UNA GUERRA SENZA FRONTIERE

Il piacere del viaggio, la voglia di avventura o di scoperta — non sono certo questi i motivi che spingono ad emigrare. Si emigra perché improvvisamente si è di troppo su terre che fino a quel momento erano riuscite a sfamare tutti; perché non si trova di meglio da fare, dopo ristrutturazioni industriali e licenziamenti di massa; per sfuggire ai disastri ecologici, all’avanzare dei deserti, all’avvelenamento delle campagne; per salvarsi dalle guerre o dalle carestie. Quando non si emigra per inseguire condizioni di vita migliori, lo si fa perché non si può fare altrimenti: questo è l’oceano che divide l’emigrante dal semplice viaggiatore o, ancor di più, dal turista.

La propaganda razzista che descrive un’Europa prossima all’invasione da parte di folle ignoranti e bellicose ha tutti i torti dalla sua parte. Di centocinquanta milioni di persone che errano per il mondo soltanto il diciassette per cento punta sul nostro continente. Buona parte degli altri continuano a percorrere l’Africa e l’Asia, dove ormai accanto ad ogni paese povero ce n’è un altro ancora più povero e desolato dal quale fuggire. La mobilitazione totale imposta dall’economia e dagli Stati è un fenomeno planetario: milioni di sfruttati attraversano l’inferno del paradiso mercantile sballottati di frontiera in frontiera, concentrati in bidonville, costretti in campi profughi accerchiati dalla polizia e dall’esercito, affastellati nelle “zone di attesa” degli aeroporti o negli stadi, rinchiusi in lager e infine impacchettati ed espulsi nella più totale indifferenza. Nessuna invasione è in corso, quella cui partecipiamo è invece una guerra civile non dichiarata e senza confini.

A voler guardare da vicino la storia delle migrazioni negli ultimi due secoli, si scopre che è l’avanzare del progresso a costringere masse intere ad abbandonare tutto quel che hanno per cercare altrove una vita nuova. Facciamo alcuni esempi. » stata l’introduzione contemporanea dei macchinari per la lavorazione del cotone negli Stati Uniti e dei telai meccanici in Inghilterra a popolare di neri le campagne americane, alla fine del Settecento. Le nuove macchine avevano fame di cotone, e solo le braccia degli schiavi potevano fornirne a sufficienza. » stato proprio attorno a quei telai meccanici che sono stati costretti a radunarsi i riottosi artigiani inglesi, prima sparpagliati nei loro villaggi. Macchine e operai rinchiusi nelle fabbriche, imprigionati nelle prime metropoli della civiltà industriale.

Da lÏ in poi la rivoluzione industriale ha percorso il pianeta e lo ha riorganizzato ad immagine delle sue macchine. Con un doppio movimento ciclico e continuo, ha dissolto i rapporti economici e sociali obsoleti e ne ha ricreati di nuovi in base alle proprie esigenze, sradicando e disperdendo gli sfruttati per poi concentrarli nei nuovi luoghi di produzione. Gli italiani e gli irlandesi che attraversavano gli oceani per far avanzare le frontiere dell’espansione capitalista si lasciavano alle spalle le macerie determinate dallo scontro tra il capitalismo in ascesa e le strutture contadine. Il progresso, insomma, ha sempre apparecchiato le condizioni della fuga degli emigranti dai paesi d’origine e contemporaneamente quelle dell’arrivo degli immigrati nei paesi assetati di mano d’opera a basso prezzo — le cause espulsive delle migrazioni e quelle attrattive, nel gergo asettico dei demografi. A sottolineare questa corrispondenza passata c’è il fatto che per lunghi periodi alcuni Stati hanno comperato le braccia da sfruttare direttamente dagli Stati che erano in grado di fornirle. Per trent’anni, il governo belga ha acquistato duemila minatori alla settimana da quello italiano, con accordi bilaterali rinnovati fino alla metà degli anni Settanta.

Il pendolo del progresso ha sempre oscillato tra il polo dello sradicamento di massa degli sfruttati e quello della loro integrazione in nuovi modi di vita: un movimento che si è fatto più veloce ed esteso, grazie alla forza crescente della tecnologia e della scienza. Ora questo pendolo sembra impazzito, è come se si fosse bloccato sul primo polo. I processi distruttivi innescati dalle innovazioni tecnologiche sono via via più profondi e incontrollabili per i padroni stessi e il normale funzionamento della produzione industriale causa non solo la distruzione delle campagne e i licenziamenti di massa, ma sempre più guerre, colpi di Stato, disastri ecologici e carestie. Tutti questi fattori compongono un mosaico d’oppressione e di miseria in cui gli effetti dello sfruttamento si fanno a loro volta cause immediate e remote di sofferenza e di sradicamento, in una spirale infinita che rende ipocrita ogni distinzione fra sfollati, migranti, profughi, richiedenti asilo, rifugiati, sopravvissuti.

Una parte dei migranti continua ad essere, cosÏ, forza lavoro ricattabile e a basso costo per la produzione dei paesi più industrializzati: la concessione e il rifiuto dei permessi di soggiorno ne disegna la gerarchia sociale, lo spettro della clandestinità ne garantisce l’obbedienza. Ma tutti gli altri sono anche e soprattutto parte di una massa in soprannumero che nessuno sa più come sfruttare, capro espiatorio di tensioni sociali che anche nei nostri paesi emergono esplosive, nemici interni ed esterni contro i quali la propaganda ci chiede di scagliarci. E questo è un quadro che si avvicina a quello dell’Europa degli anni Trenta, un’Europa percorsa dai milioni di profughi della Grande Guerra, colma di apolidi e di gente divenuta superflua, un continente che intravedeva già all’orizzonte i campi di concentramento e una guerra ancora più sanguinosa.

Stranieri ovunque