Tra ideologia ed emozione

di Igor Man


La prima volta del Papa in Parlamento chiude la questione romana, meglio: i suoi patetici epigoni, in apnea a dispetto di (ben) due Concordati, escono di scena. Definitivamente. Il discorso di Wojtyla agli «eletti rappresentanti» del popolo italiano, tuttavia, non sancisce la separatezza fra Chiesa e Stato: semplicemente perché esiste già, e da tempo, in grazia di quella «pace religiosa» che consentì di eliminare la clausola concordataria sulla «religione di Stato». Semmai è vero il contrario: è proprio la collaudata distinzione tra Cesare e Dio a dare naturalezza a un accadimento invero storico, almeno per l’Italia, qual è il discorso del Capo della Chiesa romana ai membri del nostro libero Parlamento laico.

Ma il discorso di Giovanni Paolo II alla «amata Nazione italiana» rimane pur sempre un atto politico dai molteplici significati. E’ una vita, una lunga vita del resto, che Karol Wojtyla fa politica intitolandola alla fede: nell’Uomo, nella Libertà. Gli applausi, forse un po’ da stadio, dei deputati, dei senatori, che han sottolineato questo o quel passaggio d’un discorso via via fattosi sempre più franco, diretto, quelle standing ovation sono, erano, il frutto di una emozione subitanea ovvero una adesione convinta? E’ una domanda senza risposta, ora come ora.


Storto ma straordinariamente vigoroso, senza più impietosi tremiti, affidandosi al bastone anziché alla pedana mobile, sempre Giobbe ma altresì eroicamente Paolo, Karol Wojtyla, lui, cittadino romano e di Roma Vescovo, Sua Santità il Papa parla in un’aula che già fu «sorda e grigia» ove tacciono i telefonini e un miscelatore assorbe fiati e flatulenze di presunzione. Lo ascoltano uomini che non sempre si ricordano d’essere rappresentanti del «popolo sovrano» e, come tali, sottoscrittori d’un patto d’onore con la gente: quella piccola, «che non conta» epperò possiede il giudizio finale.


Con la sua voce cortisonica, l’Ultimo Evangelista sollecita un soprassalto di onestà politica, una coraggiosa presa di coscienza di guasti e speranze affinché, con Gesù, risorga la pietà: per chi soffre il mancato lavoro, l’ingiustizia, la fame, la galera. Ancora: Wojtyla, Profeta postmoderno, sollecita l’Europa a pensare in grande, non soltanto in termini economici e politici. Egli, il Papa, denuncia il terrorismo, nuovo e terribile poiché «chiama in causa, in maniera totalmente distorta, anche le grandi religioni», ma il Cristianesimo «annunciando il Dio dell’amore si propone come la religione del reciproco rispetto, del perdono, della riconciliazione».

Infine, improvvisamente stanco ma fiducioso, il Papa grida una volta di più: «Aprite le porte a Cristo». Il che vuol dire soprattutto «curarsi dell’Altro», specie se straniero, migrante.
Parole al vento? Forse. Ma al vento della Storia che trascina il seme della beata speranza. Il vento è spesso distratto, basterà tuttavia che un seme solo attecchisca nel deserto di noi, e saremo salvi.

testo integrale tratto da "La Stampa" - 15 novembre 2002

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Casella di testo: Tra ideologia ed emozione
di Igor Man

La prima volta del Papa in Parlamento chiude la questione romana, meglio: i suoi patetici epigoni, in apnea a dispetto di (ben) due Concordati, escono di scena. Definitivamente. Il discorso di Wojtyla agli «eletti rappresentanti» del popolo italiano, tuttavia, non sancisce la separatezza fra Chiesa e Stato: semplicemente perché esiste già, e da tempo, in grazia di quella «pace religiosa» che consentì di eliminare la clausola concordataria sulla «religione di Stato». Semmai è vero il contrario: è proprio la collaudata distinzione tra Cesare e Dio a dare naturalezza a un accadimento invero storico, almeno per l’Italia, qual è il discorso del Capo della Chiesa romana ai membri del nostro libero Parlamento laico. 
Ma il discorso di Giovanni Paolo II alla «amata Nazione italiana» rimane pur sempre un atto politico dai molteplici significati. E’ una vita, una lunga vita del resto, che Karol Wojtyla fa politica intitolandola alla fede: nell’Uomo, nella Libertà. Gli applausi, forse un po’ da stadio, dei deputati, dei senatori, che han sottolineato questo o quel passaggio d’un discorso via via fattosi sempre più franco, diretto, quelle standing ovation sono, erano, il frutto di una emozione subitanea ovvero una adesione convinta? E’ una domanda senza risposta, ora come ora.

Storto ma straordinariamente vigoroso, senza più impietosi tremiti, affidandosi al bastone anziché alla pedana mobile, sempre Giobbe ma altresì eroicamente Paolo, Karol Wojtyla, lui, cittadino romano e di Roma Vescovo, Sua Santità il Papa parla in un’aula che già fu «sorda e grigia» ove tacciono i telefonini e un miscelatore assorbe fiati e flatulenze di presunzione. Lo ascoltano uomini che non sempre si ricordano d’essere rappresentanti del «popolo sovrano» e, come tali, sottoscrittori d’un patto d’onore con la gente: quella piccola, «che non conta» epperò possiede il giudizio finale.

Con la sua voce cortisonica, l’Ultimo Evangelista sollecita un soprassalto di onestà politica, una coraggiosa presa di coscienza di guasti e speranze affinché, con Gesù, risorga la pietà: per chi soffre il mancato lavoro, l’ingiustizia, la fame, la galera. Ancora: Wojtyla, Profeta postmoderno, sollecita l’Europa a pensare in grande, non soltanto in termini economici e politici. Egli, il Papa, denuncia il terrorismo, nuovo e terribile poiché «chiama in causa, in maniera totalmente distorta, anche le grandi religioni», ma il Cristianesimo «annunciando il Dio dell’amore si propone come la religione del reciproco rispetto, del perdono, della riconciliazione». 
Infine, improvvisamente stanco ma fiducioso, il Papa grida una volta di più: «Aprite le porte a Cristo». Il che vuol dire soprattutto «curarsi dell’Altro», specie se straniero, migrante.
Parole al vento? Forse. Ma al vento della Storia che trascina il seme della beata speranza. Il vento è spesso distratto, basterà tuttavia che un seme solo attecchisca nel deserto di noi, e saremo salvi.
testo integrale tratto da "La Stampa" - 15 novembre 2002