Non sappiamo più ascoltare


di Leonardo Zega
 

DICEVA Karl Barth, il più geniale teologo protestante del secolo scorso, che il vero cristiano si alimenta quotidianamente a due fonti: la Bibbia per avere il senso globale, la visione d’insieme della vita; il giornale, per vivere la concretezza delle opere e dei giorni.

Che significa in concreto: fedeltà a Dio e fedeltà alla terra. La lezione di catechismo, impartita ieri mattina da Giovanni Paolo II nella consueta udienza del mercoledì, ha colpito come una frustata lacerante l’immaginazione di quanti lo ascoltavano proprio perché, più che in altre occasioni, si è colta questa duplice dimensione: da un lato, la testimonianza di Geremia, profeta del dolore e della speranza di Israele in tempi di deportazione, di fame e di guerra, condensata nel «lamento» (14, 17-22) da cui ha preso le mosse il discorso del Papa; dall’altro, lo spettacolo del mondo d’oggi, che la cronaca registra impietosa, con le sue follie terroristiche, i suoi venti di guerra, le devastazioni, il puzzo di morte e di decomposizione, greve come la macchia nera che sta uccidendo il mare al largo delle coste della Galizia. Geremia - commenta il Papa - piange sugli israeliti che si sentono soli e abbandonati, privi di pace, di salvezza, di speranza.

Lasciati a se stessi, si trovano come sperduti e invasi dal terrore. In preda al panico, gridano a Dio per bocca del profeta: «Hai forse rigettato completante Giuda, oppure ti sei disgustato di Sion?». Su questa desolazione grava anche il «silenzio di Dio», che è la tragedia maggiore. «Dio - dice ancora il Papa sulla traccia di Geremia - sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato dell’agire dell’umanità», mentre «i custodi della Parola del Signore si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare». E continua: «Non è forse questa solitudine esistenziale la sorgente profonda di tanta insoddisfazione, che cogliamo anche ai giorni nostri?

Tanta insicurezza e tante reazioni sconsiderate hanno la loro origine nell’avere abbandonato Dio, roccia di salvezza». «Il silenzio di Dio» dunque altro non è che la nostra incapacità di ascoltare, perché l’orecchio e il cuore si sono induriti. Già Charles Péguy (i poeti autentici sono anche un po’ profeti) aveva osato scrivere: «Essi preparavano tali mostruosità che io stesso, Dio, ne fui spaventato.

E dovetti perdere la pazienza, pur essendo paziente perché eterno. Io ho anche un volto di collera». Questo Papa, così radicato nella trascendenza e così legato alle vicende degli uomini del suo tempo, non parla mai a caso: chi sfida il cielo e terrorizza la terra, chi immagina di restaurare l’ordine e la giustizia con le cannonate, chi chiude per ingordigia il cuore al grido dei poveri sappia che Dio, onnipotente e misericordioso, ha anche «un volto di collera».

leonardo.zega@stpauls.it

testo integrale tratto da "La Stampa" - 12 dicembre 2002

 

 

 

 

 

 

 

 

Casella di testo: Non sappiamo più ascoltare


di Leonardo Zega 

DICEVA Karl Barth, il più geniale teologo protestante del secolo scorso, che il vero cristiano si alimenta quotidianamente a due fonti: la Bibbia per avere il senso globale, la visione d’insieme della vita; il giornale, per vivere la concretezza delle opere e dei giorni. 
Che significa in concreto: fedeltà a Dio e fedeltà alla terra. La lezione di catechismo, impartita ieri mattina da Giovanni Paolo II nella consueta udienza del mercoledì, ha colpito come una frustata lacerante l’immaginazione di quanti lo ascoltavano proprio perché, più che in altre occasioni, si è colta questa duplice dimensione: da un lato, la testimonianza di Geremia, profeta del dolore e della speranza di Israele in tempi di deportazione, di fame e di guerra, condensata nel «lamento» (14, 17-22) da cui ha preso le mosse il discorso del Papa; dall’altro, lo spettacolo del mondo d’oggi, che la cronaca registra impietosa, con le sue follie terroristiche, i suoi venti di guerra, le devastazioni, il puzzo di morte e di decomposizione, greve come la macchia nera che sta uccidendo il mare al largo delle coste della Galizia. Geremia - commenta il Papa - piange sugli israeliti che si sentono soli e abbandonati, privi di pace, di salvezza, di speranza. 
Lasciati a se stessi, si trovano come sperduti e invasi dal terrore. In preda al panico, gridano a Dio per bocca del profeta: «Hai forse rigettato completante Giuda, oppure ti sei disgustato di Sion?». Su questa desolazione grava anche il «silenzio di Dio», che è la tragedia maggiore. «Dio - dice ancora il Papa sulla traccia di Geremia - sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato dell’agire dell’umanità», mentre «i custodi della Parola del Signore si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare». E continua: «Non è forse questa solitudine esistenziale la sorgente profonda di tanta insoddisfazione, che cogliamo anche ai giorni nostri? 
Tanta insicurezza e tante reazioni sconsiderate hanno la loro origine nell’avere abbandonato Dio, roccia di salvezza». «Il silenzio di Dio» dunque altro non è che la nostra incapacità di ascoltare, perché l’orecchio e il cuore si sono induriti. Già Charles Péguy (i poeti autentici sono anche un po’ profeti) aveva osato scrivere: «Essi preparavano tali mostruosità che io stesso, Dio, ne fui spaventato.
E dovetti perdere la pazienza, pur essendo paziente perché eterno. Io ho anche un volto di collera». Questo Papa, così radicato nella trascendenza e così legato alle vicende degli uomini del suo tempo, non parla mai a caso: chi sfida il cielo e terrorizza la terra, chi immagina di restaurare l’ordine e la giustizia con le cannonate, chi chiude per ingordigia il cuore al grido dei poveri sappia che Dio, onnipotente e misericordioso, ha anche «un volto di collera». 
leonardo.zega@stpauls.it 
testo integrale tratto da "La Stampa" - 12 dicembre 2002