CHIAMIAMO LAGER UN LAGER

Definire lager i 'centri di permanenza temporanea e di assistenza' per immigrati in attesa di espulsione — centri introdotti in Italia nel 1998 dal governo di sinistra con la legge Turco-Napolitano, in conformità con gli accordi di Shengen — non è un’enfasi retorica, come in fondo pensano anche molti di coloro che utilizzano tale formula. Si tratta di una definizione rigorosa. Prima di diventare centri di sterminio metodico, i lager nazisti sono stati campi di concentramento in cui venivano rinchiusi individui che la polizia considerava, anche in assenza di condotte penalmente perseguibili, pericolosi per la sicurezza dello Stato. Questa misura preventiva — definita 'detenzione protettiva' (Schutzhaft) — consisteva nel togliere tutti i diritti civili e politici ad alcuni cittadini. Fossero profughi, ebrei, zingari, omosessuali od oppositori politici, spettava alla polizia, dopo mesi o anni, decidere sul da farsi. I lager, cioè, non erano prigioni a cui si veniva condannati per qualche reato (nella sua più o meno aberrante definizione totalitaria), né un’estensione del diritto penale. Si trattava di campi in cui la Norma stabiliva la propria eccezione; in breve, una sospensione legale della legalità. Un lager, dunque, non dipende dal numero degli internati né da quello degli assassinii (fra il 1935 e il 1937, prima dell’inizio della deportazione degli ebrei, gli internati in Germania erano 7500), bensì dalla sua natura politica e giuridica.

Gli immigrati finiscono oggi nei centri di detenzione indipendentemente da eventuali reati, senza alcun procedimento penale: il loro internamento, disposto dal questore, è una semplice misura di polizia. Esattamente come accadeva nel 1940 sotto il regime francese di Vichy, quando i prefetti potevano rinchiudere gli individui 'pericolosi per la difesa nazionale o la sicurezza pubblica' oppure (si badi) gli 'stranieri in soprannumero rispetto all’economia nazionale'. Si può rinviare anche alla detenzione amministrativa nell’Algeria francese, al Sudafrica dell’apartheid, agli attuali ghetti per i palestinesi creati dallo Stato di Israele o alle varie Guantanamo sparse per il mondo.

Non è un caso se, rispetto alle condizioni infami dei centri per immigrati, i buoni democratici non rivendicano il rispetto di una legge quale che sia, bensì quello dei diritti umani (e al limite delle varie convenzioni internazionali firmate a difesa di questi). I diritti umani sono l’ultima maschera di fronte a donne e uomini a cui non rimane null’altro che la pura appartenenza alla specie umana. Non li si può integrare come cittadini, si fa finta di integrarli come Uomini. Sotto l’uguaglianza astratta dei princìpi, crescono dovunque le disuguaglianze reali.

Da questo punto di vista, l’introduzione della legge Bossi-Fini non ha modificato la sostanza, ha solo aggravato una situazione già esistente. La Bossi-Fini ha circoscritto la concessione del permesso di soggiorno alla durata esatta del contratto di lavoro (fuori dal suo essere forza-lavoro, l’immigrato non ha alcun motivo di esistere), ha raddoppiato il limite di permanenza nei lager (da 30 a 60 giorni) ed ha trasformato la clandestinità in reato — nel senso che chi vìola un decreto di espulsione può essere incarcerato —, mentre prima era un illecito amministrativo passibile di multa.

