L'IMPOSSIBILE VITA DI ALÌ

La storia di Alì è emblematica; la sua vicenda rappresenta da sola l’intera tragedia del popolo palestinese.

Durante la Nakba (la catastrofe) del 1948 — prima guerra di conquista della nuova nazione israeliana, che causò l’esodo di più di novecentomila palestinesi — la famiglia di Alì fuggì da Nazareth verso Hebron. Alì nasce il 18 febbraio 1955 a Hebron, ma nella successiva guerra del 1967 la sua famiglia è nuovamente cacciata dagli israeliani e costretta a camminare scalza per nove giorni fino in Giordania. Durante il viaggio vengono picchiati dai soldati israeliani, al padre spaccano i denti, la madre perde un occhio. Ma anche in Giordania i profughi palestinesi subiscono la feroce repressione del regime di Re Hussein nel 1970 (“Settembre nero”); trentacinquemila palestinesi vengono uccisi, fra cui un fratello sedicenne di Alì, schiacciato sotto i cingoli di un carrarmato. Scappano in Siria nel 1973, ma dopo neanche un mese sono costretti a fuggire alla volta del Libano, nel campo profughi di Chatila a Beirut.

Israele invade il Libano nel 1982 e, nel mese di settembre, dopo il ritiro della “forza multinazionale di pace” (Usa, Inghilterra, Francia) e la partenza dei fedayn (combattenti palestinesi) concordata negli stessi accordi di pace, occupa Beirut, il campo di Chatila viene circondato e il 16 settembre i soldati israeliani danno il via libera alle milizie falangiste libanesi di Saad Haddad per "ripulire il campo dalla feccia palestinese". In due giorni di massacro muoiono dai tremila ai cinquemila palestinesi, prevalentemente donne e bambini rimasti nel campo, fra questi quasi tutta la famiglia di Alì: 19 persone. Lui si salva perché da 5 giorni è a Tripoli del Libano a lavorare. Torna a Chatila il 19, viene ferito, ma riesce ad entrare per scoprire l’amara verità: è rimasto solo.

Viene trasferito a Cipro, dove resta ottantasei giorni in ospedale; poi raggiunge la Grecia e quindi l’Italia; il 7 marzo 1983 approda a Brindisi per dirigersi a Milano. Qui è arrestato, picchiato e derubato, trascorre due settimane nel carcere di S. Vittore: questa è la strana accoglienza dei paesi civili e democratici che viene riservata a molti migranti.

Nel 1983 viene confinato nel campo profughi italiano di Farra Sabina (RI), assieme a iraniani, iracheni, pakistani e rumeni. In questo periodo scappa diverse volte, nel centro avvengono frequenti pestaggi e torture, anche con asciugamani bagnati, proprio per non lasciare segni e procurare il maggior dolore possibile. Alì e altri compagni decidono uno sciopero della fame che dura 29 giorni. La notizia esce fuori, il caso fa clamore, raggiunge gli organi di stampa, il centro profughi viene finalmente chiuso. Tutti i rifugiati vengono dispersi per decisione del ministero degli Interni, Alì viene trasferito provvisoriamente all’hotel Claudia di Roma.

Il 17 settembre del 1986, assieme ad un egiziano, un polacco e un nigeriano, viene trasferito a Cecina, nella “Casa Cardinale Maffi”, e poi a Fivizzano (MS), in un’altra struttura detentiva dello stesso istituto religioso, dove per due settimane rifiuta la somministrazione di farmaci e psicofarmaci, la prassi usata per sedare tutti gli “ospiti”. Scappa di nuovo e torna alla casa Maffi di S. Pietro in Palazzi, è il 1987. Dopo altri quattro anni movimentati — costretto a scappare dalle procedure burocratiche e repressive — il ministero dell’Interno gli concede il permesso di soggiorno, che gli permetterà di abitare in una casa e di avere un lavoro.

Durante il 2000 però continua il lavoro della burocrazia… L’Italia, come sappiamo, è diventata teatro di repressioni “antiterroristiche” con la conseguenza di macchinazioni giudiziarie nei confronti di arabi e musulmani. Nel maggio del 2000 anche Alì viene coinvolto in una montatura giudiziaria, da cui sarà completamente scagionato nel 2002 dallo stesso Pubblico ministero che aveva avuto l’arbitrio di accusarlo. La legge stabilisce che coloro che hanno problemi con la giustizia non possono avere il “permesso di soggiorno”, foglio di carta prezioso per i migranti e senza il quale sei considerato clandestino. Nonostante la completa assoluzione, la questura continua a non rilasciare il permesso di soggiorno ad Alì. Inoltre non gli viene rilasciato il passaporto perchè come palestinese non gli è riconosciuta alcuna nazionalità. I doveri però ci sono tutti: acqua, luce, affitto, gas, 21 anni di contributi versati e nessun aiuto da parte dell’amministrazione comunale.

Noi saremo al suo fianco, perché odiamo le ingiustizie, perché la solidarietà non conosce frontiere. Lottiamo con Alì.

Compagni di Cecina