IMMIGRATI A SCUOLA
Provengono da 190 Paesi Il boom negli ultimi dieci anni: sono aumentati di sei volte
di Lucia Bellaspiga
Sono più di 180mila e provengono complessivamente da circa 190 Paesi: sono gli alunni stranieri, figli di immigrati, che in quest’anno scolastico 2002-3 hanno varcato i cancelli dei nostri istituti per sedersi sui banchi e ricevere istruzione e cultura, come i loro coetanei italiani. Un diritto fondamentale per tutti: per loro che hanno scelto di diventare italiani, e per noi che li abbiamo accolti e con loro convivremo. Ma un’integrazione più facile a dirsi che a farsi, visto che questo è solo uno dei tanti problemi della scuola italiana, sempre lasciata a se stessa e "miracolata" dalla buona volontà dei singoli. E visto che nulla si è fatto rispetto a due anni fa, quando gli stranieri erano "solo" 150mila e già rappresentavano una realtà cresciuta di sei volte nell’ultimo decennio. «Meno male che sapevo bene l’inglese: solo così ho potuto fare lezione alle tre alunne filippine, che altrimenti non capivano una sola parola». Niente di notevole in ciò che racconta Carlo Molinari, professione insegnante, se non fosse che la materia in questione era... l’italiano. Scusi? Insegnava italiano in inglese? «Sembra assurdo – ride l’ex docente di lettere dell’Istituto professionale commerciale Marignoni di Milano, oggi al tecnico per il turismo Gentileschi –, ma che altro potevo fare? Quest’anno poi andrà anche peggio, visto che sono state tagliate tutte le risorse per i cosiddetti "progetti speciali", tra cui proprio i docenti distaccati per l’integrazione degli alunni stranieri». L’istituto Marignoni sorge a pochi passi dalla China Town milanese: «Per quei ragazzini arrivare a Milano
e piombare in una classe di italiani era un doppio choc – ricorda il docente –: non solo non capivano nulla, ma per di più venivano dalla Cina delle campagne, ferma a prima del medioevo, non dalle grandi città...». E poi c’erano i brasiliani: «Con loro neanche l’inglese serviva, era uno strazio, anche perché le prime classi sono sempre affollate... Per fortuna la legislazione scolastica ci viene incontro: noi dobbiamo valutare la maturazione dei ragazzi, quindi se hanno acquisito qualche parola in italiano possiamo accontentarci». È così in gran parte delle scuole: nella babele dell’incomunicabilità, iniziare a capirsi sembra già integrazione. «In realtà il problema della lingua è solo il primo di tanti – spiega Mara Ciarloni, insegnante marchigiana di lettere nella scuola media –. Certo, l’integrazione ha bisogno di un veicolo di comunicazione, ma il vero obiettivo è dar loro la cultura e la mentalità giuste per vivere qui». Ha insegnato in molte scuole medie e superiori, ma di supporti non ne ha visti quasi mai: «Il mediatore culturale? L’ho avuto solo quando ho insegnato in un centro serale, dove gli stranieri erano tantissimi. E se alle medie qualche figura di sostegno ogni tanto arriva, alle superiori mi sono trovata a spiegare Dante ai ragazzi maghrebini e cinesi senza alcuna mediazione, esattamente come ai loro compagni di qui». Già, i mediatori culturali: figure professionali madrelingua, che hanno seguito appositi corsi di formazione e operano nelle scuole, ma anche nei consultori, nelle carceri e ovunque ci sia
bisogno di "mediare" tra lingue, culture e mentalità. «Peccato però – dice ancora Mara Ciarloni – che il mio mediatore culturale fosse un sudamericano e che gli alunni provenienti dall’America Latina fossero la minoranza». Sarebbe normale pensare che ogni scuola abbia un mediatore per etnia. «Bisognava vedere gli sforzi del poveretto, che in spagnolo si rivolgeva ai miei ragazzi arabi, africani e asiatici. In teoria avrebbe dovuto "mediare", non solo come lingua ma soprattutto come mentalità, in realtà manco si capivano. No, dopo tanti anni di insegnamento, devo dire che in Italia non esiste nulla di serio che porti a una reale integrazione: più spesso ci si ferma all’aspetto folklorico e alla cena a base di cous-cous. Mi sono convinta nel tempo che la vera mediazione avviene in aula, da parte di un singolo operatore su un singolo allievo, ma questo puoi farlo solo in classi poco numerose, che in un certo qual modo "adottino" il compagno straniero». Un’isola felice sembra essere Genova: «Vantiamo 3800 ore di mediazione culturale in un anno – dice Claudia Nosenghi, responsabile del Centro risorse alunni stranieri al provveditorato di Genova –: sono arabi, russi, rumeni, indiani, cinesi... Persone eccezionalmente duttili, che devono comprendere due mondi e farli incontrare». Ma il fatto è che non sono docenti, non stanno in classe a fare lezione; il loro compito è tenere i rapporti tra scuola e famiglie di immigrati, fare da interprete, spiegare le regole ai nuovi arrivati, aiutarli a orientarsi nella giungla della burocrazia, tradurre i documenti... «Invece spesso la tendenza dei
docenti è di trattarli come insegnanti di sostegno. Doppiamente sbagliato: gli uni non sono insegnanti, gli altri non sono handicappati e quindi non hanno il "sostegno"». Eppure studiare in un Paese straniero, dove si parla un’altra lingua (in tutti i sensi) è proprio un handicap. E per noi una sfida ancora tutta da vincere.
testo integrale tratto da "Avvenire" - 1 ottobre 2002