituzione politica di un'Europa sociale. Un passaggio che ora è riempito dai movimenti, e che deve essere recepito dalla politica. Solo se l'Europa saprà essere uno spazio autenticamente democratico, se cioè saprà affrontare in termini di diritti e non di controllo e di sfruttamento la questione dell'immigrazione, potrà costituire una alternativa alla deriva imposta dall'impero americano. I segni ci sono, così come di fatto esiste uno spazio autonomo dell'Europa, ad esempio nella ricerca tecnologica e anche militare. Del resto gli strateghi Usa, quando preconizzano le potenziali faglie politiche dell'ordine imperiale/globale - pur individuando il principale problema nella Cina - tendono sempre a non escludere l'Europa.

B. Sono assolutamente d'accordo sulla necessità di una prospettiva politica: l'Europa di oggi, quella di Maastricht e di Schengen, è tutto fuorché un soggetto politico unitario. Anzi, le stesse possibilità di circolazione tra stati membri, nonostante la retorica trionfante, si sono decisamente ridotte. Sulla contrapposizione Usa/Ue occorre però sottolineare ambiguità decisive, che la rendono decisamente opaca. La transnazionalizzazione è un fenomeno reale e ci sono interi settori che cooperano, spesso anche al di là delle linee politiche ufficiale. Non esistono aree davvero indipendenti - economiche, finanziarie, giuridiche, politiche, culturali. A partire da qui si può anche comprendere come le logiche di resistenza passano necessariamente tra le due sponde dell'Atlantico, da Seattle in poi. E sono forme e pratiche che provengono da soggetti che tendono a collocarsi nell'area dell'esclusione. Per questo la questione di una cittadinanza europea in grado di spezzare il rapporto che oggi la salda al concetto di nazionalità diventa decisiva: del resto la democrazia non è mai sopravvissuta a lungo di fronte ai campi di internamento.
 

testo integrale tratto ad "Il Manifesto" -  29  dic. 2002

 
 

 

 

 

 

Casella di testo: PAX ARMATA
Dal Golfo al Golfo, guerra continua 
Forme e formule. 

Lo scenario del conflitto permanente nell'ordine politico a comando globale, la necessità di uno spazio europeo in grado di sottrarsi all'egemonia americana. Parlano Alain Joxe, sociologo e specialista di questioni strategiche all'Ecole des Hautes Etudes di Parigi, e Didier Bigo, direttore della rivista di politica internazionale «Culture & Conflicts»

di FEDERICO RAHOLA

«Guerra permanente»: la formula banalizza ma individua una dimensione pervasiva, continuamente protratta nel tempo e nello spazio. Proprio come il tempo «che resta» prima che venga ratificata la guerra all'Iraq. Un tempo che è già di guerra, segnato com'è dall'intensificarsi delle operazioni militari anglo-americane che - come un basso continuo - hanno del resto scandito gli ultimi dodici anni in Iraq: da quel gennaio del 1991 che il presente sembra ora riproiettare ingigantito. E di «Guerra permanente» abbiamo parlato con Alain Joxe e Didier Bigo, ospiti di un convegno tenutosi di recente a Savona e risultato di una ricerca che ha visto coinvolte, con l'università di Genova, anche quelle di Bologna, Lecce e Padova. Sociologo e specialista di questioni strategiche all'Ecole des Hautes Etudes, Joxe ha accumulato un'enorme esperienza - anche militante (era con Allende prima di un altro nefasto 11 settembre, quello del 1973) - sull'interazione tra il sapere strategico militare e le «rappresentazioni del mondo» che quel sapere informano e di cui sono anche il prodotto. Per La Decouverte ha appena pubblicato L'Empire du chaos.

Differente il campo di indagine di Bigo che - oltre a dirigere la rivista trimestrale di politica internazionale Culture & Conflits e a dividere il suo tempo tra la London School of International Relations e l'Institute d'Etudes Politique di Parigi - si occupa essenzialmente degli effetti sociali e politici dei conflitti contemporanei e delle nuove politiche di sicurezza.

Le loro posizioni sul presente della guerra, sebbene vicine, non sempre coincidono. Per questo è sembrato opportuno farli dialogare direttamente riducendo le domande a tre questioni di fondo: la guerra e le sue forme, l'ordine politico in cui si inscrive (quell'Impero che Joxe, restringendo l'ipotesi di Negri e Hardt, interpreta come inevitabilmente americano) e le possibilità di «resistenza» che entrambi collocano in uno spazio politico europeo alternativo. Uno spazio che appare lontano, forse improbabile, ma non per questo impossibile: «anche grazie a Firenze», sottolineano concordi.

Partiamo dal presente. La guerra all'Iraq - voi dite - non è l'effetto dell'11 settembre ma va piuttosto collocata all'interno delle continuità e delle rotture che hanno segnato la politica americana degli ultimi dodici anni: siamo già in guerra o dobbiamo aspettarci un atto formale, ipocrita ma decisivo?

