IL DRAMMA DELLA FAME
 

La siccità batte le campagne d'Etiopia

 

di Padre Donato De Blasi

 

Sui sentieri dell'altopiano etiopico un vento rabbioso sta flagellando le povere campagne, dove la siccità ha svuotato le pannocchie di granturco, spegnendo le speranze nel cuore di questa povera gente che lega la propria sopravvivenza a quest'ultimo raccolto ormai perduto.
Mi trovo qui nella missione dei Cappuccini di Wolayta (Sud Etiopia) a 400 kilometri da Addis Abeba, con un gruppo di volontari medici e paramedici per un servizio nel nuovo ospedale della missione di Dubbo dove il vescovo Domenico Marinozzi e i suoi missionari hanno investito il frutto della carità di tanta gente per dare un futuro alla vita nascente, qui sempre compromessa dalle malattie, che falciano tanti bambini appena nati e tante giovani madri costrette a partorire nelle capanne, qui chiamate tukul.
È proprio dall'ospedale della missione che arrivano i segnali di una catastrofe imminente segnata sul volto di tanti bambini. Ma è solo l'inizio di un drammatico lamento che lambisce quasi tutto il territor io del Vicariato di Soddo-Hosanna.
A Moconissa, la zona più colpita, le piantagioni di granoturco e tieff si sono ripiegate su se stesse, causa la siccità. Non potranno più dare i preziosi chicchi che macinati diventerebbero injerà, pane che sostiene la fatica immane di tante donne che per una brocca d'acqua affrontano kilometri di strada a piedi nudi.
A Eddo la sabbia della savana solleva nuvole nere di polvere, che da lontano sembrano cariche d'acqua: un'illusione che dura il tempo di ingoiare la terra che ti soffoca il respiro e cancella i pochi cespugli d'erba destinati agli animali, anch'essi a rischio di estinzione.
A Humbo, dove la malaria colpisce senza dare tregua, la gente del posto mangia le foglie di un albero chiamato halaccò, che hanno il vago sapore di cavolfiore. Non parliamo poi di Badessa e di tanti villaggi, dove i contadini cominciano a tagliare l'inset, l'albero del falso banano per ridurlo in poltiglia e confezionare focacce dal sapore acido ma che almeno attenua i morsi della fame. Già, questa terribile parola che evoca non lontani periodi di carestia e morte è ormai sulla bocca di tutti.
È la fame che ha dimezzato la presenza dei cristiani nelle messe domenicali perché non hanno la forza di uscire dai loro tukul. È la fame che sta assottigliando le file dei bambini a scuola, i primi ad essere colpiti e a pagare con la morte le conseguenze dell'ingiustizia umana.
È la fame che sta turbando il sonno dei «sazi», perché uscendo dalla solitudine dei tukul si presenta sugli schermi della televisione e core come notizia sulle moderne e veloci vie on line per presentare il conto dei nostri peccati di omissione.
Prima che il triste bilancio della morte diventi insostenibile affrettiamoci perché almeno per questi mesi di emergenza possiamo garantire a ogni nostro fratello un «pasto al giorno per continuare a vivere».

testo integrale tratto da "Avvenire" - 8 dicembre 2002

 

 

 

 

 

 

 

Casella di testo: IL DRAMMA DELLA FAME

La siccità batte le campagne d'Etiopia

di Padre Donato De Blasi 

Sui sentieri dell'altopiano etiopico un vento rabbioso sta flagellando le povere campagne, dove la siccità ha svuotato le pannocchie di granturco, spegnendo le speranze nel cuore di questa povera gente che lega la propria sopravvivenza a quest'ultimo raccolto ormai perduto.
Mi trovo qui nella missione dei Cappuccini di Wolayta (Sud Etiopia) a 400 kilometri da Addis Abeba, con un gruppo di volontari medici e paramedici per un servizio nel nuovo ospedale della missione di Dubbo dove il vescovo Domenico Marinozzi e i suoi missionari hanno investito il frutto della carità di tanta gente per dare un futuro alla vita nascente, qui sempre compromessa dalle malattie, che falciano tanti bambini appena nati e tante giovani madri costrette a partorire nelle capanne, qui chiamate tukul.
È proprio dall'ospedale della missione che arrivano i segnali di una catastrofe imminente segnata sul volto di tanti bambini. Ma è solo l'inizio di un drammatico lamento che lambisce quasi tutto il territor io del Vicariato di Soddo-Hosanna.
A Moconissa, la zona più colpita, le piantagioni di granoturco e tieff si sono ripiegate su se stesse, causa la siccità. Non potranno più dare i preziosi chicchi che macinati diventerebbero injerà, pane che sostiene la fatica immane di tante donne che per una brocca d'acqua affrontano kilometri di strada a piedi nudi.
A Eddo la sabbia della savana solleva nuvole nere di polvere, che da lontano sembrano cariche d'acqua: un'illusione che dura il tempo di ingoiare la terra che ti soffoca il respiro e cancella i pochi cespugli d'erba destinati agli animali, anch'essi a rischio di estinzione.
A Humbo, dove la malaria colpisce senza dare tregua, la gente del posto mangia le foglie di un albero chiamato halaccò, che hanno il vago sapore di cavolfiore. Non parliamo poi di Badessa e di tanti villaggi, dove i contadini cominciano a tagliare l'inset, l'albero del falso banano per ridurlo in poltiglia e confezionare focacce dal sapore acido ma che almeno attenua i morsi della fame. Già, questa terribile parola che evoca non lontani periodi di carestia e morte è ormai sulla bocca di tutti.
È la fame che ha dimezzato la presenza dei cristiani nelle messe domenicali perché non hanno la forza di uscire dai loro tukul. È la fame che sta assottigliando le file dei bambini a scuola, i primi ad essere colpiti e a pagare con la morte le conseguenze dell'ingiustizia umana.
È la fame che sta turbando il sonno dei «sazi», perché uscendo dalla solitudine dei tukul si presenta sugli schermi della televisione e core come notizia sulle moderne e veloci vie on line per presentare il conto dei nostri peccati di omissione.
Prima che il triste bilancio della morte diventi insostenibile affrettiamoci perché almeno per questi mesi di emergenza possiamo garantire a ogni nostro fratello un «pasto al giorno per continuare a vivere».

testo integrale tratto da "Avvenire" - 8 dicembre 2002