Nella Chiesa una rivoluzione, si chiama Concilio
Da
Molte cose, al punto che - guardando con occhio razionale e umano ai cambiamenti sopraggiunti nell'espressione della fede e misurando le contraddizioni vissute anche personalmente nella mia vicenda di credente - io stesso potrei paradossalmente dire di avere diverse ragioni per non essere più cristiano. Tuttavia, proprio perché essere cristiani significa credere in Cristo e volere che la sua vita determini la nostra dietro a lui, la fede cristiana si rinnova di giorno in giorno, anche se le forme della fede di oggi non sono più quelle di ieri. Un cambiamento fondamentale, anche se non percepibile immediatamente, è quello avvenuto nei credenti, oggi meno numerosi di ieri al punto di essere diventati minoranza anche nei paesi di antica cristianità come l'Italia, ma dotati di una consapevolezza della loro identità cristiana ben più profonda di quella che avevano quarant'anni fa: è venuta la stagione della secolarizzazione, quella della morte di Dio, ma in verità la consapevolezza di cosa significhi essere alla sequela di Gesù, assumere il Vangelo come canone e norma della vita cristiana personale, accettare di svolgere il proprio impegno nel mondo si è fatta sempre più profonda. È triste sentire ancora oggi lamentele e rimpianti per il tempo che fu: certo, è venuta meno la cristianità, ma è più vivo il cristianesimo! Ma accanto alla consapevolezza vi è anche la ritrovata soggettività responsabile del credente. Pochi ricordano che fino al Concilio a nessun cristiano era dato di proferire una parola in ambito religioso che non fosse ripetizione di quanto appartenente alla tradizione o al magistero ecclesiastico. Oggi i credenti sanno intervenire con una soggettività e una responsabilità grande nella vita della Chiesa attraverso diversi servizi e modi di presenza che sono stati attivati nelle comunità cristiane per assicurare crescita e maturazione. Oggi c'è una fede «pensata» e una responsabilità, espressa soprattutto attraverso forme di carità, che non vanno dimenticate né sottovalutate. Nessuna apologetica né trionfalismo in questa osservazione: certo questi cristiani con una fede matura e una capacità di presenza nella società sono una minoranza e si può dire che sono pochi, troppo pochi rispetto al numero dei battezzati, e tuttavia esistono e hanno dato un volto nuovo alla comunità ecclesiale! Cosa potrebbe fare un presbitero oggi se avesse accanto a sé solo persone come quelle che si ritrovavano negli Anni 50: devote, pie, individualmente anche sante, ma carenti di dimensione comunitaria e di carattere ecclesiale? Ma cerchiamo ora di evidenziare alcuni dei cambiamenti più vistosi. Il primo è certamente quello della liturgia della Chiesa, rinnovata dalla riforma conciliare. Sì, ci sono ancora dei nostalgici della liturgia preconciliare (e in verità molte loro critiche sono ragionevoli perché denunciano la sciattezza e la «mondanità» di alcune forme liturgiche attuali), ma è innegabile che l'introduzione della lingua quotidiana nella liturgia ha rappresentato un mutamento epocale non solo nella preghiera ma anche nel vivere la Chiesa: allora si andava «ad «assistere alla messa», preoccupati solo di osservare il «precetto» mentre oggi nessuno più penserebbe di esprimersi in questi termini perché nella liturgia vi è una certa partecipazione coinvolgente e una vera pedagogia alla comunicazione e alla comunione. Non sono cambiati solo i «riti», è cambiato il modo di «fare assemblea», e dunque il modo di essere Chiesa: chiunque partecipi a una celebrazione eucaristica oggi comprende ciò che viene celebrato, sente nelle letture dell'Antico e del Nuovo Testamento cosa Dio ha voluto dire agli uomini attraverso i profeti, gli apostoli e Gesù Cristo, percepisce un «noi celebrante» e non più soltanto un prete con davanti gente che assiste. Mi sento di affermare con forza, anche perché ne sono testimone fin dall'inizio del Concilio, che è soprattutto attraverso la liturgia che la Bibbia è ritornata al centro della vita della Chiesa. Chi potrebbe smentire questa novità rispetto agli anni cinquanta, quando nella Chiesa cattolica era ancora vietata al semplice cristiano la lettura della Bibbia? E siamo ancora oggi ben lontani dal poter misurare tutti i mutamenti che questo provocherà nella Chiesa, soprattutto quando il contatto con la santa Scrittura diventerà sempre più assiduità da parte del cristiano