Alain Joxe. Siamo già in guerra e si tratta di una guerra americana: una guerra che si annuncia come localmente circoscrivibile, contro un dittatore esangue e allo stremo e con - alle spalle - l'evidente questione strategica del petrolio; una guerra già dichiarata che ancora non sappiamo da chi verrà effettivamente combattuta. Ulteriore tappa di una strategia imperiale in cui la pax americana non è certo in agenda. Del resto, dal 1989 - con gli Stati uniti rimasti l'unica «superpotenza» - le guerre sono state ininterrotte. Con la fine della pace nucleare, la politica americana non ha fatto altro che alimentare disordini per poi gestirne le conseguenze. Un disordine che ha assunto infinite forme e svariati esiti di guerra: gruppi armati professionali o semi-professionali che agiscono su teatri circoscritti anche se impossibili da isolare (Colombia, Israele) accanto a situazioni teoricamente più polarizzate (Iraq, Serbia, Afghanistan). Conviene, tuttavia, ragionare sulle continuità, dare un senso al divenire della guerra che non è una nozione metafisica: per farla ci vogliono pur sempre truppe organizzate e comandate, interessi determinati, un sapere specifico e specifiche rappresentazioni del mondo. Elementi che negli ultimi anni hanno subito trasformazioni e che non sono immuni da contraddizioni. Anche se, lo ripeto, è assolutamente necessario ricondurre la guerra a un continuum: quello che va dal controllo urbano alle operazioni di polizia internazionale, dall'aggressione militare di uno stato alla rappresentazione teologica di scontri di civiltà.

Didier Bigo. Sulle «forme della guerra», è anche possibile aggiungere ulteriori dettagli al quadro già delineato da Alain, soprattutto per quel che riguarda le trasformazioni del sapere militare: ciò che emerge è un concetto di guerra molto recente, non più legato a una dimensione interstatuale da guerra fredda ma eterogeneo e nel quale confini e i soggetti si moltiplicano esponenzialmente.

E' il caso, per esempio, della cosiddetta «guerra al terrorismo»?

B. Con l'espressione guerra al terrorismo, di fatto, siamo già fuori da ogni definizione tradizionale di guerra. Non servono più né Clausewitz né Carl Schmitt, perché l'asse amico/nemico si ridistribuisce al di là di ogni dimensione stabile. Più specificamente, sta saltando la connessione tra guerra e mestiere militare. Oggi l'apparato militare si chiede cosa fare: una guerra tradizionale o il mantenimento/ripristino dell'ordine?

E' un modo come un altro, secondo voi, per alimentare l'enorme mercato internazionale della sicurezza?

B. Sì, non c'è dubbio. E si tratta di un «mercato» che si avvantaggia della proliferazione di «agenzia miste» guidate da personaggi che rivestono alternativamente ruoli pubblici di difesa e funzioni private di sicurezza. L'effetto è sciagurato: la pratica della violenza sta saldamente nelle mani di strutture paramilitari dietro cui agiscono soggetti privati e statali e che operano su scala internazionale.

J. Il fenomeno diventa più comprensibile se si guarda al mercato delle armi, dove la privatizzazione è solo apparente, perché la produzione ha ancora un'origine statale. E' in mano agli stati: nel circuito del traffico si innestano poi soggetti privati, mediatori, agenzie, mafie...e tutto ciò all'insegna di un riciclaggio continuo, su cui i militari giocano un ruolo decisivo perché «originario». E questo è solo il sintomo più evidente e diretto di un rapporto, quello tra sfera economica e militare, attraversato da profondi sommovimenti. Suggerirei di riprendere Gramsci quando, in uno dei Quaderni precisa: la sfera economico-finanziaria è determinante nella sua portata strutturale e globale, quella militare è invece decisiva (e si inscrive) in contesti, decisioni e ricadute che sono locali; è questo il rapporto tra due momenti che sono complementari, quello della produzione globale e quello della distruzione locale.

Intende dire che le forze armate stanno perdendo quel monopolio finora considerato «legittimo» perché statale?

J. La distruzione è già in atto: restano solo piccoli monopoli locali, una nuova morfologia della concentrazione del potere militare basata su logiche locali e irregolari. In questo senso, mi sento di poter parlare di una regressione al Medioevo. Certo, le forme di sovranità non sono sparite ma si organizzano su meccanismi di delega sempre più irregolari. Questa struttura, naturalmente, non è incompatibile con strategie imperiali di mantenimento dell'ordine, strategie che non gestiscono direttamente l'insieme dei conflitti ma lasciano o attizzano focolai locali. Insomma, tanti conflitti «libanizzati».

Voi sembrata suggerire una dimensione imperiale inevitabilmente americana, individuando una continuità di fondo nel disegno strategico degli Usa dopo l'89.

