Grazie al Vaticano II la libertà religiosa diventò un diritto naturale:

fu la fine del concetto di «Stato cristiano»

 

Quarant’anni fa la Chiesa cominciò il dialogo

 con il mondo moderno

di FRANCESCO MARGIOTTA BROGLIO

 

 

Riflettendo su se stessa e sulla propria missione la Chiesa di Roma inizia, con il Vaticano II, il dialogo con il mondo moderno e mette fine alla guerra iniziata con la rivoluzione francese, madre di tutti i mali del «secolo», prodotto ultimo della riforma protestante, dell’ebraismo, del libero pensiero. Si impegna a scrutare i «segni dei tempi» e ad interpretarli alla luce del Vangelo. Testi fondamentali, la Costituzione «Gaudium et spes», e la dichiarazione «Dignitatis humanae». Le conseguenze sulla libertà religiosa e sui rapporti con gli Stati sono profonde e determinanti. La prima diventa un diritto naturale, anteriore e superiore al diritto positivo, fondato sul primato della persona, della sua coscienza e della sua dignità. Ad essa deve essere accordata un’efficace protezione giuridica senza distinzione tra credenti e non da parte degli Stati i quali non possono differenziare il trattamento di cittadini e comunità in base all’appartenenza confessionale: gli esseri umani, immuni da ogni forma di coercizione, non potranno in alcun modo essere forzati ad agire contro coscienza. Una immunità riconosciuta per secoli ai soli fedeli della «vera» religione, la cattolica. E’ la fine dello «Stato cristiano», senza che la Chiesa rinunci alla propria identità e alle verità di fede fondamentali verso le quali, pero, l’uomo deve indirizzarsi liberamente e consapevolmente.
Inevitabili e altrettanto determinanti gli effetti sui rapporti della Chiesa con le comunità politiche che devono fondarsi sulla indipendenza, l’autonomia e la libertà collettiva delle religioni, e non più sui «privilegi offerti dall’autorità civile». Anzi, ove nuove circostanze lo esigessero, la Chiesa deve rinunciare anche all’esercizio di «diritti acquisiti» nei vari Stati. Non solo, quindi, un regime comune per tutte le confessioni, ma anche una regolamentazione del fenomeno religioso attraverso un diritto comune rispettoso delle libertà individuali e collettive di coscienza e di religione. Il più autorevole canonista italiano, d’Avack, parlò di fine dell’era costantiniana; uno dei grandi teologi del Concilio, Congar, di «pagina del Medio Evo definitivamente voltata». Già nel ’49 aveva scritto che si doveva guardare agli «uomini che cristianizzano le istituzioni», non alle «istituzioni che cristianizzano gli uomini».
Il Concilio sancì la fine dell’obbligo dello Stato di operare scelte religiose specifiche, di assumere una fede religiosa come credo ufficiale, di qualificarsi come Stato cattolico, utilizzando la religione per governare (i casi di Mussolini, Franco e Salazar erano testimonianza recente: e il Caudillo non gradì). Non semplice neutralità, dunque, ma radicale incompetenza dello Stato in materia di religione:
era il capovolgimento dello stato confessionale fondato proprio sulla competenza religiosa dei governanti. Si pensi che ancora alla vigilia del Concilio erano state aggiornate e ristampate le «Istituzioni di diritto pubblico esterno» del cardinale Ottaviani che, sulla base di un’autorevole dottrina formulata nel secolo precedente dal Tarquini, ribadivano la concezione della Chiesa come società «giuridicamente perfetta», superiore allo Stato perché superiori sono i suoi fini ultraterreni, e titolare dell’ultima parola in caso di controversie in forza della subordinazione dello Stato alla sua podestà, quantomeno indiretta, anche negli affari temporali.
Che cosa ha prodotto tutto questo nel quarantennio trascorso? Certo la grande strategia di
Giovanni Paolo II, che ha al suo centro la persona umana e la sua libertà, ma anche la scelta di Paolo VI di accettare, firmando l’atto finale di Helsinki, la parificazione giuridica tra credenza e non credenza, sono stati sviluppi epocali nell’atteggiamento della Chiesa verso il mondo. Certo i moltissimi concordati firmati dopo il Concilio (una cinquantina, nonostante alcuni inavvertiti canonisti ne avessero previsto la scomparsa) hanno, con qualche eccezione, ripreso le indicazioni dei sedici testi del Vaticano II.
Certo, inaspettatamente per chi deliberava quaranta anni orsono, la realizzazione di questi nuovi principii ha dovuto fare i conti con la fine dei regimi comunisti - che ha complicato le relazioni ecumeniche (si pensi ai rapporti tra Santa Sede e ortodossia russa) e ridato vita alle religioni di Stato - e con l’ondata di fondamentalismi in atto.
I «segni dei tempi» sono andati, insomma, in direzione diversa da quella che i padri conciliari si aspettavano. Ma, in fondo, quarant’anni sono meno di un’istante nella storia dell’eternità.

testo integrale tratto da "Il Corriere della Sera" - 14 ottobre 2002