nella sua vita quotidiana. È quanto avviene per molti già oggi: sono numerosissime le parrocchie in cui non mancano coloro che pregano quotidianamente con la Bibbia, quelli che la leggono insieme e su di essa si confrontano in modo da giungere a fare di quella parola di Dio in essa contenuta il cibo quotidiano, l'ispirazione per il proprio comportamento nel mondo e nella storia. Ma accanto a questo mutamento ve n'è un altro che segna addirittura l'inizio di una nuova epoca. È il cambiamento avvenuto nell'atteggiamento verso l'altro: gli ebrei, innanzitutto, poi i cristiani di altre confessioni e gli appartenenti ad altre religioni. Dall'ostilità alla ricerca della comunione, dal disprezzo al dialogo, dall'anatema e dall'arroganza di chi possiede la verità alla ricerca comune di vie di pace e di giustizia... I «perfidi giudei» - come erano chiamati nella preghiera - sono diventati i «nostri fratelli maggiori», mentre gli altri cristiani, che secondo il catechismo in uso prima del Concilio erano «scismatici, eretici, condannati all'eternità dell'inferno», sono diventati i fratelli con cui rendere testimonianza all'unico Cristo e progettare una Chiesa, una comunità, una casa comune. Questi i mutamenti più vistosi sopraggiunti grazie a quell'intuizione profetica di papa Giovanni che, attraverso il Concilio, volle l'«aggiornamento» della fede cristiana e della vita cattolica, volle - secondo un'espressione usata dal cardinal Ratzinger - «aprire le finestre». Oggi, a distanza di quarant'anni - quando i «padri conciliari» che ancora esercitano il ministero episcopale sono ridotti a sette, tra cui Giovanni Paolo II, mentre un centinaio di altri vescovi che hanno partecipato al Concilio sono ormai «emeriti» - ci si può chiedere se il Concilio è stato attuato. Non dimentichiamo però che il tempo di ricezione di un Concilio è lungo e sovente il periodo successivo è contraddistinto da tentativi di palesa contraddizione alle delibere conciliari: si pensi che il cardinal Bellarmino stese diversi memoranda per sollecitare dal papa Clemente VIII l'adempimento del Concilio tridentino, terminato da ormai quarant'anni. Oggi siamo in una stagione che sembra non voler più trarre ispirazione da quell'evento: per alcuni è tornata la nostalgia della cristianità con la sua arroganza confessionale, il dialogo ecumenico conosce un autentico inverno e purtroppo la comunione nella Chiesa è sempre più declinata in forme che paiono seguire una logica di «federazione» in cui tutti hanno il diritto di sentirsi diversi e non ritengono di dover convergere secondo un criterio comune di unità e di comunione. C'è il rischio che si formino due chiese obbedienti a due polarità, in modo silenzioso, senza contestazione reciproca, mentre per molti altri cristiani la tentazione è di vivere «etsi ecclesia non daretur» perché non avvertono più il dovere di obbedire alle esortazioni della gerarchia. Possiamo chiederci se ci sono ancora nemici del Concilio. Dobbiamo rispondere di sì. Non sono contestatori manifesti dei testi promulgati, ma dello spirito conciliare, persone che temono che quanto rappresentato da quell'evento possa essere rinnovato oggi. Non si dovrebbe dimenticare che tra il 1980 e il 1985 si paventò addirittura la possibilità di «declassare» questo Concilio perché «pastorale» e ci fu chi ne chiese un'ermeneutica in cui il passato ecclesiale doveva prevalere sul novum del Concilio stesso. D'altro canto, c'è chi auspica un Concilio Vaticano III, e occorre riconoscere che i problemi urgenti sono molti e attendono una parola ecclesiale fedele alla tradizione ma capace di essere compresa e vissuta oggi. Per questo occorrerà comunque che si arrivi a un nuovo dialogo, a un confronto tra chiese oggi di diverse culture e situate in contesti socio-politici differenti. Ma è soprattutto necessaria - e lo ridice Giovanni Paolo II - una Chiesa comunionale nella quale la sinodalità, cioè il camminare insieme (syn-odos) sia la modalità per cui tutti sono soggetti responsabili, secondo l'antico principio ecclesiale: «su ciò che riguarda tutti, tutti devono essere ascoltati». Sì, resta ancora molto da attuare del Concilio, soprattutto nelle strutture della Chiesa, ma ciò che è stato acceso come fuoco nel cuore dei credenti per ora arde e non pare in procinto di spegnersi.
testo integrale Tratto da "La Stampa" 18 ottobre 2002
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