J. Dopo l'89 il sistema strategico americano si è evoluto secondo la logica di una leadership mondiale assoluta ma con passaggi, evidentemente, diversi. Clinton ha cercato di rafforzare un potere più economico che militare con l'enlargement delle condizioni ottimali per il libero mercato. Allo stesso tempo, però, anche il settore militare si è evoluto, dotandosi di un armamentario più dettagliato, di precisione e soprattutto di portata globale. Con Bush e lo shock delle due torri, l'impegno militare è diventato la colonna vertebrale della visione autoritaria Usa. Questo passaggio sembra apparentemente una rottura ma può anche essere letto sul piano di una continuità che salda Bush Sr., Clinton e Bush Jr. Certo, la «cricca di Bush» appare impresentabile, poco credibile, lui stesso sembra un personaggio della commedia dell'arte, un «guerriero fanfarone». Ma dietro di lui ci sono ancora gli Usa: il Dipartimento di Stato, il Congresso, il Pentagono, tutti elementi del potere americano tradizionale, un potere che si pensa in termini di forza mondiale assoluta, dall'89 a oggi, e che oggi appare una caricatura populista della democrazia.

B. Forse occorrerebbe anche domandarsi quali sono i margini reali di autonomia di questi attori «democratici», soprattutto negli Usa, e in generale dello Stato. Io lavoro molto sulla transnazionalizzazione delle politiche di sicurezza e dei suoi attori (polizia, eserciti, forze che lavorano sui confini): è un contesto in cui si creano reti molto potenti che solo apparentemente agiscono in competizione tra loro. In realtà - al loro interno - circola una forma di solidarietà professionale attraverso cui si arriva persino a bloccare decisioni politiche. E' giusto parlare della potenza americana, ma è necessario tener presente che dietro esistono logiche di frammentazione e di ricomposizione su scala transnazionale. Non è necessariamente una logica imperiale quella che si sta realizzando, nel senso dialettico-teleologico di Hardt e Negri: piuttosto siamo di fronte a forme sconnesse e disgiuntive, eterogenee e non lineari. E questo ci obbliga a pensare dove sia davvero la politica.

Veniamo alle resistenze. Voi sembrate moderatamente fiduciosi sulle chances di una «Repubblica sociale» europea che si opponga alla caotica deriva imperiale di una guerra permanente. I sintomi, però, sembrano andare in direzione opposta, e ci restituiscono un'Europa sempre più inconfondibile dagli Usa e sempre più «fortezza», dove i diritti si restringono, riappaiono i campi di internamento per «non-cittadini», e la stessa nozione di cittadinanza appare in coma...

J. Il concetto di cittadinanza è antico e non credo che scomparirà. Certo, i sintomi sono di segno opposto. Ma l'Europa deve per forza seguire la deriva populista, autoritaria e deregolamentata che l'impero americano ha imposto globalmente? Attualmente l'Europa non è uno spazio democratico ma solo perché non esiste una costituzione europea. L'Europa di Schengen, delle zones d'attente e di Sangatte è il presente, ma è un presente che non è né legittimo né legittimato: non è democrazia, non è Europa. La definizione di una cittadinanza europea che non rifletta appartenenze nazionali, che riconosca come cittadino europeo chiunque vive in Europa è probabilmente il primo passaggio del processo di costituzione politica di un'Europa sociale. Un passaggio che ora è riempito dai movimenti, e che deve essere recepito dalla politica. Solo se l'Europa saprà essere uno spazio autenticamente democratico, se cioè saprà affrontare in termini di diritti e non di controllo e di sfruttamento la questione dell'immigrazione, potrà costituire una alternativa alla deriva imposta dall'impero americano. I segni ci sono, così come di fatto esiste uno spazio autonomo dell'Europa, ad esempio nella ricerca tecnologica e anche militare. Del resto gli strateghi Usa, quando preconizzano le potenziali faglie politiche dell'ordine imperiale/globale - pur individuando il principale problema nella Cina - tendono sempre a non escludere l'Europa.

B. Sono assolutamente d'accordo sulla necessità di una prospettiva politica: l'Europa di oggi, quella di Maastricht e di Schengen, è tutto fuorché un soggetto politico unitario. Anzi, le stesse possibilità di circolazione tra stati membri, nonostante la retorica trionfante, si sono decisamente ridotte. Sulla contrapposizione Usa/Ue occorre però sottolineare ambiguità decisive, che la rendono decisamente opaca. La transnazionalizzazione è un fenomeno reale e ci sono interi settori che cooperano, spesso anche al di là delle linee politiche ufficiale. Non esistono aree davvero indipendenti - economiche, finanziarie, giuridiche, politiche, culturali. A partire da qui si può anche comprendere come le logiche di resistenza passano necessariamente tra le due sponde dell'Atlantico, da Seattle in poi. E sono forme e pratiche che provengono da soggetti che tendono a collocarsi nell'area dell'esclusione. Per questo la questione di una cittadinanza europea in grado di spezzare il rapporto che oggi la salda al concetto di nazionalità diventa decisiva: del resto la democrazia non è mai sopravvissuta a lungo di fronte ai campi di internamento.

testo integrale tratto ad "Il Manifesto" -  29  dic. 2002