La marcia dei 100mila
A Washington, con un freddo glaciale, sfila il «No» alla guerra preventiva di Bush.
Militanti dei diritti civili, religiosi, neri e indiani: migliaia e migliaia da tutta la East coast
di FRANCO PANTARELLI
Il freddo a Washington era bestiale, ieri: sei gradi sotto zero aggravati dal fatto che batteva un vento fortissimo. Ma erano oltre centomila a gridare la loro protesta e a innalzare i loro cartelli, anche se i colori con cui molti avevano dipinto il volto erano coperti dagli indispensabili passamontagna e ogni tanto alcuni manifestanti si rifugiavano nei pullman, rimasti coi i motori accesi, per fare un po' di «riserva di calore». I cartelli e gli slogan erano in gran parte riferiti ai temi ricorrenti in questi mesi di preparazione della guerra, in molti casi usando le stesse parole di George Bush e dei suoi uomini per rovesciarne il significato. «Cambio di regime? Cominciamo da qui», diceva un cartello. «Il vero stato-canaglia è l'America di Bush», diceva un altro e poi: «Disarmiamo Bush» e «Diciamo un No preventivo alla guerra». I religiosi, che del movimento pacifista sono una componente importante, inalberavano una scritta semplice semplice: «Gesù li bombarderebbe?». Le targhe dei pullman che li avevano portati lì erano di tutti gli stati vicini, New York, New Jersey, Connecticut, Maine, Virginia, Maryland, ma ce n'erano anche provenienti dalla Florida, dal Minnesota e alcuni perfino dalla California, nonostante questa manifestazione fosse in contemporanea con quella di San Francisco. Quelli con i capelli bianchi e la memoria delle grandi manifestazioni contro la guerra in Vietnam erano la maggioranza, anche perché per oggi è prevista una seconda manifestazione, quella degli studenti, e molti erano neri perché l'evento ha coinciso con l'anniversario della nascita di Martin Luther King. «Ma questa ricorrenza in fondo è anche mia», diceva un signore
dalla pelle bianca, i capelli rossi e la faccia da «red neck», la definizione per l'americano ottuso, conservatore e razzista, venuto dal Minnesota. «Sì - ammette - ho votato per Bush per la sua promessa di aiutare i bambini poveri. Ma questa storia che l'Iraq va bombardato mentre la Corea del Nord va accarezzata mi puzza troppo». Qualcuno gli fa notare che poco distante da lì, al Vietnam Memorial, ci sono una cinquantina di manifestanti «a sostegno di Bush» e il suo commento è: «poverini». Una signora venuta da New York scopre la presenza di alcuni giornalisti europei e ne approfitta per mandare un messaggio. «E' fondamentale che noi dimostriamo all'Europa e al resto del mondo che non tutta l'America è disposta a seguire Bush in questa avventura».
Sul palco degli oratori, fra i tanti, l'attrice Jessica Lang, Jesse Jackson e Ron Kovic, quello di «Nato il 4 di luglio», che nel suo discorso - l'unico su cui per ragioni di fuso orario è possibile riferire - gioca un po' col titolo del libro, poi diventato un film-bandiera. «Noi siamo nati per rivendicare l'essenza di questo paese. Siamo nati per riprendercelo. Se ce la mettiamo tutta riusciremo non solo a fermare la guerra ma anche a cambiare le priorità di questo governo». Al Sharpton, un leader nero di New York che ha annunciato la sua provocatoria candidatura alla Casa bianca, si aggira fra la folla, commenta divertito i cartelli, scambia battute con tutti. «Bush ha detto di avere appeso alla Casa bianca il ritratto di Lither King», dice. «Ma quello che gli servirebbe sarebbe appendere le parole, di Luther King. Se in Iraq in questo momento ci sono gli ispettori dell'Onu, qui a Washington ci sono gli ispettori morali. Abbiamo il dovere di ispezionare l'immoralità della Casa bianca».
In realtà nel pomeriggio il concetto di ispezione era destinato ad assumere un aspetto un po' più preciso. Gli organizzatori della manifestazione, infatti, hanno deciso che il percorso del corteo non sarebbe stato quello tradizionale (dal Capitol alla Casa bianca con raduno finale davanti al Lincoln Memorial), per marciare invece nel quartiene Anacostia, uno dei più poveri di Washington, in cui si trova lo Washington Navy Yard, struttura della marina militare in cui si i manifestanti intendevano chiedere di ispezionare, per l'appunto, le armi di distruzione di massa in possesso delle forze armate Usa. Concetto di fondo: per le armi di distruzione di massa irachene Bush vuol fare la guerra; per quelle americane non lascia neanche che la popolazione ne sia al corrente.
Fra i vari gruppi se ne aggirava anche uno di Cherokee, la più numerosa fra le nazioni indiane sopravvissute ai massacri del secolo scorso. Gli altri manifestanti li guardavano stupiti perché loro in genere sono piuttosto restii a confondere con le dispute politiche le loro rivendicazioni storiche di «primi americani» portate avanti «nello spirito» dei loro avi. «Ci siamo anche noi - spiegava Moonanum James, uno di loro - nello spirito del dottor King e nello spirito di Cavallo pazzo. E siamo qui per combattere contro gli elementi alla base dell'azione di questo governo che sono essenzialmente due: l'avidità e il razzismo». Bush, nel suo solito messaggio radiofonico del sabato, non ha fatto il minimo cenno alla manifestazione. Ma il suo portavoce Ari Flischer ha detto che in fondo quella gente confermava la forza della democrazia americana che consente il dissenso. «A Baghdad non sarebbe possibile», ha aggiunto con l'aria soddisfatta di chi sa di averle cantate chiare.
testo integrale tratto da "Il manifesto" - 19 gennaio 2003