40 anni dopo/1
L’11 ottobre del 1962 iniziava a Roma il Concilio Vaticano II Erano i tempi delle timide aperture nel mondo bipolare dominato dalla paura del conflitto nucleare Alcuni storici rievocano quella pagina decisiva per il rapporto con la modernità
La primavera della Chiesa
Riccardi: «L'eredità? Gioia e speranza contro il pessimismo storico che ancor oggi ci attanaglia». Svidercoschi: «Molte reazioni successive furono velate da paraocchi ideologici». Alberigo: «La digestione di quell'assise è ancora in corso». Chenaux: «Una straordinaria esperienza di comunione»
di Gianni Santamaria
Anche la Chiesa cattolica ha avuto la sua «rivoluzione d'Ottobre». Così, con una metafora forte, ma significativa, il teologo Yves Congar uno dei protagonisti del Concilio Vaticano II definì l'evento che avrebbe cambiato il volto delle Chiesa.
Era l'11 ottobre di 40 anni fa, quando le porte del Vaticano si aprirono per gli oltre 2.500 vescovi. E la Chiesa spalancò «porte e finestre» sul mondo. Il quale a sua volta puntò per la prima volta i riflettori dei media su un evento ecclesiale in modo massiccio. Quale fu l'impatto di quell'evento sulla Chiesa e sul mondo di allora, caratterizzato dalle prime aperture (Kennedy, Kruscev) nel mondo bipolare, ma anche dominato dalla paura del conflitto nucleare (la crisi di Cuba scoppiò poco prima dell'inizio del Concilio)? Quali problemi restano aperti in quelle che si suole definire l'attualizzazione delle linee guida scaturite da quelle assise, caratterizzate da collegialit&agrav e;, pastoralità, aggiornamento?
«Tre anni prima, all'annuncio del Concilio, la Guerra fredda sembrava destinata a durare in eterno. E che un Papa, molto anziano, annunciasse un Concilio fece sperare che potesse venire del nuovo», dice lo storico Giuseppe Alberigo, che ha curato una storia del Vaticano II in cinque volumi per Il Mulino. Il procedere dell'evento sorprese tutti, compresi i vescovi, che andarono a Roma, «pensando di starci poche settimane. L'idea di un "Concilio breve" era abbastanza diffusa». Invece si rinnovarono subito le commissioni e il lavoro durà tre anni. La novità maggiore? «Il Concilio stesso. Non fu una cosa semplice. C'erano vescovi di quasi 100 anni e monsignor Bettazzi, ausiliare di Bologna, il più giovane, che ne aveva 40. C'erano mentalità e lingue diverse. I vescovi sedevano per ordine di anzianità, quindi accanto si trovar ono degli sconosciuti. E molti sentirono parlare di alcuni problemi per la prima volta». Insomma, che abbiano lavorato insieme e abbiano portato risultati importanti ha del miracoloso. E oggi? «La digestione del Concilio è in corso», afferma Alberigo. Su alcuni campi ha portato, comunque, a svolte incontrovertibili, come l'ecumenismo. «Quello che oggi ci addolora nei rapporti con gli ortodossi russi, prima del Concilio non sarebbe stato neanche un problema», conclude pensando alla totale assenza di dialogo di quei tempi.
«Paradossalmente le reazioni furono più positive all'esterno, nel mondo della cultura, piuttosto che in quello cattolico», dice Gianfranco Svidercoschi, che come giornalista ha seguito l'evento, al quale ha appena dedicato il volume Un Concilio che continua (Àncora). «L'annuncio stesso - prosegue - rappresentò un cambiamento di clima. La Chiesa mostrava di essere diversa da qu ella che, a partire dal secolo dei Lumi, sembrava essersi chiusa un po' in se stessa». Ma questa accoglienza positiva va presa con qualche distinguo. «Alcuni furono sinceri e attenti. Mentre altre reazioni, si è visto poi, erano velate da paraocchi ideologici. Un certo mondo culturale ha cavalcato nel dopo-Concilio ogni più piccolo gesto o reazione del dissenso». Il popolo cattolico, dice il vaticanista, «non era preparato. E forse molti non si rendevano nemmeno conto del perché ci fosse bisogno di un Concilio».
Svidercoschi indica la necessità di far conoscere il Concilio ai giovani. «Ci sono due generazioni che non ne sanno niente. Vanno a messa nella loro lingua e pensano che sia stato sempre così. Non hanno conosciuto il trauma positivo di una Chiesa che sa cambiare». Inoltre per Svidercoschi molto di più è stato fatto sul piano dei rapporti c on l'"esterno" (dialogo, ecumenismo, diritti umani), meno all'"interno" della Chiesa. Come nella riforma liturgica: «Nessuno può negare che la messa oggi sia un po' troppo di routine. Il popolo che assiste è cosciente di essere soggetto attivo della celebrazione?».
Lo storico Andrea Riccardi sostiene che nel clima di 40 anni fa «si pensava che la guerra non sarebbe arrivata, nelle nostre società albeggiavano consumismo e fiducia nella tecnica. Tutto ciò portava a un certo ottimismo. Ma la Chiesa del Concilio non ha voluto essere né quella del cupo pessimismo né del facile ottimismo». Una lezione anche per l'oggi perché, a dieci anni dalla caduta del Muro, «siamo tentati dal pessimismo: non si sono costruiti la pace, un sistema di relazioni internazionali solide, un sistema economico equo, un rapporto tra Nord e Sud capace di realizzare maggiore giustizia». Il Concilio, invita, a superare quest o scenario in nome del «realismo della fede». Quell'evento, dunque, «non è una vecchia storia, né una pagina di progressismo cattolico o una funzione tradizionalista, ma ha toccato grandi temi che ci fanno vivere la Chiesa nell'età della globalizzazione». Non ha senso, prosegue Riccardi, porsi la domanda se il Concilio sia stato realizzato o no. «Non è la domanda giusta. Le nuove generazioni e la nuova situazione devono prenderlo in mano, perché sono aperti i problemi del nostro tempo cui il Concilio può dare un contributo». L'eredità? Soprattutto, ribadisce, «Gioia e speranza» in un tempo di pessimismo.
Anche lo storico svizzero Philippe Chenaux, direttore del Centro studi sul Concilio presso la Pontificia Università Lateranense, ricorda le «perplessità» del mondo cattolico. Ma il Concilio poi fu «una straordinaria esperienza di comunione. Non a caso gli storici parlano di "generazione conciliare"». Esso, infatti, «ridefinì l'identità della Chiesa senza inventarne una nuova, il Papa del resto lo ha chiamato una "sicura bussola"».
Esso ebbe vasta eco anche nelle altre Chiese. «Recentemente a Lovanio - racconta Chenaux - un teologo protestante francese mi ha detto "se questo Concilio non lo volete più, lo prendiamo noi, perché - come gli ortodossi - non abbiamo punti di riferimenti dottrinali recenti». Tra i temi da approfondire Chenaux cita il «rapporto tra il Papa e i vescovi, tra primato e collegio, centro romano e Chiese locali. La collegialità è la "spina dorsale" del Vaticano II». Scogli da evitare? Il «conciliarismo», la «centralizzazione» e la «frammentazione». Infine dal Concilio viene il riconoscimento della laicità della politica: «Ciò non vuol dire che la Chiesa non ha niente da dire, anzi essa resta una delle poche istituzioni capace di produrre un discorso universale». E attuale, se si pensa al processo di unificazione europea. «Va rifiutata la privatizzazione del fatto religioso e insieme va ripensata la teologia politica».
testo integrale tratto da "Avvenire" - 3 agosto 2002