Bartolomeo de Las Casas verso gli altari
Il difensore degli indigeni
di Gerolamo Fazzini
Che quest'oggi, nell'antica chiesa del convento domenicano di San Pablo, dove fu consacrato vescovo, prenda il via il processo di canonizzazione di fra' Bartolomeo de Las Casas è - non temiamo di usare perifrasi altisonanti - un segno dei tempi. Il cammino verso gli altari appena iniziato e che vede protagonista il celebre difensore degli indios delle Americhe avverte infatti in modo inequivocabile su una memoria purificata e su una volontà di riconciliazione. Indizi che fanno ben sperare, anche se - osserverà qualcuno - ci sono voluti cinque lunghi secoli perché la Chiesa arrivasse a proporre come modello il coraggioso domenicano di Siviglia.
Quando, nel XVI secolo, fra' Bartolomeo levò la sua voce denunciando le violenze e gli abusi dei conquistadores, si trovò contro - giova ricordarlo - non solo i potenti spagnoli, ma anche i prelati ai quali era stato affidato l'incarico di guidare la Chiesa nelle colonie e che, con gli schiavisti, an davano a braccetto. Fra' Bartolomeo fu, insomma, una voce profetica: ed è grazie alle sue circostanziate narrazioni, intrise di raccapriccio per le ingiustizie perpetrate, che Carlo V emanò le Nuevas Leyes. Leggi (davvero "nuove") che, riconoscendo i fondamentali diritti degli indigeni, si rivelarono un'autentica benedizione per le popolazioni autoctone delle Filippine, quando gli spagnoli vi misero piede: lì, infatti, l'abolizione della schiavitù venne sancita nel 1585. Tre secoli prima di quel che accadrà altrove, nel mondo.
Sbaglierebbe, però se si pensasse alla decisione della diocesi di Ciudad Real come a un gesto in obbedienza al politically correct. Bartolomeo de las Casas è stato a lungo una "bandiera" per quanti, sulla scorta di letture storiche affrettate o inquinate dall'ideologia, imputavano alla Chiesa cattolica colpe non sue, a partire dal genocidio degli indios in Am erica Centrale. In occasione del cinquecentenario della scoperta-conquista dell'America si scatenò un dibattito molto acceso circa le responsabilità e le connivenze (che pure ci furono) da parte della Chiesa cattolica nella colonizzazione del continente. Furono in molti allora ad individuare nel domenicano l'unico esempio positivo, quasi l'eccezione ad una regola, che voleva la Chiesa indistintamente soggiogata al potere politico, forte con i deboli (gli indios) e debole con i forti (la Corona spagnola). A una rilettura seria della vicenda di Bartolomeo, venendo ad anni più recenti, non ha probabilmente giovato il fatto che la diocesi che oggi porta il suo nome, a lungo retta da Samuel ("Tatic") Ruiz, sia stata fin troppo a lungo sotto i riflettori della cronaca, come tutto il travagliato Chiapas.
La storia è assai più complessa delle sue caricature. Oggi, a due anni di distanza dal Giubileo in cui Giovanni Paolo II ha pronunciato memorabili mea culpa, preferiamo pensare alla riscoperta di Bartolomeo de las Casas come alla conferma di un cammino in atto. Un cammino di purificazione - storica, culturale ed ecclesiale - che ha portato la Chiesa a farsi carico con maggior convinzione della causa degli indigeni. L'ultima tappa di tale cammino, lungi dal potersi dire compiuto, è il viaggio papale in Messico dell'estate scorsa, durante il quale per la prima volta è stato canonizzato un indio, il beato Juan Diego Cuauhtlatoatzin. "Nell'accogliere il messaggio cristiano senza rinunciare alla sua identità indigena, Juan Diego scoprì la profonda verità della nuova umanità, nella quale tutti sono chiamati ad essere figli di Dio. In tal modo - disse il Papa - facilitò l'incontro fecondo di due mondi e si trasformò in protagonista della nuova identità messicana".
Di qui Bartolomeo, il difensore degli indigeni, di là Juan Diego, un indio: una Chiesa latinoamericana che vuol camminare sulle rotte del Vangelo ha ormai bussole sicure.
testo integrale tratto da "Avvenire" - 2 ottobre 2002