In diverse regioni sono in costruzione nuovi centri di detenzione al fine di rendere più efficiente la macchina delle espulsioni. I responsabili di tutto ciò non sono solo il governo e le amministrazioni locali. Una simile macchina dell’abiezione ha bisogno, per funzionare, del concorso di molte strutture pubbliche e private (dalla Croce Rossa che cogestisce i lager alle ditte che forniscono servizi, dalle compagnie aeree che deportano i clandestini agli aeroporti che organizzano le “zone d’attesa”, passando per le associazioni dette di carità che collaborano con la polizia). Si tratta, nel senso storico della parola, di collaborazionisti, i quali si arricchiscono sui rastrellamenti, sulla prigionia e sulle deportazioni, per di più in nome di princìpi umanitari. E' in nome dell’Umanità, infatti, che oggi si bombarda, si creano campi profughi, si semina disperazione e morte. A fianco degli eserciti e delle polizie lavorano centinaia di organizzazioni non governative le quali si guardano bene dal denunciare le cause dei disastri in cui intervengono, interessate come sono a sfruttarne le conseguenze. Quello dell’umanitarismo è uno dei mercati del futuro, basta pensare che le ONG rappresentano già, prese tutte assieme, la settima potenza economica mondiale. Questi sciacalli popolano e compongono a vario titolo quella zona grigia di cui ha parlato Primo Levi riferendosi agli internati e a tutti i tedeschi che collaboravano attivamente con i nazisti.

Tutte queste responsabilità sono ben visibili e ben attaccabili. Dalle azioni contro i centri di detenzione (come è successo un paio di anni fa in Belgio, quando una manifestazione si è conclusa con la liberazione di alcuni clandestini), a quelle contro le “zone di attesa” (come in Francia, ai danni della catena di hotel Ibis, che fornisce le proprie stanze alla polizia) o per impedire i voli dell’infamia (a Francoforte, un sabotaggio dei cavi a fibre ottiche aveva messo fuori uso, qualche anno fa, tutti i computer di un aeroporto per un paio di giorni), mille sono le pratiche che si possono realizzare contro le espulsioni. L’ostilità verso i 'centri di permanenza temporanea' è il primo passo.

S.L.


MENTRE LA CITTA' DORME

Martedì 14 ottobre all'alba, in una "brillante operazione" coordinata da Zencher, la Polfer della stazione di Rovereto ha controllato i documenti e quindi arrestato quattro prostitute nigeriane non in regola con il permesso di soggiorno. Per il semplice fatto di essere povere e senza documenti (in assenza, cioé, di ogni reato), tre di loro sono state deportate in un lager - quelli che la lingua di Stato chiama «centri di permanenza temporanea» - vicino a Roma. La quarta è stata rinchiusa nel carcere di Rovereto in quanto già raggiunta in precedenza da un provvedimento di espulsione. Chissà quanti maschi perbene, in cerca la notte dei favori di queste ragazze, applaudiranno le forze di polizia per aver deportato un pezzo di miseria dalla loro (diurna) vista.

Sono milioni le donne e gli uomini che migrano nella speranza di trovare condizioni di vita un po' meno odiose, oppure per sfuggire a qualche guerra cui pure il governo italiano dà il suo contributo. Ricattati con il permesso di soggiorno, sono spinti ad accettare ogni tipo di lavoro e di alloggio, clandestinizzati per diventare merce ancora più sfruttabile. Quando non finiscono affogati (come è successo a più di settanta di loro qualche giorno fa nel sud Italia), trovano uno Zencher qualsiasi, una divisa a bloccare loro la strada verso il futuro, qualche oscuro funzionario, piccolo ingranaggio della macchina delle espulsioni. Cosa li aspetterà nei loro paesi (la miseria, la guerra, la morte?) ai Zencher non interessa. «Faccio solo il mio lavoro», dirà il poliziotto di turno, come hanno sempre ripetuto i piccoli e grandi gerarchi. Tutt'attorno l'indifferenza, la parte più estesa di quella «zona grigia» - come la chiamava Primo Levi - fatta di collaborazione con chi opprime, sfrutta, espelle. Continueremo a dimenticare i nostri migranti e il razzismo che trovavano ad accoglierli? Continueremo a leggere libri sulla deportazione nazi-fascista e a pensare che ora è tutto diverso, che noi non c'entriamo?

alcuni disertori della «zona grigia»

Rovereto, 17 ottobre 2003