Quarant’anni fa la Chiesa cominciò il dialogo con il mondo moderno Riflettendo su se stessa e sulla propria missione la Chiesa di Roma inizia, con il Vaticano II, Inevitabili e altrettanto determinanti gli effetti sui rapporti della Chiesa con le comunità politiche che devono fondarsi sulla indipendenza, l’autonomia e la libertà collettiva delle religioni, e non più sui «privilegi offerti dall’autorità civile». Anzi, ove nuove circostanze lo esigessero, la Chiesa deve rinunciare anche all’esercizio di «diritti acquisiti» nei vari Stati. Non solo, quindi, un regime comune per tutte le confessioni, ma anche una regolamentazione del fenomeno religioso attraverso un diritto comune rispettoso delle libertà individuali e collettive di coscienza e di religione. Il più autorevole canonista italiano, d’Avack, parlò di fine dell’era costantiniana; uno dei grandi teologi del Concilio, Congar, di «pagina del Medio Evo definitivamente voltata». Già nel ’49 aveva scritto che si doveva guardare agli «uomini che cristianizzano le istituzioni», non alle «istituzioni che cristianizzano gli uomini». Il Concilio sancì la fine dell’obbligo dello Stato di operare scelte religiose specifiche, di assumere una fede religiosa come credo ufficiale, di qualificarsi come Stato cattolico, utilizzando la religione per governare (i casi di Mussolini, Franco e Salazar erano testimonianza recente: e il Caudillo non gradì). Non semplice neutralità, dunque, ma radicale incompetenza dello Stato in materia di religione: era il capovolgimento dello stato confessionale fondato proprio sulla competenza religiosa dei governanti. Si pensi che ancora alla vigilia del Concilio erano state aggiornate e ristampate le «Istituzioni di diritto pubblico esterno» del cardinale Ottaviani che, sulla base di un’autorevole dottrina formulata nel secolo precedente dal Tarquini, ribadivano la concezione della Chiesa come società «giuridicamente perfetta», superiore allo Stato perché superiori sono i suoi fini ultraterreni, e titolare dell’ultima parola in caso di controversie in forza della subordinazione dello Stato alla sua podestà, quantomeno indiretta, anche negli affari temporali. Che cosa ha prodotto tutto questo nel quarantennio trascorso? Certo la grande strategia di Giovanni Paolo II, che ha al suo centro la persona umana e la sua libertà, ma anche la scelta di Paolo VI di accettare, firmando l’atto finale di Helsinki, la parificazione giuridica tra credenza e non credenza, sono stati sviluppi epocali nell’atteggiamento della Chiesa verso il mondo. Certo i moltissimi concordati firmati dopo il Concilio (una cinquantina, nonostante alcuni inavvertiti canonisti ne avessero previsto la scomparsa) hanno, con qualche eccezione, ripreso le indicazioni dei sedici testi del Vaticano II. Certo, inaspettatamente per chi deliberava quaranta anni orsono, la realizzazione di questi nuovi principii ha dovuto fare i conti con la fine dei regimi comunisti - che ha complicato le relazioni ecumeniche (si pensi ai rapporti tra Santa Sede e ortodossia russa) e ridato vita alle religioni di Stato - e con l’ondata di fondamentalismi in atto. I «segni dei tempi» sono andati, insomma, in direzione diversa da quella che i padri conciliari si aspettavano. Ma, in fondo, quarant’anni sono meno di un’istante nella storia dell’eternità. testo integrale tratto da "Il Corriere della Sera" - 14 ottobre 2002
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