CUORE DEL PROBLEMA
TERRA SANTA NON L'IRAQ
di Luigi Geninazzi
La guerra in Iraq può essere evitata, la spirale di violenza in Terra Santa dev'essere fermata. L'appello alla pace che Giovanni Paolo II ha lanciato da piazza San Pietro il giorno di Natale ha una forma poetica, nei toni della tradizione, ma anche una sostanza profetica, com'è tipico di questo pontificato. Lo sguardo di Papa Wojtyla scorge «i sinistri bagliori di un conflitto» che possono venir spenti fin da subito «con l'impegno di tutti». È l'invito a privilegiare le armi della diplomazia rispetto a quelle degli eserciti che vengono dispiegati in questi giorni con immane potenza e ancor più inquietante supponenza nella zona del Golfo.
Ma è interessante notare che l'attenzione del Pontefice al Medio Oriente si colloca dentro una più grande preoccupazione per la Terra Santa. Qui, «innanzitutto», sottolinea Giovanni Paolo II, siamo chiamati a costruire la pace, a «frenare finalmente l'inutile spira le di cieca violenza» che oppone israeliani e palestinesi.
Per gli strateghi di Washington la guerra contro l'Iraq, una guerra-lampo che spazzerebbe via in pochi giorni il dittatore di Baghdad, dovrebbe avviare un "circolo virtuoso" in tutta la regione costringendo i Paesi arabi ad uscire dall'ambiguità nei riguardi del terrorismo e spingendo palestinesi e israeliani a siglare un accordo di pace realistico, non più fondato sugli utopismi ormai caduti del processo di Oslo.
Per il Papa il cuore del problema sta innanzitutto nella Terra Santa, sfigurata da due opposti estremismi, come ebbe a dire con parole insolitamente esplicite un anno fa. Dunque, mettere fine alla scia di sangue che s'allunga ogni giorno di più in Israele e nei Territori palestinesi è il compito più urgente. Un compito che non può essere rinviato sine die, o rimandato con incosciente ottimismo al giorno in cui i marines entreranno trionfalmente nel bunker di Saddam Hussein. Si può temere al contrario che il conflitto iracheno acceleri la corsa verso il baratro di israeliani e palestinesi.
I venti di guerra che soffiano in Medio Oriente hanno già travolto l'idea di tenere le elezioni nei Territori palestinesi all'inizio del prossimo anno. E pensare che erano state richieste perentoriamente da Bush ad Arafat come prova della volontà riformista e democratica della leadership palestinese. Ora sono state cancellate ma nessuno ha protestato. Si va al fronte, le urne possono attendere.
Piuttosto che iniziare una nuova guerra contro l'Iraq sarebbe meglio fermare la guerra strisciante che va avanti in Terra Santa. Qui infatti è all'opera quel meccanismo infernale di «diffidenza, sospetto e sfiducia» che si nutre delle «incertezze» e dei «timori» accresciuti dal «tragico fenomeno del terrorismo» e che dopo l'11 settembre risch ia di diventare un paradigma per il mondo intero. Il messaggio che arriva dalla grotta di Betlemme è una sfida alla mentalità corrente. Purtroppo la stessa città dov'è nato Gesù è diventata sinonimo di violenza e di odio, di terrorismo e repressione militare. A furia di guardare allo scontro israelo-palestinese come ad una realtà ineluttabile ci stiamo dimenticando che in Terra Santa sono in gioco luoghi, valori ed equilibri che appartengono a tutta l'umanità. Un triste Natale a Betlemme è un brutto presagio per ogni popolo.
testo integrale tratto da "Avvenire" - 27 dicembre 2002 |